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L’antisemitismo, il ddl Delrio e il rischio censura

20 Dicembre 2025 9 min lettura

L’antisemitismo, il ddl Delrio e il rischio censura

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A dicembre 2025, in Australia il primo ministro Anthony Albanese ha annunciato un pacchetto di nuove misure legislative di contrasto all’odio - con un focus specifico sull’antisemitismo - all’indomani dell’attacco terroristico di Bondi Beach durante una celebrazione di Hanukkah. Tra gli interventi proposti figurano pene più severe per i discorsi d’odio che promuovono la violenza, l’inclusione dell'odio come fattore aggravante nelle condanne per reati di minacce e molestie online, un’attenzione mirata ai cosiddetti “hate preachers”, i predicatori d’odio, nonché strumenti amministrativi anche in materia di visti e ipotesi di iscrizione in appositi elenchi delle organizzazioni che promuovono odio o violenza.

Il contrasto all’antisemitismo, alla luce dell’aumento degli episodi di intolleranza, è un obiettivo rilevante anche per il legislatore italiano. Il 20 novembre scorso è stato depositato in Senato, e assegnato alla Commissione Affari costituzionali il successivo 2 dicembre, il disegno di legge recante “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo e per il rafforzamento della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo nonché delega al Governo in materia di contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line” (n. 1722, cosiddetto “ddl Delrio” dal nome del primo firmatario). Il ddl si inserisce in un contesto in cui i dati sugli episodi antisemiti, in Italia e in Europa, mostrano un “forte incremento”, come sottolinea la Relazione illustrativa, sia in termini quantitativi sia per la qualità delle manifestazioni d’odio. Sono segnalati «invettive e stereotipi antisemiti nella realtà virtuale e nella vita quotidiana, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie. Si ravvisano altresì minacce a persone e istituzioni ebraiche, atti di discriminazione (...) e persino aggressioni fisiche in luoghi pubblici». La Relazione richiama i rapporti del Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo presso la Presidenza del Consiglio, basati anche sulle rilevazioni del Centro di documentazione ebraica contemporanea.

Il disegno di legge dedica particolare attenzione a due ambiti. Da un lato, le piattaforme online, nelle quali l’antisemitismo assume forme “liquide”: «più il linguaggio è veloce, più è facile che sia composto di aggressività», e «gli odiatori, se bloccati da una piattaforma si trasferiscono su un’altra, spesso più piccola, dove continuano a pubblicare i loro post antisemiti», si legge nella Relazione illustrativa. Dall’altro, gli ambienti scolastici e universitari, nei quali sono presenti linguaggi ostili e atteggiamenti di intolleranza che richiedono una risposta sistematica sul piano educativo e istituzionale. Su questo sfondo si colloca l’obiettivo dichiarato del ddl Delrio: aggiornare gli strumenti di prevenzione e contrasto dell’antisemitismo, in coordinamento con il Digital Services Act (regolamento UE 2022/2065, DSA) e con la Strategia nazionale per la lotta all’antisemitismo, adottata dalla Presidenza del Consiglio.

Le norme del Ddl Delrio

Il cardine del disegno di legge è rappresentato dall’articolo 1, che assume come definizione di antisemitismo quella adottata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), in coerenza con la risoluzione del Parlamento europeo del 2017 e con la delibera del Consiglio dei ministri del 2020. Si tratta di una definizione “operativa”, che non ha carattere vincolante, ma che il legislatore interno adotta come parametro di riferimento per l’applicazione della legge («ai fini della presente legge»), in particolare per la disciplina delegata sui contenuti online, nonché per l’attività dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) e delle piattaforme. 

L’antisemitismo è definito dall’IHRA come «una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti». Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree o non ebree e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto». Come ha spiegato il Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, la definizione è resa più chiara «dai cosiddetti “undici esempi” riportati nello stesso documento dell’IHRA, che esplicitano il diverso atteggiarsi della minaccia antisemita»: «una minaccia polimorfa».

L’articolo 2 conferisce al Governo una delega legislativa per adottare uno o più decreti legislativi per «rafforzare gli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme on line di servizi digitali», in lingua italiana, nel rispetto del DSA. La delega riguarda, in particolare, la definizione dei diritti degli utenti, degli obblighi delle piattaforme e dei poteri di intervento dell’AGCOM. L’articolo elenca poi i principi e criteri direttivi che dovranno guidare i decreti attuativi. La definizione IHRA è indicata come base concettuale che le piattaforme e AGCOM dovranno utilizzare quale «come categoria specifica e distinta all’interno della più ampia categoria delle espressioni d’odio in relazione ai contenuti veicolati dalle piattaforme, ivi inclusi quelli generati automaticamente da sistemi di intelligenza artificiale». 

Le piattaforme dovranno istituire canali di segnalazione che prevedano espressamente l’opzione “antisemitismo”. Ogni segnalazione dovrà essere identificata da un codice, comunicata all’utente ed eventualmente sfociare in una decisione di sospensione o rimozione del contenuto entro quarantotto ore, con successiva comunicazione dell’esito. In caso di rimozione, la piattaforma dovrà informare sia l’autore del contenuto sia gli altri utenti che lo hanno condiviso, commentato o visionato, indicando le ragioni dell’intervento.

Un ulteriore segmento della delega riguarda la recidiva: qualora lo stesso autore, o altri utenti che hanno diffuso un contenuto poi rimosso perché antisemita, continuino a pubblicarlo, andranno sospesi dall’uso della piattaforma per sei mesi. Le piattaforme saranno inoltre obbligate a tenere un registro bimestrale delle segnalazioni e delle decisioni adottate, da trasmettere ad AGCOM, che eserciterà un controllo periodico e potrà ordinare «immediatamente» le correzioni o gli interventi necessari in caso di errori o omissioni.

Un altro profilo rilevante riguarda l’obbligo di rimozione automatizzata. Qualora sia tecnicamente possibile «rinvenire automaticamente» la diffusione, da parte di altri utenti, di contenuti antisemiti già rimossi, la piattaforma dovrà procedere alla nuova rimozione immediata anche in assenza di ulteriori segnalazioni, informando comunque l’autore e gli altri utenti coinvolti. 

La delega disciplina, inoltre, un canale di segnalazione collettiva verso AGCOM: l’Autorità compilerà, in collaborazione con gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche, un registro di associazioni di utenti che, su richiesta, potranno trasmettere insiemi aggregati di segnalazioni di contenuti ritenuti antisemiti. All’Autorità viene demandata anche la definizione, con regolamento, del regime sanzionatorio per le piattaforme inadempienti e l’individuazione di procedure semplificate di cooperazione tra AGCOM, le piattaforme e gli organismi rappresentativi delle comunità ebraiche.

La seconda parte del ddl interviene sul mondo universitario e scolastico. L’articolo 3, richiamando l’art. 33 della Costituzione, ribadisce la libertà di insegnamento e di ricerca dei docenti universitari e sottolinea che essa può esplicitarsi anche attraverso collaborazioni con studiosi e dipartimenti stranieri. Alle università viene attribuito un dovere di tutela, garanzia e promozione di tali attività.

L’art. 4 prevede l’individuazione, in ogni università, di un soggetto interno incaricato di verificare e monitorare le azioni per il contrasto dei fenomeni di antisemitismo, «in linea con il codice etico dell’università» e in conformità con la Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo. Ai sensi dell’art. 5, le istituzioni scolastiche devono comunicare annualmente al Ministero dell’istruzione e del merito i dati sulle azioni intraprese per contrastare tali fenomeni.

Infine, la clausola di invarianza finanziaria, all’art. 6, esclude nuovi oneri per la finanza pubblica e impone alle amministrazioni interessate di provvedere alle nuove attività con le risorse disponibili.

La definizione di antisemitismo

La scelta di incorporare in un testo di legge una definizione, quella dell’IHRA, contenuta in un atto di soft law internazionale, cioè in un atto non normativo e non vincolante, solleva questioni di certezza del diritto. Da un lato, la definizione - pur contenuta in una legge - rischia di essere modificata ed evolvere nel tempo in modo non controllabile dal legislatore nazionale. Ed è un problema, dal momento che essa costituisce, nel sistema delle fonti interne, il criterio operativo che regola l’attività dell’AGCOM e delle piattaforme.

Dall’altro lato, la definizione, proprio perché contenuta in un atto di soft law, è connotata da formule ampie (ad esempio, «una certa percezione»), prive della tassatività richiesta a una fattispecie normativa. Il rischio di adottare un’enunciazione non puntualmente precisata è quello che siano identificate come manifestazioni antisemite delle posizioni che, pur criticando duramente l’assetto istituzionale o le politiche di Israele, si collocano nell’alveo del legittimo dibattito politico e giuridico. Secondo qualcuno questo rischio sarebbe mitigato dalla previsione, sempre nel documento dell’IHRA, che «le critiche verso Israele simili a quelle rivolte a qualsiasi altro paese non possono essere considerate antisemite». Ma la genericità anche di questa previsione la espone a interpretazioni discrezionali. 

Va anche detto che il bilanciamento con l’articolo 21 della Costituzione imporrebbe comunque che la definizione di antisemitismo sia interpretata in modo da non comprimere il legittimo dissenso politico e la critica anche radicale delle scelte di un governo straniero. Ma restano i dubbi, e quindi il rischio di compressioni indebite sulla libertà di espressione. Ad esempio, l’uso di categorie come “Stato razzista”, “apartheid” o “genocidio” riferite a Israele ricadrebbe automaticamente nel perimetro della legge Delrio? 

L’obbligo di rimozione dalle piattaforme

Quanto agli obblighi delle piattaforme di selezionare i contenuti da rimuovere e gli account da sospendere, il disegno di legge appare sbilanciato nelle garanzie per chi segnala rispetto alla tutela dell’utente che subisce la rimozione o la sospensione. Ad esempio, è vero che la “rimozione automatizzata” - quando la piattaforma decide che un certo contenuto è antisemita e lo rimuove, il medesimo contenuto viene eliminato automaticamente tutte le volte in cui riappare - rende più efficace il contrasto alla ri-diffusione seriale di contenuti d’odio. Ma il rischio è che vengano colpiti, attraverso la rimozione, anche usi legittimi di quello stesso contenuto – ad esempio in citazioni critiche o articoli di cronaca - con un potenziale effetto di compressione sulla libertà di espressione e di informazione.

In altre parole, è difficile pensare che il filtro delle piattaforme e dei loro sistemi di moderazione riesca a distinguere, in modo fine, tra invocazioni violente che negano il diritto all’esistenza di una popolazione e discussioni storiche, giuridiche o politiche sulla legittimità di un certo assetto statale o costituzionale. E l’AGCOM interviene solo in seconda battuta.

Quanto ai rapporti tra piattaforme e utenti, gli automatismi della rimozione e i tempi previsti dal ddl Delrio rischiano di essere in conflitto con la necessità di una valutazione, individuale, caso per caso, richiesta dal DSA. Alcuni commentatori hanno rilevato il rischio, da un lato, di overblocking, cioè di cancellazioni anche non dovute, con pensanti ripercussioni specie per chi usa le piattaforme anche per lavoro; dall’altro, di un freezing effect, un effetto congelamento sulla libertà di espressione, soprattutto in materie politicamente controverse come il conflitto israelo-palestinese. A quest’ultimo riguardo, la consapevolezza che alcune parole chiave fanno scattare il rischio di rimozione o sospensione potrebbe indurre a evitare di utilizzarle anche quando sarebbero appropriate per dibattere, ad esempio, sull’intento genocidario dell’azione del governo israeliano a Gaza, ai sensi della Convenzione del 1948.

La scelta di una disciplina specifica sull’antisemitismo

Un profilo controverso del disegno di legge è la decisione di concentrare l’intervento normativo esclusivamente sull’antisemitismo. È vero che la scelta trova giustificazione nella specificità storica dell’antisemitismo e nella rilevanza della memoria della Shoah. Tuttavia, dal punto di vista dell’eguaglianza formale e sostanziale di cui all’articolo 3 della Costituzione, la previsione di strumenti particolarmente invasivi solo per una forma di odio può apparire problematica se non si accompagna, almeno in prospettiva, a un disegno sistematico che ricomprenda altre forme di discriminazione. Si corre, inoltre, il rischio di una frammentazione normativa nella quale ogni categoria di hate speech venga disciplinata con interventi ad hoc, creando un mosaico legislativo disomogeneo e potenzialmente incoerente.

Università, scuole e libertà accademica 

La previsione di un soggetto interno preposto al monitoraggio delle azioni di contrasto all’antisemitismo, senza che il ddl operi una tipizzazione minima delle azioni richieste alle scuole e alle università, lascia a tale soggetto un ampio margine di discrezionalità. In un clima di forte polarizzazione, il rischio di strumentalizzazioni della definizione dell’IHRA non può essere ignorato: una volta recepita nella legge, tale definizione potrebbe essere utilizzata per mettere in discussione corsi, eventi, inviti o collaborazioni “sgraditi”, qualificandoli come espressione di antisemitismo, nonostante la libertà di ricerca e insegnamento di cui all’articolo 33 della Costituzione dovrebbe scongiurare questo esito. 

Quanto all’articolo 5 sulle scuole, se l’obbligo di comunicare annualmente le iniziative di contrasto all’antisemitismo non sarà accompagnato da investimenti in formazione, materiali didattici e supporto ai dirigenti e ai docenti, rischia di tradursi in un mero adempimento formale.

La clausola di invarianza finanziaria incide sulla concreta effettività delle misure delineate. In assenza di risorse dedicate, il rischio è che la nuova disciplina resti, almeno in parte, sul piano delle dichiarazioni di principio.

Conclusioni

Il ddl Delrio muove da un intento condivisibile: rafforzare gli strumenti di contrasto all’antisemitismo in un contesto in cui il fenomeno assume forme nuove, pervasive e spesso difficili da intercettare. Ha anche il merito politico di riportare al centro del dibattito pubblico la tutela delle persone ebree, in un ordinamento che comunque già prevede misure in tema di odio razziale.

Tuttavia, l’obiettivo di costituire un argine effettivo all’odio antiebraico rischia di non essere sorretto da un impianto normativo adeguato, considerati i numerosi profili di criticità che esso presenta. Criticità che richiederebbero puntuali interventi correttivi, qualora il testo proseguisse il suo iter. 

 

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Il caso dell’imam Mohamed Shahin e la strumentalizzazione politica da parte del governo

19 Dicembre 2025 7 min lettura

Il caso dell’imam Mohamed Shahin e la strumentalizzazione politica da parte del governo

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Lo scorso 15 dicembre 2025 la Corte d’Appello di Torino ha disposto la cessazione del trattenimento amministrativo dell’imam Mohamed Shahin nel Centro di permanenza per i rimpatri di Caltanissetta (CPR), ritenendo sulla base di una serie di argomentazioni che non vi fossero elementi idonei a sostenere una sua «concreta e attuale pericolosità».

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con l’ennesimo affondo contro i magistrati, ha subito commentato in un post sui social che non si può «difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici». La liberazione di Shahin è stata così immediatamente sottratta al piano giuridico – piano su cui si collocano le garanzie che presidiano la libertà personale, in caso di trattenimento per il rimpatrio – e incardinata nella narrazione politica della riforma della magistratura, con un'evidente strumentalizzazione in funzione del “Sì” al referendum.

Questa torsione comunicativa vizia il processo deliberativo alla base del voto al referendum stesso. La vicenda dell’imam non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri o con la creazione di due CSM, né con la creazione di un’Alta Corte disciplinare che svolga le funzioni esercitate finora dal CSM. Proviamo a spiegare.

I fatti

Nel corso della manifestazione pro-Palestina tenutasi a Torino il 9 ottobre 2025, Mohamed Shahin, imam attivo a Torino da molti anni, aveva detto di essere «d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre» - l’aggressione da parte di Hamas - aggiungendo che«non è una violazione, non è una violenza». La Digos di Torino aveva trasmesso le frasi alla Procura di Torino, ma il 16 ottobre il procedimento era stato immediatamente definito con l’archiviazione: quanto affermato dall’imam configurava una mera «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato», quindi lecita sulla base degli artt. 21 Cost. e 10 CEDU.

Ma il 24 novembre, in esecuzione di un decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, Shahin era stato prelevato e portato nel CPR di Caltanissetta in attesa di rimpatrio in Egitto. L’imam era stato ritenuto dal Viminale una «minaccia concreta per la sicurezza», in quanto «avrebbe intrapreso un percorso di radicalizzazione religiosa connotato da una spiccata ideologia antisemita», con l’aggravante di essere «in contatto con soggetti noti per fondamentalismo». 

Il 27 novembre, nel corso dell’udienza di convalida del trattenimento nel CPR, Shahin aveva affermato di essere contrario a ogni forma di violenza, di non sostenere Hamas, e che se fosse tornato in Egitto sarebbe stato arrestato, torturato e ucciso. Il giorno successivo, il trattenimento era stato comunque convalidato dall’autorità giudiziaria. I legali di Shahin avevano presentato ricorso.

Il trattenimento nel CPR

Nonostante in un CPR le persone si trovino in stato di detenzione, non si tratta di un carcere, ma del luogo in cui l’amministrazione trattiene uno straniero quando il rimpatrio dall’Italia non sia immediatamente eseguibile, ad esempio per svolgere gli adempimenti necessari al rientro nel paese di provenienza, e si reputa necessario evitare il rischio di fuga.

Il caso Shahin si colloca in un perimetro ancora più specifico: il trattenimento di un richiedente protezione internazionale. L’imam aveva, infatti, formulato tale richiesta all’inizio del trattenimento.Il quadro normativo è fornito dalla direttiva 2013/33/UE (“direttiva accoglienza”), che afferma un principio fondamentale: tale trattenimento può avvenire solo in circostanze eccezionali, motivate e nel rispetto di necessità e proporzionalità, con la garanzia di un controllo giurisdizionale effettivo e di un riesame a intervalli ragionevoli. Il riesame, in particolare, può avvenire «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Se quest’ultimo si fonda su una certa rappresentazione di rischio connessa alla persona detenuta, e quella rappresentazione cambia, va nuovamente valutata la restrizione della libertà della persona stessa.

La decisione

L’ordinanza della Corte d’Appello di Torino si colloca in questo sistema di garanzie. La Corte ha affrontato il merito del trattenimento, cioè i presupposti che dovrebbero giustificarne la prosecuzione. Il concetto decisivo è la “pericolosità” del soggetto, che dev’essere «concreta e attuale» per giustificare la compressione della sua libertà. In base all’emergere di «nuove informazioni», i giudici sono giunti alla conclusione che per l’imam tale pericolosità non fosse dimostrata con sufficiente solidità, disponendo pertanto la cessazione del trattenimento dell’imam nel CPR.

Le nuove informazioni hanno riguardato, in particolare, la circostanza che «il procedimento relativo alle frasi proferite alla manifestazione del 9.10.2025 (…) è stato immediatamente archiviato», trattandosi - come accennato - di una «espressione di pensiero che non integra gli estremi di reato». Un conto è «condivisibilità o meno di tali affermazioni e/o la loro censurabilità etica e morale», profili che non rientrano nel giudizio della Corte; altro conto è la possibilità di usarle nel «giudizio di pericolosità» della persona che le ha pronunciate, al punto da giustificarne il trattenimento. In altre parole, dette affermazioni non equivalgono in automatico a un indice sufficiente di pericolosità giuridicamente rilevante, quindi non sono idonee a motivare la privazione della libertà personale.

La Corte rafforza le proprie conclusioni osservando che la documentazione prodotta in giudizio «denota un concreto e attivo impegno» dell’imam «in ordine alla salvaguardia dei valori su cui si fonda lo Stato italiano, circostanza che si pone in netto contrasto con il giudizio di pericolosità»; che i contatti di Shahin «con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo sono isolati e decisamente datati (…) e sono stati ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida»; che l’imam -«presente in Italia da oltre 20 anni, nonché perfettamente integrato e inserito nel tessuto sociale del Paese - è soggetto completamente incensurato»; che, quanto alla denuncia di blocco stradale nei riguardi di Shahin, la sua condotta non era stata «connotata da alcuna violenza e/o altro fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità, atteso che il medesimo era meramente presente sulla tangenziale assieme ad altre numerose persone».

In base a tutte queste considerazioni - valutazione della Procura, incensuratezza, ulteriori circostanze emerse nel procedimento poste a base del giudizio di non pericolosità - la Corte d’Appello ha disposto la «cessazione del trattenimento nel CPR» dell’imam Mohamed Shahin.

Parallelamente alla decisione della Corte, in un procedimento distinto - riguardante la domanda di protezione internazionale formulata dall’imam e respinta in sede amministrativa dalla Commissione territoriale competente (Siracusa) - il Tribunale di Caltanissetta ha sospeso il rigetto della domanda di protezione, per cui l’espulsione non è, al momento, eseguibile.

Le prossime tappe

L’uscita dal CPR non chiude la vicenda. In primo luogo, resta il contenzioso sul trattenimento: la decisione di cessazione può essere impugnata nelle forme previste, e infatti il Viminale ha annunciato l’intenzione di procedere in questo senso. In ogni caso, il trattenimento non può proseguire in attesa dell’esito del giudizio, in forza delle garanzie che l’ordinamento appresta a tutela della libertà personale.

Inoltre, l’esecuzione dell’espulsione è condizionata dai giudizi pendenti e, soprattutto, dalla decisione sulla protezione internazionale: il rimpatrio, e quindi il trattenimento, può essere sospeso fino all’adozione di tale decisione.

I commenti della politica e il referendum sulla giustizia

Il caso dell’imam Mohamed Shahin è stato rapidamente spostato da esponenti della maggioranza di governo, in primis dalla presidente del Consiglio, sul campo della narrazione politica della riforma della magistratura.

L’intento è quello di costruire una campagna per il referendum confermativo basata non sui tecnicismi del diritto costituzionale, ma su una semplificazione comunicativa incentrata su casi-simbolo capaci di indurre determinate reazioni nell’opinione pubblica. In altre parole, un fatto di cronaca viene strumentalizzato al fine di sostenere il “Sì” al referendum, anche se con quest’ultimo il fatto non c’entra sostanzialmente niente.

La liberazione di Shahin è diventata, secondo questo schema, emblematica di ciò che non funzionerebbe nella giustizia italiana: se un giudice dispone la cessazione del trattenimento di una persona che la politica descrive come pericolosa, allora diventa difficile «difendere la sicurezza degli italiani», come afferma Meloni. È un passaggio retorico finalizzato a veicolare il messaggio che, se non si fa passare la riforma della magistratura, non si possono proteggere i cittadini. Su questa scia si inserisce anche l’uso del caso Garlasco, che giustificherebbe il “Sì” al referendum affinché non si ripeta una simile «vergogna», come l’ha definita Giorgia Meloni ad Atreju.

Tutto questo, se può funzionare dal punto di vista della comunicazione politica, sul piano giuridico si traduce in una forzatura mistificatoria. La riforma della magistratura, con la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con la creazione di due CSM, e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare non avrebbe cambiato l’esito della vicenda dell’imam, come pure di quella di Garlasco. In particolare, il fatto che, dopo la riforma,un magistrato accusato di un illecito disciplinare sarà giudicato dall’Alta Corte invece che dal CSM non eviterà che continuino a verificarsi casi giudiziari che restano senza soluzione, vicende chiarite solo in parte e procedimenti formalmente conclusi e poi riaperti, per nuove piste o nuovi elementi, come il caso Garlasco; né farà sì che una decisione discutibile o contestata, come quella relativa all’imam, diventi automaticamente un illecito a carico del magistrato che l’ha adottata.

Presentare la riforma come uno strumento per impedire esiti giudiziari controversi o per punire magistrati che emettono sentenze sgradite è, sul piano tecnico-giuridico, fuorviante; sul piano istituzionale, è un messaggio che merita seria preoccupazione.

 

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In tre anni il governo Meloni ha fatto poco o nulla

18 Dicembre 2025 7 min lettura

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In tre anni il governo Meloni ha fatto poco o nulla

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La manovra “seria ed equilibrata” del governo Meloni non è più abbastanza. Il Ministero dell’Economia ha annunciato in Commissione Bilancio un emendamento del governo per cambiare la manovra, con un netto aumento delle risorse messe a disposizione: si aggiungeranno infatti 3,5 miliardi a favore degli incentivi alle imprese, portando così l’importo della manovra da 18 miliardi a 22. Per quel che riguarda le coperture, però, il governo si trova in difficoltà. Inizialmente queste sarebbero arrivate da interventi sul sistema pensionistico, con l’aumento della finestra che i lavoratori che hanno maturato gli anni devono attendere per poter andare in pensione e con modifiche al riscatto della laurea. Ma membri della Lega hanno dichiarato di essere contrari a questa misura, denunciando ancora una volta l’intervento di una “manina” al MEF e anche la Presidente del Consiglio ha dichiarato che le norme verranno cambiate. 

L’emendamento che cambia sostanzialmente la manovra è sintomatico di una situazione economica che nel corso degli ultimi mesi ha dato più di qualche segnale di raffreddamento. A problemi come il caro vita e la crisi dell’industria, testimoniata dal persistente calo dell’indice della produzione industriale, se ne sono poi aggiunti altri: secondo le stime ISTAT il nostro paese si è trovato già quest’anno a un passo dalla recessione tecnica - due trimestri consecutivi di contrazione dell’economia: nell’ultimo trimestre la crescita è stata nulla, mentre in quello precedente si è assistito a un calo. 

La crescita del PIL si è appiattita nel corso dell’anno, con di fronte  uno scenario internazionale sempre più incerto che potrebbe pesare in un paese particolarmente esposto come il nostro. Anche il mercato del lavoro segue una dinamica simile. 

Le previsioni economiche per il prossimo anno, poi, sono tutto fuorché rosee: dopo anni a vantare una crescita superiore ad altri paesi, l’Italia è tornata tra i fanalini di coda in Europa: le previsioni  della commissione europea stimano una crescita del PIL dello 0,4 per quest’anno, e dello 0,8 nei prossimi due anni. La Francia, che si trova in una situazione di forte instabilità politica per l’assenza di una maggioranza all’assemblea e che ha visto l’avvicendarsi di tre Primi Ministri, avrà una crescita superiore alla nostra per tutto il periodo. 

È un cambio di scenario profondo rispetto a quanto visto in questi anni. Finora il governo Meloni si è trovato a gestire un’economia in crescita, nonostante i problemi strutturali, con una maggioranza stabile e una rinnovata credibilità internazionale dovuta anche alla situazione in Francia e Germania a livello politico. A favore di Meloni ci sono anche i soldi del PNRR, un progetto che però va verso compimento. 

I vari fattori citati hanno permesso al governo Meloni una politica di mera amministrazione e una propaganda sui risultati economici: non è di certo l’unico governo ad averlo fatto, ma è necessario sottolineare che la crescita degli occupati e la performance del PIL che hanno contraddistinto il nostro paese negli ultimi anni sono solo marginalmente attribuibili al governo Meloni

Se la rinnovata credibilità a livello internazionale - che non è di per sé una cosa positiva, visto l'allineamento con l’amministrazione Trump e i tentativi di svolta a destra della Commissione Europea - e una gestione prudente dei conti pubblici possono beneficiare il consenso del governo, è sull’economia che si gioca davvero la partita. Meloni è consapevole che un peggioramento della situazione economica del paese potrebbe portare a un calo dei consensi, tema particolarmente importante visto che ormai si è in ottica Elezioni Politiche del 2027. 

Per questo le misure contenute nell’emendamento rappresentano un tentativo di dare maggior slancio all’economia, con una serie di incentivi alle aziende. La speranza è che questi soldi vengano utilizzati per rilanciare la produzione e l’occupazione, in un’ottica di breve periodo con guadagni che sono più per consenso del il governo in carica che per la crescita economica di lungo periodo.  

Tre anni di nulla 

Ma questo ci porta a un problema più profondo. Sono passati oltre tre anni da quando il governo Meloni è entrato in carica. Davanti a un paese che soffre di problemi strutturali che sono noti - come la crescita fiacca, performance della produttività del lavoro negativa, fuga dei cervelli solo per citarne alcuni - che provvedimenti ha preso il governo che vanta la maggioranza più stabile da decenni a questa parte? 

Questa domanda lascia ammutoliti. Anche chi si interessa al dibattito politico, al di là delle opinioni contrastanti, non può che realizzare che in tre anni il governo Meloni ha fatto poco o nulla. E può essere una buona strategia finché l’economia cresce, ma quando i segnali di rallentamento diventano evidenti allora i problemi taciuti finora tornano in primo piano. 

La strategia del governo Meloni, finora, è stata di mera amministrazione e cambiamenti marginali. 

I provvedimenti principali hanno riguardato tagli delle tasse modesti per redditi già martoriati dall’inflazione, flat tax incrementali il cui impatto sulla crescita è poco o nulla, incentivi per la natalità che non riescono neppure a scalfire l’inverno demografico. 

In materia di lavoro, pur intestandosi erroneamente la crescita degli occupati, si è visto solo il Decreto Lavoro, un provvedimento che va soltanto a ridurre le tutele di lavoratori e lavoratrici senza prendere di petto il problema. 

Sui salari, il governo può vantare un aumento delle retribuzioni nominali, che però non hanno tenuto testa all’inflazione. E così l’Italia si ritrova a essere, ancora una volta, tra i fanalini di coda: la ripresa dei salari reali è stata più lenta rispetto alla maggior parte dei paesi europei. Come fa notare il giornalista economico Federico Fubini, questo fenomeno può essere una delle cause del malcontento economico che si percepisce nel paese.

Per quel che riguarda le politiche per le imprese, è interessante quanto detto dal palco di Atreju, dalla Presidente del Consiglio. Meloni ha affermato che il suo governo è al fianco dell’Italia che produce. Sarebbe utile chiedere a Meloni una prova concreta e tangibile di tutto ciò. Perché i fatti sembrano smentire questa tesi. 

L’indice di produzione industriale è ancora in calo, con il governo Meloni che non ha fatto nulla per invertire la tendenza. Le promesse di una nuova strategia per il paese, a partire dal settore dell’Automotive, è finita nel dimenticatoio. Su altre crisi, come quella dell’acciaieria ILVA, il governo appare in difficoltà. 

Quindi, davanti a problemi profondi come quelli che si trova ad affrontare l’economia italiana, il governo Meloni non ha saputo dare risposte in questi tre anni. Al contrario, ha sperato che la fase di crescita continuasse in modo tale da poterlo rivendicare alle prossime elezioni, assieme alla stabilità offerta al paese. Si tratta di una scommessa, alla luce di quanto detto, rischiosa per il governo. Ma, al di là dei ragionamenti elettorali, c’è l’occasione persa. Grazie a una maggioranza solida, il governo Meloni avrebbe potuto mettere in piedi una strategia di lungo periodo per cambiare un’economia che ha cessato di creare ricchezza ormai trent’anni fa. Il rischio, ora, è che quegli stessi problemi riemergano nel dibattito pubblico. 

L'opposizione deve diventare adulta

Questo porta necessariamente al ruolo che può giocare l’opposizione. Infatti, le circostanze internazionali e nazionali hanno garantito al governo Meloni un forte vantaggio rispetto all’opposizione. Con un’economia che rallenta, si apre però uno squarcio per erodere questo consenso. 

Ma se la situazione gioca a favore dell’opposizione, i partiti e i loro rappresentanti devono saperla sfruttare. In questi anni, l’opposizione non è stata in grado di porsi come un’alternativa credibile alla maggioranza di governo agli occhi degli elettori e delle elettrici. Dopo la proposta comune sul salario minimo- un’ottima idea scritta male, a voler essere sinceri- il blocco alternativo a Meloni è parso più interessato a dinamiche interne al partito o a posizionamenti strategici. 

Il PD, con l’avvento della Segreteria Schlein, è stato paralizzato da lotte intestine. Da fuori, l’idea che traspare è quella di un partito ripiegato su se stesso, con la minoranza del partito intenta a tallonare la segreteria.

Con l’ultima direzione nazionale, in cui la corrente del Presidente del Partito e sfidante di Schlein alle primarie Stefano Bonaccini, sembra possibile uno sforzo unitario. Lo sforzo unitario contro il governo Meloni- spinto anche da esigenze di carattere elettorale- è condiviso anche da partiti che alla precedente tornata elettorale si erano allontanati dal blocco di centrosinistra come Italia Viva. Il partito di Matteo Renzi, assieme a Più Europa, rappresenta l’asse centrista di questa opposizione che può giocare un ruolo in una strategia di opposizione al governo Meloni, con Verdi-Sinistra Italiana a coprire invece le posizioni più di sinistra. 

Resta però l’enigma del Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte. Alle elezioni politiche del 2022, la performance del movimento era risultata superiore alle attese-quando il governo Draghi era caduto, i sondaggi lo davano sotto al 10 per cento- grazie alla difesa di misure di contrasto alla povertà come il reddito di cittadinanza. Ma questa virata a sinistra sembra ormai passata. Quando il governo Meloni ha riformato il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo con uno strumento che copre meno famiglie senza però portare a grandi risparmi economici, il Movimento 5 Stelle non è stato in grado di capitalizzare, opponendosi solo blandamente in parlamento. Al contrario, i temi su cui sembra essersi indirizzato maggiormente il Movimento riguardano la politica estera, con posizione sull’invasione russa dell’Ucraina che ricalcano quelle dell’amministrazione Trump. 

Il futuro si gioca ora

Il rallentamento dell’economia italiana rischia dunque di portare alla luce tutti i limiti di una stagione politica segnata dall’assenza di visione- ma con molta strategia. Il governo Meloni ha potuto beneficiare di una congiuntura favorevole, di una maggioranza stabile e delle risorse del PNRR, ma non ha usato queste condizioni per affrontare i problemi strutturali che frenano il paese da decenni. Ora che la crescita mostra segni di rallentamento, quella strategia di mera amministrazione mostra tutta la sua fragilità e i problemi rimossi torneranno probabilmente al centro del dibattito pubblico.

Ma la crisi che si profila non riguarda solo la maggioranza. Se il governo appare impreparato ad affrontare una fase economica più complessa, l’opposizione non può limitarsi ad attendere che il consenso si eroda da solo. Senza una proposta credibile, una visione alternativa di sviluppo e senza la capacità di superare divisioni e ambiguità, anche il rallentamento dell’economia rischia di trasformarsi in un’occasione mancata per l’opposizione. In gioco non c’è soltanto il futuro elettorale dei partiti, ma soprattutto la fuoriuscita dalla stagnazione lunga trent’anni che affligge il nostro paese.

Immagine in anteprima via governo.it

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Pressioni e minacce russe sul Belgio per bloccare i beni destinati all’Ucraina

18 Dicembre 2025 4 min lettura

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Pressioni e minacce russe sul Belgio per bloccare i beni destinati all’Ucraina

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Secondo le agenzie di intelligence europee, politici e alti dirigenti finanziari belgi sono stati oggetto di una campagna intimidatoria orchestrata dai servizi segreti russi con l'obiettivo di fare pressione sul Belgio per bloccare l'utilizzo di 140 miliardi di euro di beni destinati all'Ucraina.

Funzionari della sicurezza hanno detto al Guardian che sono state prese di mira deliberatamente figure chiave di Euroclear, la depositaria che gestisce la maggior parte degli asset russi congelati in Europa, la cui liquidità l’Unione Europea sta valutando di utilizzare per sostenere un “prestito riparatore” all’Ucraina.

I leader UE riuniti in questi giorni a Bruxelles stanno discutendo se approvare un prestito iniziale di 90 miliardi di euro all’Ucraina, garantiti dai beni russi congelati. 

In base al piano, l'Ucraina riceverebbe in totale un prestito di 140 miliardi di euro, rimborsato dopo la fine della guerra e solo dopo che Mosca abbia risarcito Kiev per i danni causati dall'invasione. Il Belgio chiede garanzie temendo conseguenze legali, tra cui azioni legali da parte di Mosca, e la prospettiva di rimanere “solo” quando la Russia chiederà la restituzione del denaro. Da parte della Commissione, si sta lavorando per inserire nella proposta un sistema di garanzie solide al Belgio. Secondo quanto riporta Reuters, la Germania avrebbe già garantito coperture per il valore di 50 miliardi di euro in caso di provvedimenti legati favorevoli alla Banca Centrale Russa e anche altri paesi sono sulla stessa lunghezza d’onda. 

La Russia ha avvertito che l'utilizzo delle attività equivarrebbe a un furto e la sua banca centrale ha dichiarato che chiederà 230 miliardi di dollari di risarcimento a Euroclear in una causa intentata presso i tribunali russi: “Le azioni del depositario Euroclear hanno causato un danno alla Banca di Russia, derivante dalla sua incapacità di disporre di fondi monetari e titoli”, si legge nella dichiarazione.

È dal 2022 che la Banca Centrale Russa presenta cause presso tribunali russi senza conseguenze. Come spiegano diversi analisti, una causa presentata in un tribunale nazionale russo ha poche probabilità di influire. E se anche dovesse aver successo, sarebbe difficile far valere una sentenza al di fuori di giurisdizioni amiche della Russia. “Qualsiasi sentenza di un tribunale russo non sarebbe riconosciuta o eseguita nell'UE o nel Regno Unito per motivi di ordine pubblico”, ha scritto un gruppo di giuristi internazionali in un documento riportato da POLITICO, aggiungendo che è improbabile che la banca centrale russa presenti ricorsi nelle giurisdizioni del Regno Unito o dell'UE perché così facendo rinuncerebbe alla sua immunità sovrana.

Inoltre, una richiesta presentata alla Corte di giustizia dell'Unione europea, alla Corte internazionale di giustizia o a qualsiasi istituzione internazionale comparabile si rivelerebbe altrettanto problematica, soprattutto perché la Russia non accetta la loro giurisdizione, sostengono gli autori di un documento di Covington & Burling.

Secondo i funzionari della sicurezza europea la campagna intimidatoria si è concentrata su alcune figure chiave: Valérie Urbain, amministratore delegato di Euroclear, e altri alti dirigenti del gruppo di servizi finanziari. Euroclear ha rifiutato di commentare: “Qualsiasi potenziale minaccia viene trattata con la massima priorità e indagata a fondo, spesso con il supporto delle autorità”.

Un'indagine condotta all'inizio di dicembre da EUobserver aveva parlato delle minacce rivolte a Urbain nel 2024 e nel 2025 e al fatto che lei abbia chiesto la protezione della polizia belga. La richiesta è stata respinta e lei e altri dirigenti dell'azienda hanno assunto, prima, una società di sicurezza belga, e successivamente una francese per avere delle guardie del corpo. Un'intervista a Urbain pubblicata da Le Monde a novembre riportava che era stata accompagnata da una guardia del corpo per più di un anno.

All'inizio di dicembre, il primo ministro belga, Bart De Wever, aveva detto in un’intervista con il quotidiano La Libre: "E chi crede che Putin accetterà con calma la confisca dei beni russi? Mosca ci ha fatto sapere che, in caso di sequestro, il Belgio e io personalmente ne subiremo le conseguenze per l'eternità".

Un portavoce del ministro degli Esteri belga (e vice primo ministro), Maxime Prévot, che ha partecipato ai colloqui sul prestito di riparazione, ha affermato di non avere “alcuna informazione” riguardo a minacce nei suoi confronti.

Come detto, secondo il parere di giuristi internazionali, il rischio di una causa legale contro il Belgio per il congelamento dei beni è minimo. E le criticità di carattere giuridico più importanti sono state superate quando l'UE ha votato la scorsa settimana per congelare i beni russi a tempo indeterminato.

Lo scorso fine settimana il Consiglio dell’Unione Europea ha infatti stabilito il divieto temporaneo di trasferire gli asset alla Banca Centrale Russa fino a quando ci sarà la possibilità che le risorse finanziarie o altri beni vengano messi a disposizione della Russia per consentirle di proseguire la guerra di aggressione contro l’Ucraina e persisterà il rischio di un ulteriore deterioramento della situazione economica europea.

La decisione presa rappresenta un chiaro segnale agli Stati Uniti di Donald Trump e alla Russia di Vladimir Putin. Nella bozza del Piano di Pace, infatti, si prevedeva che gli asset russi sarebbero stati utilizzati per la ricostruzione dell’Ucraina ad opera degli Stati Uniti, dividendo i profitti con la Russia, oltre a progetti congiunti tra i due paesi. Il congelamento a tempo indeterminato chiarisce che l’Europa non può essere lasciata fuori dai negoziati e così l’Ucraina. Per appropriarsi di quei fondi, infatti, servirebbe una maggioranza di paesi europei favorevoli. E quindi rappresenta, già ora, un importante arma negoziale dell’Europa per la situazione in Ucraina.

“L'adozione del piano completo di prestiti di riparazione non comporterà nuovi rischi significativi e tali rischi trascurabili sono ampiamente compensati dai benefici della proposta per la pace, la sicurezza, la stabilità e la sostenibilità a lungo termine dell'Ucraina”, scrivono i giuristi.

 

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La Russia immaginaria di Alessandro Di Battista è la vera “russofobia”

17 Dicembre 2025 18 min lettura

La Russia immaginaria di Alessandro Di Battista è la vera “russofobia”

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Paper First, casa editrice del Fatto Quotidiano, ha inaugurato da poco la collana SmartBook, “approfondimenti originali, pensati per chi vuole capire il mondo in modo rapido ma accurato”. La prima uscita è La Russia non è il mio nemico, di Alessandro Di Battista. 

Il titolo richiama una recente campagna di manifesti pro-Cremlino, oggetto di interrogazioni parlamentari sul loro finanziamento, con conseguente rimozione da parte del Comune di Roma. Testa di ponte di quell’operazione nella capitale fu un ex dirigente del Movimento 5 Stelle romano. I manifesti furono affissi in almeno dieci città italiane: a Modena, Parma, Pisa, e Verona l’operazione fu rivendicata dall’associazione Sovranità Popolare. 

Quella campagna, nel professare sentimenti di amicizia con la Russia, metteva sullo stesso piano la fornitura di armi a Israele e Ucraina, lavando via i crimini degli “amici”. Nel 2024 il primo paese era oggetto di un procedimento di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia (caso Sudafrica contro Israele), e pendeva la richiesta della Corte Penale Internazionale di un mandato di cattura verso il suo premier e il ministro della Difesa (oltre che verso i tre leader di Hamas responsabili degli attacchi del 7 ottobre 2023). 

La stessa Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di cattura per Vladimir Putin, la ministra per l’Infanzia Maria Lvova Belova e due alti vertici militari russi; non ne ha mai richiesti né emessi verso esponenti del governo o dell’esercito ucraino. Mentre la Corte Internazionale di Giustizia ha richiesto alla Russia il ritiro delle truppe. La campagna dei manifesti tracciava un’equivalenza morale senza considerare le basi del diritto internazionale, chiedendo di fatto di lasciare l’Ucraina in balia dell’invasore, in nome dell’amichettismo internazionale. 

Il libretto di Di Battista è la prosecuzione ideale di quei manifesti, ma con altri mezzi espressivi. La brevità del testo e il suo ancorarsi rabbioso all’attualità farebbero pensare a un pamphlet. Una volta letto, la quantità di sciocchezze che riesce a condensare, unita alle manipolazioni di fatti piegati a tesi pre-confezionate, ne fa invece un testo utile a capire come funziona un certo tipo di propaganda, e quali danni può produrre per chi eleva certe figure a paladini di nobili cause. Del resto la vicinanza di Di Battista con il Cremlino viene da lontano, almeno da quando era nel Movimento 5 Stelle e fece parte della delegazione che incontrò Russia Unita. Di ritorno da quell’incontro, depositò una proposta di legge per far uscire l’Italia dalla NATO.

La Russia come Fantasylandia

Alessandro Di Battista costruisce La Russia non è il mio nemico come un contro-racconto. La tesi è che l’Europa è “bombardata” da un clima russofobico, perciò conoscere la Russia “reale” per capirne la storia, le ragioni, perfino “quel che passa nella testa dei russi”. Nel libro questa promessa torna più volte: basterebbe conoscere la Storia per smontare l’allarme, riconoscere che un Occidente con la bava militarista alla bocca “provoca” e che le istituzioni internazionali applicherebbero due pesi e due misure.

La Russia di Di Battista è una Fantasylandia dove tutti sono felici e il male è una forza esterna. Le descrizioni paesaggistiche sembrano prese da un sito turistico a basso budget. Vorrebbero suscitare meraviglia e fratellanza, ad esempio evidenziando che Mosca ha sette colli, proprio come Roma. Non esiste una vera e propria cultura russa, ma un’essenza immutabile nella storia, tutto sommato pacifica: “Non fa parte del dna russo invadere e conquistare territori a meno che non siano abitati da russi”.

Una sciocchezza che lava via invasioni e pulizie etniche compiute dalla Russia e dall’Unione Sovietica. Una sciocchezza che però viene dritta dritta dalla propaganda del Cremlino: nel 2022 il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, disse in un’intervista alla TV di Stato che “La Russia non ha mai attaccato nessuno nel corso della sua storia”. Ma è un tormentone che non nasce certo in quell’occasione.

Di Battista annacqua la versione del Cremlino, la localizza per il pubblico italiano. Qualcosa la Russia ha invaso, ma c’erano di mezzo popolazioni russe, quindi era un’invasione giustificata, l’unica eccezione, l’Afghanistan invasa dall’Unione Sovietica, ha fatto passare la voglia di sgarrare a suon di 25mila morti. Continua infatti Di Battista:

E questa convinzione è ancora più forte in virtù dei fallimenti registrati quando, in epoca sovietica, i russi hanno messo piede in territorio straniero. Gli oltre 25.000 soldati dell’Armata rossa morti durante la disastrosa guerra in Afghanistan sono un ricordo ancora vivo nelle menti dei russi.  

Anche annacquata, l’opera di revisionismo resta tale. Cito solo alcuni esempi: la Guerra di Crimea nell’Ottocento, l’invasione della Polonia e della Finlandia nel 1939, di Lituania, Lettonia ed Estonia nel 1940, della Manciuria nel 1945, dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968, della Cecenia (nel 1994 e nel 1999) e della Georgia nel 2008. A queste guerre bisogna poi aggiungere il genocidio dei circassi e la pulizia etnica dei tatari

A Di Battista certe distinzioni servono per mettere in contiguità le fantomatiche guerre a tutela dei “russi”, e quindi anche la presente invasione dell’Ucraina. Roba della Russia, non dell’Europa. Una versione cui non crede nemmeno più Putin, che intervistato da una giornalista indiana nei giorni scorsi ha persino fatto fatica a rispondere a una domanda sul perché il suo esercito avesse bombardato e massacrato quegli ucraini che parlano russo, hanno parenti in Russia e viaggiano in Russia. Da questo punto di vista, è più apprezzabile Carlo Rovelli, il quale, evidentemente accecato dall’amore, propina sul Corriere la stessa manfrina:

L’Europa non ha ragione di avere paura della Russia, che da sempre non cerca altro, talvolta in maniera troppo brusca e scomposta, certo, che un modo di essere invitata a tavola e non essere schiacciata. [...] La Russia è stata ripetutamente attaccata e invasa dall’Europa nella storia [...] e non ha mai attaccato l’Europa.

Questo impianto discorsivo occulta l’autonomia decisionale (nessuno obbliga a invadere, a commettere pulizie etniche o genocidi) e le responsabilità (se invadi, compi pulizie etniche e genocidi, ne devi rispondere), usando di volta in volta tratti essenziali come il “dna” o “l’animo russo”. 

La “fantasylandia” si vede bene anche nel modo in cui il libro racconta lo sguardo del Sud globale. Nelle pagine sulla RUDN (l’Università russa dell'amicizia tra i popoli) gli studenti congolesi diventano prova vivente che l’imperialismo russo sarebbe una paranoia europea: “nessuno di loro ritiene la Russia un paese spiccatamente imperialista”. Pazienza se, proprio nell’est della Repubblica Democratica del Congo, la parola “russi” è già un’etichetta elastica che copre mercenari dell’Est Europa presenti sul terreno e, sullo sfondo, l’idea di Mosca come potenza pronta a “intervenire”, mentre il Cremlino lavora anche su canali istituzionali, come l’ipotesi di un accordo di cooperazione militare con Kinshasa. 

Il “non imperialista” viene raccontato mentre si prepara un copione già visto altrove, dove l’offerta di sicurezza e addestramento apre la porta all’influenza politica e all’accesso alle risorse. Ma se lo fa la Russia, par di capire, smette di essere colonialismo e diventa rivoluzione. Del resto è in nome della lotta contro la “repressione neocoloniale” che Niger, Mali e Burkina Faso, tre regimi che hanno tratto giovamento da questi “pacchetti” di sopravvivenza, hanno annunciato il ritiro dalla Corte Penale Internazionale.

Leaderismo: popolo, leader e riti come identità unica

Nonostante Di Battista concioni come uno Jacopo Ortis del campismo, la lettura essenzialista del popolo russo ha come proseguimento naturale l’identificazione con il leader. Senza uno sguardo critico, la Russia non può che coincidere con le cerimonie ufficiali sorte per riscrivere la storia, come nel caso della Grande Guerra Patriottica e nell’occultamento delle complicità sovietiche. Nel descrivere La Madre Patria chiama!, la statua sulla collina di Mamaev Kurgan, Di Battista comprime ad esempio culto della patria, culto del capo e propaganda anti-ucraina:

Il Mamaev Kurgan è un luogo sacro per tutti i russi, non soltanto per i nostalgici dell’Unione Sovietica, per i nazionalisti più estremi o per i sostenitori di Putin, i quali, piaccia o meno, sono la maggioranza. Al Mamaev Kurgan salgono i giovani, gli anziani, gli ultimi veterani. C’è chi porta i bambini, magari pronipoti di un eroe o di un’eroina di guerra. A Stalingrado furono migliaia le donne che si distinsero in battaglia; non erano solo staffette e infermiere, erano cecchini, carristi, fanti, aviatori. C’è chi sale le scale indossando una maglietta con la z, il simbolo dell’Operazione speciale in Ucraina, chi piange durante il cambio della guardia e chi deposita un garofano rosso sulla tomba di Čujkov, l’uomo dalla volontà di ferro, l’unico maresciallo dell’urss seppellito al di fuori di Mosca.

I cerimoniali di regime e il consenso per il leader sono dati naturali. Se quest’ultimo è presentato in negativo, è per responsabilità altrui: “Basterebbe conoscere la Storia della Russia, quantomeno la storia degli ultimi due secoli, per capire che le continue provocazioni da parte occidentale [...] non fanno altro che compattare il popolo russo intorno ai suoi leader”.

In questa cornice, i russi che non coincidono con la mistica popolo-Madre Patria-Leader spariscono. siti come Mediazona, creato dalle co-fondatrici delle Pussy Riot, giornali come Novaya Gazeta. Le pagine di Anna Politkovskaja su Putin e la Cecenia, o il dossier del politico di opposizione Boris Nemcov sulle intenzioni del regime di invadere l’Ucraina. L’organizzazione Memorial, costretta all’esilio e presente anche in Italia.  Nella Russia reale, cioè quella verificabile tra le maglie della censura e dei dati difficilmente reperibili, questi campioni di verità e giustizia esistono o sono esistiti. In quella “amica” di Di Battista no. Come si può “capire quel che passa nella testa dei russi” e allo stesso tempo cancellare sistematicamente quei russi che non entrano nell’identikit popolo-leader?

Immaginate un Alexandre Di Baptiste che dalla Francia scrive un libro sull’Italia, adottando solo e soltanto la prospettiva del governo attualmente in carica. Filtrando quindi eventi storici come il colonialismo, il fascismo o il terrorismo nero alla luce di cosa pensano i vari Meloni, Gasparri o La Russa; attraverso quel revisionismo sulle foibe volto a presentarci come vittime da riscattare durante la Seconda Guerra Mondiale; ignorando completamente ogni organizzazione o voce autorevole della società civile. Cosa pensereste di un autore così? Direste come minimo che è un pennivendolo.

Se la storia russa è manifestazione del suo destino, tutto ciò che osa opporsi a essa è un’aberrazione. Naturale quindi che, lontano dal leaderismo e senza nemici utili alla causa, il popolo per Di Battista meriti diffidenza o disprezzo, senza autonomia di azione. Ecco quindi che l’Ucraina è un paese corrotto, nazista, e le rivolte del 2014 sono “un golpe”. Sono andati al potere i militari, è stata riscritta la Costituzione con i fucili puntati? No, si sono avute elezioni regolari. Ma Viktor Yanukovych era un leader filo-russo, e tanto basta. Ci sono stati morti? Sì, e sono fatti che vanno valutati per avere la comprensione esatta di cosa è successo, non per confermare una tesi sballata.

Gaslighting sulla guerra ibrida e cospirazionismo sul riarmo: la politica come sospetto permanente

Una terza chiave di lettura riguarda gli episodi “opachi”, dove l’incertezza nell’attribuire responsabilità è parte integrante della strategia d’azione, come per la guerra ibrida e le azioni di sabotaggio. Qui la retorica sfocia nel gaslighting: se un episodio non è dimostrato al 100% nell’immediato, allora la sua sola menzione sarebbe propaganda; e se un’istituzione prende una decisione nel dubbio (per sicurezza, deterrenza o prudenza), quella decisione diventa “russofobia”. Gli errori sono ovviamente la pistola fumante per poter dire “visto? Avevo ragione”. Si contesta il diritto stesso di collegare episodi e responsabilità quando l’attribuzione non è immediata o pubblicamente dimostrabile. 

Così le interferenze del GPS sull’aereo di Ursula von der Leyen, o gli sconfinamenti di droni del 10 e 13 settembre 2025 diventano fake news create per giustificare la corsa al riarmo. Pazienza se i casi attribuiti dal 2022 sono circa un centinaio, tra cui l’uccisione di un disertore e il tentato avvelenamento di una giornalista russa rifugiatasi in Germania per evitare persecuzioni. Pazienza per gli allarmi delle agenzie di intelligence di almeno dieci paesi europei: poiché non ci si può fidare di loro, essendo parte di una cospirazione al riarmo, quegli allarmi vanno ignorati. Intanto droni non identificati continuano a violare i cieli europei: a Di Battista non preme dare una spiegazione, a meno che non passi per lo screditare le istituzioni chiamate a spiegare cosa sta succedendo.

Il suo scetticismo viene meno quando deve infatti denunciare non le responsabilità, ma il male incarnato dall’Ucraina e dall’Occidente. Il sabotaggio del Nord Stream è presentato come un’azione compiuta da ucraini “supportati presumibilmente dai servizi segreti occidentali a cominciare dalla cia”. Per il momento però, le ricostruzioni più attendibili, tra cui una del Wall Street Journal, non menzionano affatto questo coinvolgimento; a dare responsabilità piena agli Stati Uniti fu l’inchiesta fuffa di Seymour Hersh, che è stata proprio smentita dalle indagini successive. Il WSJ fa inoltre presente che tanto la CIA quanto Zelensky avrebbero provato a fermare il piano. Ma siccome, all’opposto di Putin, Zelensky è presentato da Di Battista come un cattivo della Spectre e l’Ucraina come un burattino degli Usa (almeno con Biden), questo elemento svanisce, togliendo ogni possibilità di ricostruzione e comprensione dell’accaduto. 

Ma anche qui il punto focale è l’apologo morale per screditare:

Cosa avrebbero detto e fatto giornalisti e politici se fosse stato Valerij Vasil’evič Gerasimov, il Capo di stato maggiore generale delle Forze armate russe, a guidare il sabotaggio di due gasdotti nel cuore di un mare europeo?

In realtà questa domanda è aperta sulla pagina, ma ampiamente chiusa nella storia degli ultimi decenni. La Russia ha potuto infatti invadere paesi, abbattere aerei civili come il volo MH17, compiere o tentare assassini in territorio europeo, e l’ha fatta sostanzialmente franca. Le prime timide reazioni si sono avute nel 2014, con l’invasione della Crimea. Se c’è una lezione che avremmo dovuto apprendere, e una domanda che avremmo dovuto porci, è piuttosto: cosa deve fare Putin perché venga preso sul serio come minaccia, deve davvero mandare i fantomatici carri armati a Lisbona, su cui i troll pro-Cremlino scherzano?

Il diritto internazionale come pretesto

Il trattamento del diritto internazionale nel libro è coerente con lo schema visto finora: non viene usato come una grammatica comune di civiltà, ma come arma comparativa. La legge dell’uomo è una farsa, non restano che aderire alla nostra legge morale e alle nostre passioni: dunque l’odio e l’indignazione per il male sono i sintomi di chi è dalla parte giusta della storia.

Il Di Battista che invita a non essere “russofobici” è lo stesso che su Facebook usa l’appellativo “bestie di Satana” per gli ebrei israeliani e per i sionisti. Un tropo antisemita di lungo corso. Israele incarna quindi un male metafisico (ancora l’essenzializzazione) e le foto di bambini morti o denutriti ne sono il tratto manifesto, non il prodotto di azioni umane per cui esistono responsabili che devono risponderne. Perciò l’accusa di genocidio è evocata come sintomo del male e delle passioni che deve suscitare, non come una possibilità di giustizia attraverso la civiltà del diritto. Se possiamo pensare la parola “genocidio”, se possiamo anche solo provare a chiedere giustizia per chi lo compie, lo dobbiamo a un avvocato, Raphael Lemkin, che ha coniato il concetto giuridico proprio per perseguire i responsabili del crimine più grave che gli esseri umani possono compiere. 

Questa relativizzazione la vediamo in un passaggio del libro sugli atleti israeliani, russi e bielorussi, partendo dal 2014. Anno in cui la Russia invade la Crimea, ma anche anno in cui ospita le Olimpiadi invernali di Soči:

Nel 2014, quando Soči ospitò i XXII Giochi olimpici invernali, fu la Russia, con trenta medaglie, ad arrivare prima nel medagliere. I progressi in tal senso da parte degli atleti russi non potranno essere valutati nei prossimi giochi olimpici. Il 21 ottobre 2025, infatti, la fis (Federazione internazionale sci) ha deciso di escludere gli atleti russi e bielorussi dalle Olimpiadi di Milano e Cortina. Non potranno gareggiare neppure a titolo neutrale (senza bandiera per intenderci) come avvenne a Parigi 2024. Gli atleti israeliani, anche quelli che hanno fisicamente partecipato al genocidio a Gaza o quelli che hanno inneggiato pubblicamente allo sterminio dei palestinesi, gareggiano ovunque e sotto la bandiera con la Stella di David. Ai russi e bielorussi tuttavia è stato riservato un altro trattamento e questo nonostante la Federazione Russa, a differenza di Israele, non sia alla sbarra per genocidio presso la Corte internazionale di giustizia, l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite.

Israele per Di Battista  non è oggetto di analisi: è un dispositivo retorico e un’incarnazione del male. Serve a produrre due effetti simultanei: 1) spostare il fuoco morale (“guardate il doppio standard”), 2) ricollocare Russia e Bielorussia sul lato delle vittime (“russofobia”), fino a far discendere da quella presunta ingiustizia perfino la credibilità interna di Putin. È un uso selettivo non tanto perché comparare sia sempre scorretto, ma perché la comparazione è costruita per delegittimare le sedi di accertamento o strumentalizzarle; non sono infatti considerate un terreno comune di regole. 

Non ci sono foto di bambini ucraini uccisi o rieducati a forza, sulla pagina Facebook di Di Battista, anche perché il mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per Putin riguarda proprio la loro deportazione. Non c’è nessun interesse per tutelare o rafforzare quelle istituzioni per cui dovrà per forza di cose passare qualunque processo volto ad assicurare giustizia, se mai sarà possibile averla. Ciò è in linea con gli amici della Russia, che proprio in questi giorni hanno condannato in contumacia a 15 anni di carcere Rosario Aitala: è il magistrato della Corte Penale Internazionale che aveva chiesto il mandato di arresto per Putin. Condannato insieme ad altri otto magistrati della CPI, a lui è toccata la pena più dura. 

Al suo lettore Di Battista chiede un patto morale che è fondato sull’amicizia con la Russia - altrimenti si è “russofobi” - e sulla demonizzazione (e non per modo di dire) di Israele. Non c’è rischio di antisemitismo in questo caso, poiché si tratta di un odio moralmente giusto; e se nel mondo si verificano attentati antisemiti, si può sempre puntare il dito contro Netanyahu e lo “Stato genocidia”. Su quale sistema di valori si fonda questo patto? Non sull’orrore per il delitto, né su valori universali. Altrimenti le fosse comuni di Bucha e Izyum, così come le macerie di Mariupol, ci obbligherebbero a odiare la Russia e a razionalizzare attentati contro cittadini russi. Può quindi fondarsi solo sul relativismo, proprio mentre pretende di denunciare quello che corrompe il mondo.

La denuncia-feticcio dell’industria delle armi

Di Battista scrive: “la verità è che i vertici della Nato e dell’Unione europea utilizzano lo spauracchio russo (…) per giustificare (…) la più grande operazione di speculazione finanziaria della storia recente”. E ancora: “principali investitori istituzionali delle principali fabbriche di armi del pianeta sono tutti fondi finanziari”. In mezzo, l’appello al sospetto come postura politica.

Questa tesi è in sostanza sostenuta da una buona fetta di intellettuali collocati a sinistra, e nutre anche parte dei movimenti e delle sigle che hanno manifestato negli scorsi mesi e anni in nome della “pace”, convinte che occorra fermare il “Complesso militare-industriale” nel suo insieme e che ci sia una deriva "bellicista".

Così, invece di discutere su come regolamentare e assolvere una funzione di fondo, la difesa di uno Stato e della sua popolazione, ci si appoggia su 3 postulati che si sostengono a vicenda senza bisogno di dimostrazione: 1) non c’è nessuna minaccia per gli Stati Europei; 2) la vera minaccia viene dall’industria militare occidentale e dal suo intreccio con la politica; 3) questa minaccia può provocare una guerra con altri paesi. 

Questa costruzione ha un problema di fondo: sostituisce la discussione (regole, trasparenza, conflitti d’interesse, controlli democratici) con una condanna morale a priori. Nega l’importanza stessa del concetto di difesa. Come se, per contrastare le speculazioni dell’industria farmaceutica, ruberie o irregolarità, si cercasse di bloccare in toto la produzione di medicinali. Verrebbe meno la possibilità di garantire i sistemi sanitari, oppure si avvantaggerebbero le industrie farmaceutiche considerate “non occidentali”.

Viene inoltre negata qualunque autonomia decisionale a paesi come Russia, Cina, Iran, Corea del Nord, alle loro mire (come Taiwan o Corea del Sud) e ai complessi dell’industria militare non riconducibili al discorso critico sull’occidente. È prima di tutto un difetto di campo di osservazione. Da notare, infatti, come l’onnipresente paura per “l’escalation atomica” in Ucraina non si sia manifestata quando paesi dotati di armi atomiche come Pakistan e India si sono scontrati nell’ultimo anno. 

Qui si vede il nucleo propagandistico di Di Battista. Secondo uno schema che abbiamo già visto nel Movimento 5 Stelle delle origini (e di cui conosciamo gli effetti disastrosi, ormai) l’informazione diventa una lotta tra “inermi cittadini” ed “élite” che manipolano, i fatti diventano sospetti in base a chi li espone, l’etica diventa appartenenza (“noi” puri contro i pennivendoli, i servi, i bellicisti, i russofobici). È una struttura che chiede al pubblico di riconoscersi e usa le emozioni e i nemici come tratto identificativo. Dimmi per cosa ti indigni e ti dirò chi sei.

Per questo la critica seria all’industria delle armi non può essere un atto di fede distruttivo. Deve essere, al contrario, una politica pubblica: regole su appalti e trasparenza, limiti ai conflitti d’interesse, controlli sulle esportazioni, tracciabilità dei contratti, vincoli democratici sulle scelte strategiche, responsabilità politica esplicita. Se non lo fai, non stai “combattendo la speculazione”: stai semplicemente scegliendo di vivere in un mondo dove vince chi è più armato e meno vincolato da regole, occupandoti di una parte soltanto.

Il 40% di budget destinato dalla Russia per le spese militari e la polizia, come viene affrontato da chi professa queste idee? Col pensiero che smantellando l’industria militare europea, l’anno successivo il budget militare della Russia diventerà un bugdet di pace? Siamo al di sotto persino della soglia del pensiero magico. Se l’Ucraina dovesse capitolare, grazie anche al successo di tutte quelle campagne che hanno propugnato attivamente lo stop di aiuti militari, in un mondo di pesci feroci che mangiano i pesci piccoli che lezioni si trarrà? Che la pace è possibile se non si combatte? I pesci piccoli inizieranno piuttosto a pensare che l’Ucraina non avrebbe mai dovuto rinunciare alle armi atomiche negli anni Novanta, e da lì si regoleranno. 

Gli intellettuali che gettano via la maschera pacifista

C’è un motivo se i libretti come quello di Di Battista hanno trovato spazio ora. È lo stesso motivo per cui Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un imbarazzante reportage da Minsk di Angelo D’Orsi, invitato a un festival di cinema organizzato da Russia Today, in cui, di un paese che ha circa 1200 prigionieri politici, si legge:

Si dice, da noi, che la Bielorussia appartenga alle "autocrazie", contigua geograficamente e politicamente alla Federazione Russa, dominata dal "dittatore" Lukashenko (al potere dal 1994 sempre confermato in regolari elezioni, regolarmente contestate da Usa e Ue).

È lo stesso motivo del già citato editoriale di Rovelli sul Corriere, o dei continui elogi funebri che Donatella Di Cesare dedica su Facebook all’Ucraina e a Zelensky, o dell’intervista in cui Moni Ovadia elogia Putin “grandissimo statista”. Questo motivo è la vittoria di Trump. Il quadro internazionale sta spingendo verso un’idea di “pace” come resa negoziata a condizioni imposte, e verso un ordine multipolare dove è il puro dominio delle superpotenze a garantire ordine. "Non è sempre stato così?", domanda il campista convinto che le istituzioni sovranazionali siano lo strumento del capitale, scoprendo di avere molte cose in comune con il militante di estrema destra, che odia il debosciato multiculturalismo liberale. I tempi sono maturi, quindi, per gettare la maschera: invece di scommettere contro l’Ucraina in nome della “pace” e lanciando strali contro gli Stati Uniti, si invoca direttamente la resa dell’Ucraina accusando l’Unione Europea e un Occidente dove Trump è visto persino come pacificatore. Rovelli è esplicito:

Oggi l’ideologia si chiama «democrazia», una parola vuota, ripetuta alla nausea, ridotta solo a coprire la feroce determinazione dell’Occidente ricco a difendere il proprio privilegio storico. Ma una determinazione miope, più che feroce, perché il ribilanciamento economico è già avvenuto, e l’Occidente è a un bivio storico: scatenare l’inferno per cercare di preservare ancora per un po’ il dominio militare e politico sul mondo. Oppure accettare il multilateralismo, le legittime aspirazioni di vastissime aree del pianeta a seguire la loro strada, culturale e politica, senza piegarsi al volere occidentale. 

Naturalmente il fascismo reale (cosa ben diversa dall’onanismo delle simbologie autoriferite) non fa differenze di questo tipo. La “pace” che abbiamo visto a Gaza è la stessa che si vuole imporre in Ucraina; un business al servizio del più forte. I fascisti possono andare al potere anche nel sud del mondo, stabilire gerarchie di privilegiati, scatenare inferni. Ma del resto Carlo Rovelli è lo stesso che descrive Hamas come un movimento che “rifiuta la persecuzione di qualsiasi essere umano”, mostrando così cosa pensa davvero dei palestinesi: un’astrazione arruolabile per le proprie guerre ideologiche. Così come è lecito dubitare che ad Angelo D’Orsi interessi quanto può essere difficile organizzare uno sciopero o una manifestazione di protesta a Minsk. E cosa ha da dire una Donatella Di Cesare sulle decine di migliaia di bambini ucraini deportati e “russificati”? Nulla, poiché quella realtà non si intona con i suoi proclami di pace e le brutture dell’Unione Europea guerrafondaia. 

Questi intellettuali sono accomunati da un difetto di scopo e dal rifiuto della modernità; nel presente, infatti, si prendono le decisioni e ci si misura con le conseguenze, dunque mettendo in conto anche compromessi. Non sono interessati ad aumentare l’agency, e quindi a redistribuire effettivamente il potere. Sono interessati a un ruolo sociale che garantisca loro l’esercizio di una postura morale e un pubblico pronto ad ammirare. Non esistono teatri anche nei regimi, in fondo? È una grammatica perfetta per ammantare l’espansione autoritaria e per liquidare come ideologia proprio le regole e le istituzioni che dovrebbero proteggere i più deboli quando i forti decidono di prendersi tutto.

(Immagine anteprima: frame via YouTube)

 

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Post Europa Migranti

Sulle politiche migratorie l’Unione Europea sceglie il modello Trump

16 Dicembre 2025 11 min lettura

Sulle politiche migratorie l’Unione Europea sceglie il modello Trump

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I ministri dei governi membri dell’Unione Europea hanno inasprito le proposte della Commissione fatte a marzo sui rimpatri e sui paesi terzi sicuri, nell’illusoria convinzione di poter governare i flussi migratori verso l’Europa. La proposta “contraddice l’umanità di base e i valori dell’Europa e introduce un regime di deportazione che radica punizione, violenza e discriminazione”, spiega a Valigia Blu Silvia Carta, Advocacy Officer di Picum, una rete di organizzazioni che promuovono la giustizia sociale e il rispetto dei diritti umani dei migranti privi di documenti in Europa. Lo spazio di influenza della società civile ancora una volta è molto ridotto, soprattutto considerando “che la proposta va ben oltre ciò che per noi è accettabile”, ha aggiunto.

L’8 dicembre 2025 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato la propria posizione negoziale su due riforme in materia di immigrazione e asilo. La prima sostituisce la Direttiva Rimpatri con un nuovo Regolamento, proposto dalla Commissione Europea a marzo di quest’anno. L’altra riguarda la proposta della Commissione di emendare il nuovo Regolamento Procedure, che estende l’applicabilità dei concetti di paese di origine sicuro e di paese terzo sicuro. La riforma integra il Patto europeo sulle migrazioni e l'asilo, che entrerà in vigore nel 2026, e sarà applicata due anni dopo. Per capire cosa succederà, bisogna aspettare che il Parlamento Europeo presenti il suo draft report, in cui definirà la sua posizione sul Regolamento Rimpatri e proporrà eventuali modifiche alla proposta della Commissione. 

Le proposte del Consiglio aumentano i periodi di detenzione amministrativa, propongono l’utilizzo di database interoperabili, limitano le garanzie giudiziali e spingono per l’apertura di centri per il rimpatrio in Paesi terzi. Inoltre, molti esperti di migrazioni hanno individuato una somiglianza con il modello statunitense, soprattutto per l’introduzione dei raid per individuare gli irregolari e rimpatriarli. Secondo Picum, Trump sta contribuendo a normalizzare queste forme discriminatorie di applicazione delle politiche migratorie e l’Europa sta andando verso questa repressione violenta. 

Il Regolamento Rimpatri

Il rimpatrio coercitivo diventa la regola e la partenza volontaria rimane l’eccezione. Il migrante che si troverà in una situazione di irregolarità rischia un rimpatrio forzato e la diminuzione dei diritti, anche quelli universalmente riconosciuti. 

La detenzione amministrativa degli stranieri che devono essere rimpatriati è estesa a un massimo di 30 mesi (due anni come regola generale, con possibilità di ulteriore proroga per altri sei mesi). La proposta, scrive Asgi, è incoerente con i numerosi dati disponibili che indicano che i rimpatri generalmente vengono realizzati nei primi tre mesi di applicazione della misura detentiva. Estendere il periodo di detenzione, quindi, non è garanzia di maggiori rimpatri.

Anche le motivazioni della detenzioni e la definizione del rischio di fuga vengono notevolmente ampliati, con criteri generici, arbitrari e discriminatori. Uno straniero potrà essere detenuto se non dimostra di avere legami familiari, se non ha un lavoro regolare, se non ha mezzi di sussistenza e se non partecipa alle attività di “return and reintegration counseling”. È chiara, nota Asgi, la volontà di punire non tanto l’irregolarità, ma la povertà e l’esclusione sociale. 

Il Consiglio ha concordato sull'introduzione di un nuovo Ordine di Rimpatrio Europeo (ERO) e il riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio da parte degli Stati membri. In pratica, se la domanda di protezione internazionale di un individuo viene respinta in uno Stato e riceve un ordine di rimpatrio, anche tutti gli altri paesi riconoscono la decisione. Questo sarà possibile con la creazione di un database condiviso, con tutte le informazioni sui ritorni forzati. 

L’utilizzo massiccio di questi strumenti è una pratica sempre più diffusa che, sotto la finta promessa della trasparenza e della tutela della sicurezza, conserva i dati di migliaia di migranti per facilitare le espulsioni. Questo si applicherà, per esempio, anche in ambito sanitario. Per Federico Dessi, Direttore Esecutivo di Médecins du Monde Belgio “il potenziale danno alla salute e al benessere dei migranti senza documenti è troppo grande per essere ignorato, perché indebolisce le necessarie barriere tra l’erogazione dei servizi e l’applicazione della legge”.

Un punto quasi paradossale sono gli obblighi di cooperazione a carico dei migranti, con la previsione addirittura di sanzioni in caso di mancata collaborazione. Si chiede di fornire informazioni e documenti utili all’identificazione, mantenere recapiti aggiornati e collaborare con le autorità. Scrive Asgi che questi obblighi “risultano spesso impossibili da soddisfare per chi vive in condizioni di vulnerabilità, senza una residenza stabile, senza accesso a strumenti digitali o privo di documenti d’identità”. Le sanzioni previste per l’inosservanza degli obblighi includono multe, limitazioni della libertà di movimento e misure detentive, la riduzione dell’assistenza sociale nello Stato membro interessato o dell’assistenza finanziaria destinata al reinserimento post-rimpatrio, e divieti di ingresso fino a 20 anni, prorogabili a durata indefinita in caso di presunti rischi per la sicurezza.

Si prevede un aumento dei poteri delle forze di polizia, introducendo la possibilità di effettuare perquisizioni sulla persona, il luogo di residenza o “altre sedi pertinenti”,  incluse le abitazioni di parenti, amici o conoscenti che offrono ospitalità, e di sequestrare effetti personali “anche senza il consenso dell’interessato”. In Europa non erano mai state previste misure simili per le espulsioni, incompatibili con il diritto all’inviolabilità del domicilio, tutelato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e dalla Costituzione italiana. Il testo non chiarisce nemmeno se sarà necessario un mandato. “Questo rischierebbe di criminalizzare ulteriormente sia le persone migranti sia chi le aiuta, alimentando paura e insicurezza”, ha dichiarato Silvia Carta di Picum.

Si propone poi di limitare le garanzie giudiziali, anche quando c’è un rischio di violare il principio di non respingimento, cardine del diritto europeo e internazionale per i rifugiati. L’idea è di eliminare l’obbligo di sospensione automatica dell’esecuzione fino alla scadenza del termine per presentare ricorso. In tal modo, le persone potrebbero essere allontanate prima ancora di poter esercitare il proprio diritto di impugnazione. In pratica, l'effetto sospensivo dei ricorsi non è automatico, il che significa che le persone possono essere espulse dall'UE prima che venga presa una decisione sul loro ricorso. 

Ancora, il Consiglio ha aderito anche alla proposta della Commissione sui cosiddetti return hubs, cioè la possibilità di trasferire una persona verso uno Stato terzo sulla base di un accordo, formale o informale, con l’Unione o con uno Stato membro. Sarà poi lo Stato terzo a decidere se procedere al rimpatrio verso il paese d’origine. Questa proposta si inserisce in un quadro già profondamente problematico, perché la riforma amplia in modo radicale la gamma dei paesi verso cui una persona può essere rimpatriata, consentendo il trasferimento non solo nel paese d’origine, ma anche in paesi di transito, Stati terzi ritenuti “sicuri”, o qualsiasi altro Stato disposto ad accettarla anche senza legami reali. 

Paesi sicuri, di origine e di transito 

La diminuzione della garanzia giudiziaria è rilevante proprio sul tema dei paesi sicuri. Il Consiglio ha confermato l’impostazione della Commissione, mantenendo la lista comune europea di paesi di origine sicuri. Uno Stato potrà essere considerato “sicuro” anche se alcune aree o categorie di popolazione sono esposte a gravi violazioni dei diritti, purché siano previste garanzie procedurali generiche. Secondo Asgi, il rischio è che la presunzione di sicurezza diventi la regola, riducendo drasticamente il peso della valutazione individuale: a contare non sarebbe più la storia del richiedente asilo, ma il suo paese di nascita.

La scelta dei paesi inseriti nella lista e la poca trasparenza sui dati utilizzati rischiano di rendere questo strumento un modo per velocizzare le procedure, a scapito delle garanzie giuridiche per i richiedenti asilo. Questo in Italia succede già dal 2023, con il Decreto Cutro, che permette di instaurare la procedura cosiddetta accelerata per i richiedenti asilo provenienti da paesi sicuri. Ad oggi, rimangono nella lista dei paesi sicuri anche stati come la Tunisia o il Bangladesh, dai quali provengono una grande parte dei migranti della rotta del Mediterraneo. Resta comunque possibile per i giudici nazionali rinviare la questione alla Corte di giustizia dell’UE per verificarne la legittimità.

Ancora più controverso è il rafforzamento del concetto di paese terzo sicuro, centrale per le destre europee perché consente di dichiarare inammissibile una domanda di asilo senza esaminarla nel merito. Il Consiglio conferma una forte riduzione delle garanzie: il legame tra il richiedente e il paese terzo, finora obbligatorio, diventa facoltativo, aprendo la strada a trasferimenti verso Stati con cui la persona non ha alcun legame reale, sulla base di semplici accordi formali o informali. Nel nuovo sistema, potrebbero essere considerati “sicuri” non solo i paesi di origine, ma anche paesi di transito o Stati che abbiano accordi di riammissione con l’UE, rafforzando l’esternalizzazione del diritto d’asilo. 

Non è chiaro, racconta a Valigia Blu il giurista Gianfranco Schiavone di Asgi, perché non ci sia nessun riferimento al modello Albania. Gli altri paesi sono molto scettici sul modello Albania, perché trovare un paese confinante così disponibile è estremamente complicato. Secondo il giurista, Meloni potrebbe cedere la responsabilità all’Albania, che ora ospita dei cpr sotto la giurisdizione italiana, e ci sarà un nuovo accordo con l’omologo Rama.

Ad oggi il modello Albania è un fallimento su tutta la linea, ma delegare invece i rimpatri è strategico perché la condizione giuridica delle persone espellibili è molto fragile. Innanzitutto, ci sarebbero meno ostacoli da parte dei giudici e anche dei trattati internazionali. Ma Schiavone è chiaro: “Possiamo dire di delegare l’espulsione a paesi terzi, con garanzie che non maltratteranno i migranti, ma si tratta di vendere persone ad altri stati. Infieriamo sugli espulsi, perché non esiste un diritto internazionale che li tuteli”. 

L’Europa come gli Stati Uniti di Trump 

I video dell’ICE che cerca per le strade i migranti negli Stati Uniti per deportarli hanno fatto notizia in tutti i media, ma questi raid sono una pratica consolidata anche in Europa, scrive Picum: “Dai campi di migranti a Calais, in Francia, ai parchi e alle stazioni in Belgio, fino ai saloni di manicure e ai lavaggi auto nel Regno Unito”.

La sospensione di Schengen e della libera circolazione delle persone ovviamente agevolerà queste operazioni. Oggi Austria, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Slovenia, che hanno reintrodotto controlli interni prolungati citando la migrazione irregolare come motivazione. Questo mese, il ministro dell’Interno francese Bruno Retailleau ha dispiegato 4.000 agenti per effettuare controlli massicci in autobus e stazioni ferroviarie, con l’obiettivo di arrestare e detenere persone senza documenti. In un'intervista a France Info, Fanélie Carrey-Conte, segretaria generale di La Cimade, ha denunciato “l’ispirazione trumpista” di questa operazione, che trasmette l’idea che “gli stranieri, e in particolare le persone senza documenti, siano nemici e pericolosi”. 

I controlli di polizia non sono le uniche pratiche violente contro le persone senza documenti negli spazi pubblici. Spesso rischiano detenzione ed espulsione anche quando cercano di accedere ai servizi pubblici, ad esempio in Germania, dove molte autorità sono obbligate a segnalarle all’immigrazione, o in Svezia dove il governo sta pianificando misure simili con la cosiddetta “snitch law”. Gli obblighi di segnalazione diffondono paura e sfiducia nelle istituzioni pubbliche tra le comunità migranti. Quello che la propaganda di estrema destra nasconde dietro ai discorsi d’odio è che non avere documenti è una diretta conseguenza di queste politiche e dell’inefficienza strutturale e razzista della burocrazia europea. 

Come scrive Annalisa Camilli in Frontiere, queste riforme “per certi versi provano a imitare le politiche migratorie che il presidente Donald Trump sta attuando negli Stati Uniti e che l'Australia mette in pratica da decenni, molto lontane dall'idea dell'asilo e della protezione dei richiedenti asilo elaborata nel corso dei secoli dalle legislazioni europee”. Sono adottate da parte dei governi in un contesto di crescente opposizione alle politiche migratorie e di crescita dei partiti di estrema destra nei paesi europei, che hanno questo tema tra le priorità del loro programma. 

Per Olivia Sundberg Diez, EU Advocate per Migrazione e Asilo ad Amnesty International, come gli arresti e le deportazioni di massa disumanizzanti e illegali degli Stati Uniti, anche queste politiche repressive degli stati europei “mostrano un totale disprezzo per il diritto internazionale e la dignità umana”.

Furore ideologico 

“Definirei la proposta della Commissione una grida manzoniana, un regolamento draconiano dove si affidano tutte le speranze di un aumento di efficacia dei rimpatri”, dichiara Gianfranco Schiavone a Valigia Blu. La Commissione, che ha dato impulso a questi regolamenti, non ha mai spiegato perché queste misure dovrebbero funzionare e superare l’inefficacia radicale del sistema rimpatri. “Anzi”, aggiunge Schiavone, “le ricerche dicono tutto il contrario, perché è dimostrabile che più lunga è la detenzione, meno il sistema funziona”. Il giurista non ha dubbi che questa riforma provocherà un aumento delle persone irregolari. Come sempre, questa deterrenza che assume la forma della violenza gratuita non ha nessuna efficacia. Che cosa dovrebbe fare un migrante di fronte a questo furore ideologico? C’è un’idea intrinsecamente violenta e priva di conoscenza del fatto che i migranti non calcolano queste cose, dice Schiavone. “Le spinte vanno ben oltre il fatto che tu possa finire in Albania o a Milano in un cpr”.

È legittimo chiedersi da dove provenga questo furore. Secondo il giurista, anche se alcuni elementi di ostilità ai migranti ci sono sempre stati, oggi si può individuare chiaramente una tendenza verso destra, a partire dall’esplosione dei partiti populisti e nazionalisti. Anche le posizioni dei popolari sulla migrazione corrispondono all’estrema destra, oggi. “Sembra assurdo pensare che l’Agenda sulla migrazione del 2015 prevedesse piani di ingresso umanitario obbligatori”, racconta Schiavone. 

Sono trascorsi dieci anni dall’accordo - informale e prevalentemente economico - con la Turchia di Erdogan per fermare la diaspora siriana, quando è iniziata l’esternalizzazione. “Oggi discutiamo non solo di pagare qualcuno per tenersi i migranti, ma li riportiamo addirittura indietro”. L’Europa da dieci anni scarica la responsabilità su altri paesi oppure fornisce risorse, mezzi tecnologie, conoscenze tecniche e formazioni per impedire alle persone di spostarsi. Ma se nel 2016 questa era solo propaganda, ipocrita e bugiarda, oggi nessuno si stupisce più. Schiavone non ha dubbi sull’abbrutimento giuridico e culturale che l’Europa sta vivendo: nessuno avrebbe sostenuto che si potesse vietare il soccorso in mare, perché sarebbe stato considerato un disgustoso estremista”. 

I temi del dibattito sulla migrazione sono spesso slogan volgari e sguaiati che promettono di fermare l’invasione e di proteggere i confini dell’Europa. Secondo Jonathan Portes, professore di Economia e politiche pubbliche al King's College di Londra, sono proprio i termini di questo dibattito ad essere sbagliati: “L'opzione di ridurre drasticamente o bloccare l'immigrazione è un'illusione. La gente verrà qui dall'estero, qualunque cosa facciamo, e per di più, ne abbiamo bisogno".

La scelta è tra un sistema caotico e punitivo basato sulla disonestà politica e uno ben gestito che funzioni, sfruttando la nostra fortuna di essere un luogo in grado di attrarre persone da tutto il mondo. Portes si chiede: vogliamo davvero un’Europa che si sottrae deliberatamente agli obblighi internazionali a cui si era vincolata dopo la Seconda Guerra Mondiale, subordinando la tutela dei diritti fondamentali a logiche di contenimento dei flussi migratori?

“Questa strategia non espone solo le persone migranti a rischi concreti per la propria vita e libertà ma rappresenta un nuovo pericolo precedente, una temibile eccezione a principi di diritto consolidati nel tempo”. È probabile che sia così l’Europa che vuole la maggioranza degli Stati - hanno votato contro solo Francia, Spagna, Grecia e Portogallo - ma rimane la speranza che non corrisponda a quello che vogliono i cittadini. 

Immagine in anteprima: frame video France 24 via YouTube

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Post Scienza

Federico Rampini commenta un articolo ritirato da Nature senza capire niente

15 Dicembre 2025 5 min lettura

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Federico Rampini commenta un articolo ritirato da Nature senza capire niente

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di Marco Bindi, Sandro Fuzzi, Franco Miglietta, Dario Papale, Riccardo Valentini*

Da tempo il noto giornalista Federico Rampini cura una rubrica sul Corriere della sera online intitolata Oriente Occidente, dove pubblica brevi video in cui, inquadrato in primo piano, discute di vari argomenti di attualità. Il 10 dicembre scorso ha pubblicato nella rubrica un video intitolato “Cosa insegna lo scandalo della rivista Nature”. Le parole contenute nel video possono essere commentate in vari modi.

Ascoltiamo il suo incipit, trascritto letteralmente, saltando soltanto la spiegazione fatta per non addetti ai lavori di che cosa è la rivista Nature e della reputazione di cui gode:

Lo scandalo di Nature è passato nel dimenticatoio un po' presto (...). Più di un anno fa ha pubblicato uno studio, un apporto che calcolava danni catastrofici del cambiamento climatico sulla economia mondiale e molto di recente ha dovuto ritrattare quello studio…

In effetti nel 2024 Nature ha pubblicato uno studio intitolato “The economic commitment of climate change” (pubblicato il 17 aprile 2024), nel quale si stimava che entro il 2050 il cambiamento climatico avrebbe ridotto il PIL globale di circa il 19 %, con costi cumulati annuali fino a circa 38mila miliardi di dollari.

Tuttavia, dopo la pubblicazione, emersero critiche importanti: un dataset errato dall’Uzbekistan aveva influenzato i risultati e non si era tenuto conto della correlazione spaziale, compromettendo l’attendibilità delle stime. Detto questo, Rampini rivela di non essersi documentato a sufficienza prima di parlare; in realtà non c’è stato scandalo alcuno: bastava leggere qualche riga più sotto nelle notizie per capire che non è stata la rivista Nature a ritirare l’articolo in questione, ma sono stati gli autori che si sono accorti di alcuni errori introdotti nel loro studio.

Maximilian Kotz, Anders Levermann e Leonie Wenz, i tre autori, ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK) in Germania, hanno spiegato bene la loro decisione nella nota del 3 Dicembre 2024:

«Gli autori hanno ritirato questo articolo per i seguenti motivi: dopo la pubblicazione, i risultati si sono rivelati sensibili alla rimozione di un paese, l'Uzbekistan, dove sono state riscontrate imprecisioni nei dati economici sottostanti per il periodo 1995-1999. Inoltre, è stato sostenuto che l'autocorrelazione spaziale fosse rilevante per gli intervalli di incertezza. Gli autori hanno corretto i dati dell'Uzbekistan per il periodo 1995-1999 e hanno controllato le transizioni delle fonti di dati e le tendenze di ordine superiore presenti nei dati dell'Uzbekistan. Hanno anche tenuto conto dell'autocorrelazione spaziale. Queste modifiche hanno portato a discrepanze nelle stime dei danni climatici entro la metà del secolo, con un aumento dell'intervallo di incertezza (dall'11-29% al 6-31%) e una minore probabilità di divergenze dei danni tra gli scenari di emissione entro il 2050 (dal 99% al 90%). Gli autori riconoscono che queste modifiche sono troppo sostanziali per una correzione, il che ha portato alla ritrattazione dell'articolo. Una versione aggiornata dell'articolo con queste modifiche, che deve ancora essere sottoposta a revisione paritaria, è disponibile al pubblico con accesso libero ai dati e alla metodologia (https://doi.org/10.5281/zenodo.15984134)».

Il 6 agosto 2025 il PIK ha quindi diffuso un comunicato che spiegava quali correzioni erano state fatte: la revisione del dataset economico dell’Uzbekistan (1995–1999), la correzione di alcuni decimali e l'introduzione della correlazione spaziale tra regioni, che hanno migliorato la robustezza delle stime e ridotto l’impatto complessivo del cambiamento climatico sul PIL globale dal 19 al 17%.

Non quindi ciò che ha sostenuto Rampini:

(quell’articolo) …era pieno zeppo di dati falsi manipolati truccati in modo da ingigantire per l'appunto i danni economici del cambiamento climatico… Ehm, autocritica benvenuta, però sui media questa notizia ha avuto poco spazio, è stata liquidata frettolosamente. E soprattutto non ha dato luogo a una riflessione adeguata sul perché è stato possibile.

Tutti concetti senza alcun fondamento: non si è mai trattato di dati falsi, manipolati o truccati, non c’era niente da liquidare frettolosamente sui media e non c’era da fare alcuna riflessione sul perché. Ma il ragionamento di Rampini va avanti sulla stessa falsariga:

Alcune categorie di scienziati si sono trasformati col tempo in sacerdoti di una religione in omaggio alla quale si possono anche dire delle bugie, bugie a fin di bene per rieducare una umanità peccaminosa. Questo è lo spirito che anima alcuni scienziati che in quanto tali diventano pseudo-scienziati e tradiscono il rigore scientifico perché pensano di avere una missione rieducatrice da inseguire in nome della quale sacrificano la verità.

A conti fatti Rampini sposa la tesi di Donald Trump che il 23 settembre 2025, intervenendo all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha definito il cambiamento climatico «the greatest con job ever perpetrated on the world», definendolo «a green scam». Ma va oltre, e addossa la responsabilità di quello “scam” ad alcune centinaia di stimati scienziati dei cinque continenti, che hanno studiato e lavorato seriamente, che non hanno mai tradito il rigore scientifico e che in realtà pensano, questo sì, di avere una missione: quella di dire con dati e formalizzazioni solide come stanno davvero le cose.

La chiusura di Rampini allarga le responsabilità alla società nel suo insieme:

È stato possibile lo scandalo di Nature anche perché c'è una parte del pubblico che desidera sentirsi dire che la fine del mondo è dietro l'angolo, che adora le profezie apocalittiche e quindi non le sottopone ad alcun vaglio critico. Queste sono le condizioni che hanno reso possibile quello scandalo e probabilmente tanti altri di cui non si è mai parlato. Quando vogliamo sentirci dire che il mondo sta per crollare, allora quelle profezie sono musica soave per le nostre orecchie.

Non solo molti scienziati vengono accusati di essere dei sacerdoti di una religione, ma anche una parte dell’opinione pubblica di essere in cerca di profezie apocalittiche invece di voler conoscere lo stato reale delle cose. La chiusa del video, forse, è l’unico pezzo condivisibile, se letto nella direzione opposta a quella del giornalista:

La scienza non ha davvero niente a che vedere con tutto ciò.

Si, è vero, Rampini, la scienza non ha proprio niente a che vedere con superficialità e malafede.

*Articolo originale pubblicato su Scienza in Rete. Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Qui per contribuire al progetto

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Post Media Literacy

Difendersi dalla propaganda e dalla disinformazione russa: il modello Finlandia

15 Dicembre 2025 7 min lettura

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Difendersi dalla propaganda e dalla disinformazione russa: il modello Finlandia

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Fare una formazione specifica a scuola sin da piccoli per imparare a individuare la propaganda e le notizie manipolate può essere una strada per contrastare la disinformazione che sempre più circola e contribuisce a indebolire la fiducia dell’opinione pubblica nelle nostre istituzioni e nelle nostre democrazie. O almeno è la strada che da tempo ha deciso di perseguire la Finlandia, sempre più un esempio nella lotta alle “fake news”, alle informazioni false e fuorvianti e quelle errate diffuse con l’intento di ingannare. 

Il paese scandinavo è infatti al primo posto nella speciale graduatoria dell’Indice europeo di alfabetizzazione mediatica 2023. L’Italia, per fare un esempio, è al 24° posto ed è inserita nel terzo cluster (il penultimo) tra i paesi che più si stanno dotando di strumenti formativi e di contrasto della disinformazione: notizia ancor più sconfortante considerato il contesto di “guerra ibrida” che stiamo vivendo, in cui una delle forme utilizzate per attaccare e indebolire i paesi europei è la manipolazione politica e sociale attraverso vaste campagne di disinformazione e propaganda, anche tramite figure che fungono da megafono e da cavallo di troia.

Sono più di dieci anni che la Finlandia ha deciso di puntare sull’alfabetizzazione mediatica per fornire ai propri cittadini gli strumenti necessari per orientarsi in un panorama informativo sempre più complesso. Il paese scandinavo ha infatti inserito l’alfabetizzazione alle notizie e l'insegnamento al pensiero critico nel piano scolastico nazionale nel 2016. 

L’idea di adottare questo approccio educativo è nata nel 2014, prima delle elezioni per il Parlamento Europeo, quando la Finlandia è stata presa di mira dalla disinformazione da parte della Russia, da cui il paese scandinavo ha dichiarato l’indipendenza nel 1917. La maggior parte delle campagne, amplificate da siti e account social finlandesi vicini all'estrema-destra, aveva come bersaglio l'Unione Europea, l'immigrazione e l'adesione del paese alla NATO. 

In altre parole, la Finlandia stava sperimentando precocemente quella stessa disinformazione mirata che noi stiamo affrontando in questo momento da parte della Russia. E aveva considerato la resistenza alla disinformazione quasi come una forma di difesa civile: parte integrante della sua più ampia strategia di sicurezza. “Ci riguarda tutti, - aveva detto all’epoca Jussi Toivanen, il capo dell'ufficio comunicazione dell’allora Primo Ministro finlandese - la disinformazione ha lo scopo di erodere i nostri valori, la fiducia nelle istituzioni che tengono insieme la nostra società”.

Nel 2014, prima delle elezioni per il Parlamento europeo, il governo finlandese ha lanciato iniziative contro la disinformazione rivolte a politici e giornalisti e ha istituito il servizio di fact-checking e alfabetizzazione digitale Faktabaari (“Fact Bar”), gestito da uno staff di giornalisti e ricercatori volontari. Successivamente, alcune ONG finlandesi hanno iniziato a lanciare programmi specifici per gruppi vulnerabili, come gli anziani e gli immigrati appena arrivati, per aiutarli a riconoscere la disinformazione.

E poi, come detto, da dieci anni, c’è la formazione scolastica. L'educazione ai media in Finlandia inizia già nella scuola primaria, con l'integrazione dell'alfabetizzazione mediatica e scientifica nel programma scolastico. Nel programma della scuola secondaria la formazione diventa più specifica: gli studenti imparano quanto sia facile mentire con le statistiche durante le ore di matematica; con il professore di storia dell’arte capiscono come il significato di un’immagine può essere manipolato; studiando storia analizzano le più importanti campagne di propaganda dell’ultimo secolo. Mentre con il professore di lingua finlandese possono riflettere su come le parole possono essere usate per ingannare, raggirare, confondere.

“L'obiettivo è formare cittadini attivi e responsabili. Pensiero critico, fact-checking e imparare a valutare le informazioni che riceviamo sono questioni cruciali. E sono oggi parte fondamentale delle materie che insegniamo. Attraverso tutte le materie”, spiegava al Guardian un professore finlandese alcuni anni fa, sottolineando l'importanza di educare ad avere un approccio critico, ma non scettico, verso le informazioni che riceviamo in quanto cittadini: “Non vogliamo che si finisca per pensare che tutti mentono. "Fake news non è la giusta terminologia, soprattutto per i bambini. Molto più utili sono le categorie: misinformation o errori, disinformation o bugie / bufale, informazioni false diffuse deliberatamente per ingannare, malinformation, che può essere corretto ma ha intenzione di danneggiare". L'obiettivo è che i ragazzi si chiedano: chi ha prodotto queste informazioni? E perché? Dove è stato pubblicato? Cosa dice realmente? Ci sono evidenze o è solo l'opinione di qualcuno? Si può verificare altrove?

Ma tutto questo è sufficiente e il modello finlandese può essere replicato altrove? “La Finlandia è sulla strada giusta e i suoi successi nella lotta alle interferenze straniere possono essere replicati in tutta Europa”, spiega a Valigia Blu il politologo Anton Shekhovtsov, che nel suo ultimo libro Russian Political Warfare: Essays on Kremlin Propaganda in Europe and the Neighbourhood, 2020-2023 affronta le tattiche della guerra politica-informativa russa in Europa. “Tuttavia, tutti i paesi europei sono unici. Ad esempio, la Finlandia confina con la Russia, quindi la minaccia è proprio oltre il confine. Allo stesso tempo, l'identità nazionale finlandese è molto forte, il che di per sé costituisce una solida difesa contro la guerra dell'informazione russa. Ciò significa che le strategie e le tattiche impiegate dalla Finlandia potrebbero non essere sufficienti per i paesi europei lontani dalla Russia e/o la cui identità nazionale non è forte come quella della Finlandia”. 

Tuttavia, prosegue Shekhovtsov, anche gli altri paesi si stanno dotando di strumenti per contrastare la disinformazione. “Ad esempio, la Francia ha recentemente adottato una legge per contrastare le interferenze straniere monitorando le attività sospette con l'aiuto di algoritmi speciali: si tratta di un'ottima idea. In generale, gli Stati europei devono iniziare a considerare le interferenze straniere nella politica europea come illegittime e illegali e, cosa forse ancora più importante, rafforzare l'identità nazionale ed europea dei cittadini”.

E l’Italia? “In Italia stiamo procedendo in maniera poco sistematica e strategica”, spiega Nicola Bruno, giornalista e direttore di Open the Box, progetto di media education. “Il Piano Nazionale Scuola Digitale ha introdotto la figura dell'Animatore Digitale e ha supportato la dotazione tecnologica, ma l'aspetto critico non sempre è in primo piano. Il Progetto Generazioni Connesse è focalizzato su tematiche di cyberbulismo e sicurezza dei dati. È stata un’ottima idea la reintroduzione educazione civica perché le linee guida prevedono di ‘Sviluppare la capacità di accedere alle informazioni, alle fonti, ai contenuti digitali, in modo critico, responsabile e consapevole’, ma le ore sono 33 ore da distribuire tra uno o più docenti, senza che sia stata fatta una formazione a tappeto di tutti i docenti che poi se ne occupano e senza indicazioni specifiche per età/classe, al di là delle linee guida che sono generiche”. I fondi PNRR “hanno permesso di formare migliaia di docenti e studenti sui temi della media literacy, però stanno finendo e per il futuro non si vedono investimenti altrettanto rilevanti”.

Le iniziative dal basso, prosegue Bruno, “come Open the Box, Parole Ostili, RAI, provider telco (Tim, Wind) che cercano di sopperire le carenze a livello micro (docenti) e meso (istituti scolastici, territori), ma fanno difficoltà ad intervenire a livello macro e strutturale (Ministero)”.

In sintesi, “per ispirarci al modello finlandese dovrebbe sicuramente esserci: 1) una maggiore presa in carico del tema a livello macro (Ministero dell'Istruzione) con un approccio sistematico e non a macchia di leopardo; 2) linee guida precise per età e classi; 3) formazione continua dei docenti; 4) inizio precoce (già dalla scuola dell'infanzia)”.

Se la Finlandia può insegnarci qualcosa, dunque, è che l'alfabetizzazione mediatica non dovrebbe essere solo un argomento secondario, ma dovrebbe essere trattata come un'infrastruttura civica: dotare i cittadini di pensiero critico e alfabetizzazione mediatica fin dall’infanzia non è, dunque, solo un obiettivo educativo, ma deve essere considerata una pietra miliare delle nostre democrazie.

Tuttavia, osserva Elliot Higgins, fondatore di Bellingcat, per essere realmente efficaci si deve intervenire sull’intero ecosistema mediatico. “Il problema non è solo l'ignoranza individuale, ma anche la struttura dell'ambiente informativo in cui le persone si trovano”, spiega Higgins. “La Finlandia è un modello relativamente efficace, ma non solo perché le scuole insegnano il pensiero critico. La Finlandia gode di un'elevata fiducia sociale, di un forte servizio pubblico mediatico e di istituzioni coerenti. L'intero sistema sostiene la verifica e la deliberazione aperta, non è possibile copiare la superficie senza la struttura”.

In estrema sintesi, l’approccio finlandese funziona perché più di dieci anni fa si è deciso di lavorare perché non fosse compromessa la fiducia nelle istituzioni e negli statuti democratici, come osservava all’epoca l’allora primo ministro finlandese.

“Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, le piattaforme premiano la velocità, l'emozione e l’appartenenza. Anche le persone ben istruite vengono trascinate in spazi informativi distorti, quindi il problema principale non è l'ignoranza, ma l'ambiente incentivante che modella il modo in cui le informazioni si diffondono e si fissano”, prosegue Higgins. “I nostri sistemi digitali premiano l'appartenenza piuttosto che l'accuratezza, con le persone che acquisiscono status allineandosi al proprio gruppo, non verificando i fatti. Una volta che le convinzioni diventano legate all'identità, una maggiore alfabetizzazione mediatica non cambierà il comportamento individuale”.

Il vero compito – conclude Higgins – non è solo “insegnare alle persone a individuare le informazioni errate”, ma “ricostruire le condizioni in cui la verifica, la deliberazione e la responsabilità siano possibili. Il pensiero critico funziona solo quando il mondo che lo circonda offre a queste competenze un luogo in cui mettere radici”.

Ma per cambiare questa situazione, osserva ancora Nicola Bruno, “credo che servano profonde iniziative strategiche di educazione ai media e alla resilienza informativa. È l'unica possibilità che abbiamo: educare una nuova generazione a un rapporto più consapevole con i media, a partire dal pensiero critico (che è spesso focalizzato a livello individuale), ma non solo, integrando anche quello etico (quali sone la mia responsabilità a livello collettivo) e quello creativo (come posso creare contenuti che non "inquinano" l'ecosistema informativo)”.

Immagine via nordicpolicycenter.org.au

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Bielorussia, finalmente liberi una delle principali oppositrici di Lukashenko, Maria Kolesnikova, e il Nobel per la Pace, Ales Bialiatski: “La nostra battaglia continua”

14 Dicembre 2025 4 min lettura

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Bielorussia, finalmente liberi una delle principali oppositrici di Lukashenko, Maria Kolesnikova, e il Nobel per la Pace, Ales Bialiatski: “La nostra battaglia continua”

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La Bielorussia ha rilasciato 123 prigionieri politici, tra cui il premio Nobel per la pace Ales Bialiatski e l’attivista bielorussa Maria Kolesnikova in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi sui fertilizzanti bielorussi a base di potassio. 

Kolesnikova era in carcere dal 2020, per lo più in isolamento, con l’accusa di “cospirazione per assumere il potere con mezzi incostituzionali”, “creazione e direzione di un'organizzazione estremista” e “incitamento ad azioni che minacciano la sicurezza nazionale” attraverso l'uso dei media e di Internet. Dopo l’arresto del candidato alle presidenziali Viktor Babariko – detenuto prima del voto per impedirgli di fare campagna elettorale, condannato poi a quattordici anni di carcere con l’accusa di corruzione e di cui si erano perse le tracce – Kolesnikova aveva costituito insieme a Svetlana Tikhanovskaya e Veronika Tsepkalo – un'ex dipendente della Microsoft che dirigeva la campagna elettorale del marito, Valery Tsepkalo, ambasciatore negli Stati Uniti dal 1997 al 2002, estromesso dalle consultazioni e fuggito a Mosca con i figli – un trio tutto al femminile che aveva sfidato la candidatura di Lukashenko.

#Belarus First interview with Maria Kalesnikava after her release and deportation to #Ukraine. It always strikes me how every released political prisoner mentions those still in jail - this is our Belarusian solidarity. Our Masha is free, and it's such a relief and joy.

Hanna Liubakova (@hannaliubakova.bsky.social) 2025-12-13T16:06:12.485Z

“È una gioia immensa vedere il primo tramonto della mia libertà, di una bellezza così straordinaria”, ha detto Kolesnikova subito dopo il rilascio. “Ma pensiamo anche a coloro che non sono ancora liberi. Aspetto il momento in cui potremo abbracciarci tutti, quando saremo tutti liberi".

I prigionieri politici sono stati trasferiti in Polonia e Lituania. Alcuni, tra cui Bialiatski, sono stati invece inviati a Vilnius, in Lituania. Ad accoglierli c’era la leader dell’opposizione bielorussa Tikhanovskaya. “Migliaia di persone sono state e continuano ad essere imprigionate... quindi la nostra lotta continua”, ha commentato Bialatski, condannato a dieci anni di carcere. 

Il rilascio dei prigionieri arriva nel quadro di un accordo raggiunto con il presidente americano, Donald Trump. Gli Stati Uniti hanno revocato le sanzioni sul potassio, come dichiarato dall’inviato presidenziale statunitense a Minsk, John Coale, in cambio del rilascio dei prigionieri politici in Bielorussia. L’accordo arriva in un momento di distensione delle relazioni tra Washington e Minsk e segue la revoca delle sanzioni sulla compagnia aerea di bandiera bielorussa Belavia, avvenuta a novembre.

“Questo gesto è stato compiuto anche in relazione alle richieste di altri capi di Stato e sulla base dei principi umanitari e dei valori umani e familiari universali”, si legge nel comunicato ufficiale sull’accordo. “L'obiettivo è accelerare la dinamica positiva dello sviluppo delle relazioni con i paesi partner della Repubblica di Bielorussia e nell'interesse della stabilizzazione della situazione nella regione europea nel suo complesso”.

Lukashenko ha affermato che le persone graziate erano state condannate per “spionaggio, attività terroristiche ed estremiste”. Tra loro figurano cittadini di Gran Bretagna, Stati Uniti, Lituania, Ucraina, Lettonia, Australia e Giappone. 

Secondo i media bielorussi, l'elenco comprende anche Viktar Babaryka, l'avvocato bielorusso Maksim Znak, i difensori dei diritti umani del Centro “Viasna”, Valentin Stefanovich e Uladzimir Labkovich, e la giornalista Maryna Zolatava, condannata a 12 anni in una colonia penale nel 2023.

Restano ancora in prigione Andrzej Poczobut, giornalista del quotidiano polacco Gazeta Wyborcza, condannato a otto anni di carcere per “aver danneggiato la sicurezza nazionale” e “incitato all'odio” per la sua copertura delle proteste scoppiate dopo le elezioni del 2020, recentemente insignito del premio Sakharov dall’Unione Europea; gli attivisti di Viasna Marfa Rabkova e Valiantsin Stefanovic; e il figlio di Babariko, Eduard, che aveva aiutato a gestire la campagna presidenziale di suo padre.

“Man mano che le relazioni tra i due paesi si normalizzeranno, sempre più sanzioni saranno revocate”, ha dichiarato Coale, aggiungendo che le due parti hanno discusso della normalizzazione delle relazioni e della guerra tra Russia e Ucraina, e che “Lukashenko sta dando buoni consigli per risolvere il conflitto in Ucraina”.

Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno imposto sanzioni alla Bielorussia dopo che il governo ha represso le proteste popolari seguite alle contestate elezioni del 2020, che hanno comportato arresti di massa e torture degli oppositori politici. Ulteriori sanzioni sono state imposte nel 2022 dopo che la Bielorussia ha permesso alla Russia di utilizzare il proprio territorio per invadere l'Ucraina.

Nell'agosto 2021, un anno dopo le elezioni presidenziali in Bielorussia, non riconosciute dall'Occidente a causa di presunti brogli, gli Stati Uniti avevano inserito Belaruskali, uno dei maggiori produttori di fertilizzanti di potassio al mondo, nella lista delle sanzioni. Secondo il Comitato statistico nazionale, prima della crisi del 2020, la Bielorussia guadagnava 2,4 miliardi di dollari dalle esportazioni di fertilizzanti potassici, pari a circa l'8% del totale delle esportazioni bielorusse, o a circa il 4% del PIL del paese.

Commentando l'accordo degli Stati Uniti con la Bielorussia sulle spedizioni di potassio in cambio del rilascio dei prigionieri, Tikhanovskaya ha affermato che le sanzioni “sono un mezzo per costringere i dittatori ad agire. Lukashenko non rilascerà le persone perché è diventato improvvisamente umano, ma perché vuole venderle al prezzo più alto possibile. È una questione di prezzo”. Le sanzioni sono fondamentali per “consentire la transizione democratica e garantire la responsabilità”, ha concluso Tikhanovskaya.

 

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“Chi sono io?”: lettere sull’identità, la repressione e la malattia

14 Dicembre 2025 21 min lettura

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“Chi sono io?”: lettere sull’identità, la repressione e la malattia

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Pubblichiamo lo scambio di lettere tra Shamsia e Francesca Melandri. Queste lettere sono state prodotte nell'ambito del progetto Untold Narratives – Weiter Schreiben, un programma di scambio epistolare che mette in contatto scrittrici che vivono in Germania e Afghanistan, sostenuto dalla KfW Stiftung.

Untold Narratives è un programma di sviluppo rivolto a scrittrici strutturalmente emarginate dalla comunità o dai conflitti, con l'obiettivo di sviluppare le loro opere di narrativa e saggistica, condividere le loro storie con comunità più ampie nella loro lingua e raggiungere un nuovo pubblico globale attraverso la traduzione.

Una donna può vivere una vita dignitosa in Afghanistan? – Lettera 1

Cara Francesca,

Non so se sto scrivendo queste parole per confortarti o per alleviare il mio dolore. Ho la mente bloccata su questo pensiero: mi sento intrappolata tra la vita e la morte. Da un lato, mi perseguita la paura della morte; non per la morte in sé, ma perché temo possa restare qualcosa di incompiuto nella mia vita. Dall'altro, mi turba la speranza di vivere bene; non perché non abbia mai vissuto bene, ma perché temo di fallire. Ogni volta che penso alla fine, il significato della vita diventa più chiaro. È come se la paura della morte fosse un invito a continuare a vivere, a non scappare.

Questi pensieri sono cominciati due anni fa. Frequentavo l'università quando una donna entrò in classe, distribuì a ciascuna di noi un foglio di carta e disse: “Ecco un questionario per valutare la vostra salute mentale. Per favore, siate sincere".

Risposi alle domande senza riflettere. Tutte le altre risero mentre le leggevano, come se cercassero di nascondere tutte le loro paure dietro le risate. Forse non riuscivano ad ammettere di non essere felici o in pace con sé stesse. Ridere era più facile che piangere, perché in Afghanistan le lacrime di una donna sono viste come un segno di debolezza, mentre la risata funziona come una specie di armatura. Sono arrivata all'ultima domanda: “Hai mai pensato al suicidio?”

Gli occhi hanno indugiato contro la mia volontà, il sorriso è svanito dalle labbra. Non so perché, ma senza riflettere ho risposto: “Sì!”.

Qualche giorno dopo, quella stessa donna mi convocò nel suo ufficio. Mi chiese perché, in una classe di trenta persone, fossi stata l'unica ad aver pensato al suicidio. Non sapevo cosa rispondere. Lei voleva capire il motivo. In qualche modo riuscii a convincerla che la mia risposta era stata solo uno scherzo. Come se, spinta da un impulso, avessi segnato “Sì” senza riflettere. Ora la domanda era: “Ho pensato al suicidio?”

Per quel che ricordo, i miei amici hanno cercato, ciascuno a modo proprio, di impedirmi di scrivere sulla morte. Mi dicevano: “Se vuoi avere successo come scrittrice, devi mostrare speranza, non amarezza”. Sento che le persone cercano “il lieto fine”, ma quando guardo alla vita in Afghanistan, non riesco a scorgerne nessuno. Qui la felicità è più spesso l'eccezione che la regola. Perché dovremmo raccontarci storie ingannevoli? Non voglio ferire le persone, ma si stanno trascinando lontano dalla vita reale. 

Lascia che ti racconti una storia: quando avevo quindici anni, mio nonno mi parlò di un uomo che era tornato dalla morte. Non sapevo come avesse fatto. La mia giovane mente non riusciva a trovare una risposta. Finché un giorno vidi quell'uomo con i miei occhi, un uomo qualunque con un dolore profondo scolpito in volto. Non parlava. La gente diceva che aveva visto Dio ed era diventato muto. All'epoca tutti gli chiedevano dell'altro mondo. Uno gli chiedeva: “Com'era lì?”. Un altro gli chiedeva ingenuamente: “Hai visto anche mio padre che è morto?”. Quell'evento mi ha turbato per anni, perché non ho mai capito se quell'uomo fosse felice di essere tornato in vita o meno. Sono passati anni, ma vorrei ancora poterlo rivedere e, se possibile, parlare con lui. Vorrei chiedergli: “Cosa si prova a essere morti?”.

Potresti chiedermi perché sono così curiosa della morte. Se devo rispondere onestamente, ne ho davvero paura. So che può sembrare sciocco, ma più penso alla vita, più la morte mi appare oscura e terrificante. È come se in Afghanistan la morte avesse un senso e un colore diversi.

Ho paura che non ci sarà più alcuna possibilità di scrivere, di essere felice o anche solo di commettere errori. Ma in Afghanistan questo è solo un privilegio, non un diritto; un privilegio che è stato quasi completamente strappato via a noi donne. In un luogo in cui le nostre vite sono plasmate dalle leggi degli uomini, da tradizioni soffocanti e dalla paura del domani, nessuna opportunità è gratuita.

Ho ancora il fervore della giovinezza e ho sempre desiderato fare qualcosa di grande, come vincere il Premio Nobel per la Letteratura. Ma ci sono migliaia di vicoli ciechi sulla mia strada. Da un lato i talebani mi dicono: “Sei una donna afghana, c'è un limite a quanto in alto puoi volare”. Dall'altro lato c'è la paura di lottare per un futuro incerto, della morte stessa. Ho paura del giorno in cui non rimarrà traccia di me e sarò completamente dimenticata; o se una traccia rimarrà, ho paura che non risplenda abbastanza. 

Ora che sai della mia paura della morte, voglio condividere cosa volevo chiedere a quell'uomo. Nel profondo, capisco che conoscere la morte non cambierebbe nulla per me, ma sento che avrebbe potuto alleviare la mia paura. Volevo sapere dove va l'anima quando arriva la morte, se sia possibile che tutti i nostri desideri o dolori vengano dimenticati. Sai, la morte in sé non è così dolorosa, ma pensare a ciò che accade dopo è molto più doloroso e angosciante. Scompari da questo mondo come se non fossi mai esistita; passano gli anni e di colpo tutti ti dimenticano. Che fine triste e ingiusta!

Avrei voluto sapere quando sarebbe arrivata la mia morte, così da poter fare le cose che amo, come andare in montagna. Più di tutto desidero che qualcuno ascolti la mia voce. Noi donne siamo cresciute nell'ombra, eppure i nostri cuori brillano come il sole. Purtroppo, sembra che in Afghanistan non si debba riporre speranza nei sogni, perché non si realizzano. Forse è meglio non sapere nulla della morte.

Non resta che abituarsi. Se la vita fosse sempre piena di pace, perderebbe la sua dolcezza. Desidero vivere ogni momento di questa vita tragica ma meravigliosa con amore. Non riesco a reprimere la paura che provo di fronte alla morte, ma devo imparare a conviverci.

Ora torno alla mia domanda: “Ho davvero pensato al suicidio?” Sì, ho pensato alla morte, ma non ho mai desiderato uccidermi. Sono assetata di vita, assetata di libertà e di risate. Eppure in questo Afghanistan, dove le porte dell'università mi sono precluse perché sono una donna, dove mi sento sempre come intrappolata in una gabbia, ci penso più che mai. Quando soffocano i miei sogni, quando anche uscire per strada e ridere diventano distrazioni pericolose, e quando ho paura che i miei sogni non si realizzeranno mai, come è possibile restare aggrappati alla vita e non pensare mai a queste cose? 

Vivere in Afghanistan come donna non è molto diverso dal morire. Proprio perché sei una donna, senti che la tua stessa identità è sempre messa in discussione. È come se essere donna fosse un crimine e dovessi costantemente giustificare il tuo diritto di respirare, studiare, vivere. Essere donna qui significa seppellire ogni giorno una parte di te. La tua voce, la tua libertà, i tuoi sogni, persino le tue risate. Questo non è vivere, è semplicemente sopravvivere. E proprio quando ho imparato a volare, mi hanno tagliato le ali.

Ora ho capito che il suicidio non è mai la risposta e che noi esseri umani non abbiamo il coraggio di compiere un gesto del genere. Credo che Dio sia così misericordioso che dopo la morte mi darà una vita migliore. Sono questa speranza e questa fede che mi hanno tenuta in vita; questa speranza mi aiuta a non temere la morte e a rimanere forte.

Tua Shamsia

La vita è il dono più prezioso – Lettera 2

Cara Shamsia,

Sono così felice di aver finalmente ricevuto la tua lettera! Grazie per aver condiviso questi pensieri così personali e anche difficili. Mi ha fatto venire voglia di condividere a mia volta qualcosa di molto personale, qualcosa che mi è balzato in mente mentre leggevo le tue parole.

Tre anni fa, dopo due anni di pandemia, ho contratto il Covid. È stata una forma lieve: ho avuto molte influenze peggiori in passato. Dopo pochi giorni la febbre era scomparsa e il test era negativo. Ero molto sollevata che fosse stato così leggero. Tuttavia, circa 48 ore dopo il test negativo, mi sono svegliata nel cuore della notte, e quando ho cercato di alzarmi mi sembrava di essere su una nave in mezzo a una tempesta. Sono caduta in ginocchio. E soprattutto, non avevo idea di dove fossi né di chi fossi.

Non ti racconterò nei dettagli i giorni successivi, anche perché ne ho un ricordo confuso. In breve, ho vissuto un caso piuttosto grave di Long Covid, la misteriosa condizione che colpisce molte persone che hanno contratto il Covid - una su dieci! - e la cui gravità, come nel mio caso, non ha alcun collegamento diretto con la gravità dell'infezione da Covid stessa. I medici chiamano “Long Covid” una vasta gamma di condizioni diverse, dalla semplice stanchezza ai problemi neurologici - come è successo a me - fino a gravi danni agli organi interni nei casi più gravi. Io mi trovavo in una situazione intermedia: per alcuni mesi non ho avuto l'energia per alzarmi e riuscivo a malapena a sollevarmi dal divano, ma non ho mai provato dolore e la mia vita non è mai stata in pericolo. I sintomi del Long Covid possono essere molto diversi, l'unica cosa che hanno in comune è che devono durare almeno tre mesi dopo un test negativo: la parola chiave è “lungo”.

Tuttavia, mia cara Shamsia, non voglio descriverti cosa è accaduto al mio corpo, voglio parlarti di cosa è successo alla mia mente.

La maggior parte delle persone con o dopo il Covid ha sperimentato una sorta di apatia cerebrale, di confusione, la cosiddetta “brain fog”. Ma i miei pensieri non erano solo più lenti e meno chiari. Visualizziamo l'atto del pensare come un filo da seguire: i pensieri si dipanano con una continuità lineare, come se ci guidassero lungo un percorso; ma era come se  questo percorso fosse bloccato da un enorme cumulo di spazzatura, così che per fare anche un solo passo in avanti dovevo prima spingerne un po’ via e così da liberare spazio sufficiente per muovermi anche solo poco in avanti; poi dovevo spingere via altra spazzatura per fare il passo successivo, e poi ancora, e ancora, per ogni passo. La più semplice attività mentale era così un processo estenuante e dolorosamente lento, persino formulare pensieri elementari come “Sono le dieci” o “Devo chiamare il medico”. A peggiorare le cose, quando cercavo di verbalizzare questi pensieri rudimentali, spesso dalla mia bocca uscivano parole casuali che non avevano nulla a che fare con il significato che volevo esprimere. C'erano persino momenti in cui non riuscivo a rispondere con certezza alla domanda: chi sei? Immaginavo che sì, ero io, Francesca, ma non ne ero più sempre, e completamente, sicura. In breve, mi sembrava che ciò che mi rendeva un essere umano, la mia coscienza, si stesse arrestando; ma al tempo stesso, mi sentivo ancora abbastanza cosciente da poter assistere alla mia lenta caduta nella demenza.

Mia cara Shamsia, non sono mai stata così spaventata in tutta la mia vita.

Le cose non erano sempre così terribili. Questa condizione a volte durava solo pochi istanti, altre volte ore, altre volte giorni. Dopo un po' di tempo, ho iniziato a recuperare le mie facoltà mentali e, sebbene fossi ancora estremamente affaticata, mi sono sentita molto sollevata. Il mio cervello sembrava funzionare meglio e speravo che il peggio fosse passato. Ma dopo circa una settimana sono ricaduta in quello stato spaventoso. Poi sono migliorata di nuovo. Poi ho avuto una terza ricaduta. A quel punto, ho iniziato a perdere la speranza. È allora che ho cominciato a chiedermi: sarà così per il resto della vita? Scivolerò sempre di più nella demenza, terrorizzata dalla consapevolezza di ciò che mi sta accadendo, fino al giorno in cui sarò andata troppo lontana per avere persino paura, e allora il “me” fondamentale con cui mi sono identificata per tutta la vita scomparirà semplicemente?

È stato qui, Shamsia, che ho iniziato a pensare: se questo è il destino che mi aspetta, non voglio raggiungerlo. Non voglio vivere senza essere “me stessa”. Non voglio che i miei figli e i miei cari siano gravati dalla cura di un corpo che mi assomiglia e porta il mio nome, ma che non è più veramente “me”. In altre parole, ho iniziato a pensare: se questo è irreversibile, allora mi chiamo fuori. E “fuori” in questo contesto significava: via dalla vita.

Per fortuna, Shamsia, non c'è stato bisogno di arrivare a tanto. Quella terza ricaduta è stata anche l'ultima, le mie facoltà mentali alla fine sono tornate stabilmente. Dopo circa sei mesi, ho potuto finalmente riprendere a lavorare al libro che stavo scrivendo prima del Covid. Lentamente mi sono tornate le forze, e anche se non sono più tornate quelle di prima ho imparato a gestirle.

Mia cara Shamsia, sai, io ho sempre goduto di buona salute, a parte qualche piccolo disturbo. L’esperienza di una malattia che ti cambia la vita per sempre è stata perciò una novità, e spero di non dimenticare mai alcune delle cose che mi ha fatto capire.

La prima è la sensazione di solitudine totale, di separazione dal resto dell'umanità, dalla “maggioranza sana”. Questa solitudine  della malattia ha due aspetti. Uno è l'isolamento molto pratico dell'essere tagliata fuori da tutta la vita a cui non si può prendere parte. Durante quei mesi, anche una conversazione di venti minuti era estenuante per me, mi gettava in confusione, tanto che dovevo prepararmi psicologicamente alle visite dei miei amici, anche se ovviamente le aspettavo con ansia. All'improvviso l'invisibilità delle persone con disabilità non era più un concetto astratto, come era stato per tutta la mia vita da persona sana. E si concretizzava nelle parole delle persone che mi vedevano solo in quei venti minuti e dicevano: “Sembri stare molto meglio”, senza avere idea di come, dopo che se ne erano andati, dovessi passare ore raggomitolata sul divano per riprendermi dall'immenso sforzo di concentrazione che mi era costato parlare con loro, e il laborioso attraversamento di quecumulo di spazzatura mentale.

L'altro aspetto, ancora più doloroso, è sperimentare che nessuno capisce veramente cosa stai passando, a meno che non abbia vissuto un'esperienza simile. E le persone meno capaci di capirlo sono spesso quelle che più intensamente desiderano che tu guarisca. Per molte di queste persone ben intenzionate, il desiderio che tu, la persona malata, stia meglio si mescola al loro terrore molto umano della malattia, e quindi della morte. Paradossalmente, spesso sono proprio queste persone le meno capaci di riconoscere che non stai affatto bene. Il loro sincero desiderio di vederti guarita diventa un ulteriore fattore di stress in una situazione già stressante; senti cancellata la tua esperienza di vita, aumentando il senso di disperazione. 

Ora, mia cara Shamsia, voglio raccontarti cosa mi è successo dopo che tutto è finito. Mi sono sentita come se fossi stata liberata da una terribile prigione in cui mi era stato minacciato di trascorrere il resto della mia vita. E proprio come non mi sono mai sentita così terrorizzata, allo stesso modo posso dire che non ho mai provato una gioia così profonda come quando mi è stata restituita non solo la mia vita, ma anche la sensazione di essere “me stessa”. Immagino che questo sia ciò che accade alle persone che sopravvivono a incidenti mortali. Ero ancora molto debole e svolgere la maggior parte delle cose pratiche era ancora difficile, ma il mio cervello era tornato, la mia mente era tornata, io ero tornata! Mi sembrava di essere risorta. Ogni singolo momento era come una benedizione inaspettata. Per alcuni mesi ho goduto di una sorta di luce interiore: la vita è il dono più prezioso e ne ero pienamente consapevole.

Ovviamente questo stato luminoso non è durato per sempre, non sono più in quello stato di gratitudine, gli alti e bassi della vita sono tornati nella loro ordinaria normalità. Ma cerco di non dimenticarlo.

Infine, molte persone a cui ho raccontato questa storia mi hanno detto che loro, o alcuni loro cari, hanno vissuto qualcosa di simile. Il numero di persone che soffrono di infezioni post-virali croniche e molto gravi - non solo Long Covid ma, ad esempio, encefalomielite mialgica (ME) - è enorme. Si stima che siano milioni, ma questa  condizione, che spesso distrugge la loro vita, è invisibile al resto della società e non fa notizia. Mi vergogno di dire che io stessa non avrei mai compreso la portata di questo fenomeno, né forse me ne sarei mai interessata, se non ne avessi fatto esperienza in prima persona. Ecco perché ho voluto raccontarti questa storia. Perché sai, quando ho letto la risposta che hai dato al sondaggio, ho pensato: sono sicura che Shamsia non fosse l'unica in quella classe ad aver avuto pensieri suicidi. Chissà quante altre donne che hanno partecipato al sondaggio hanno pensato di togliersi la vita, nel silenzio e nella solitudine della loro disperazione. Ma solo tu, mia cara Shamsia, sei stata pronta a parlarne apertamente. Perché questo è ciò che fa una scrittrice.

Con amicizia,
Francesca

Le fratture possono essere finestre sulla luce - Lettera 3

Cara Francesca,

Ho letto con attenzione la tua lettera, più volte, con profondo rispetto. Ogni volta ho trovato qualcosa di nuovo: qualcosa di umano, doloroso, ma illuminante. Non ti sei limitata a descrivere la tua esperienza, l'hai fatta rivivere attraverso le parole, come se queste avessero portato sulle spalle parte della sofferenza.

Ciò che mi ha colpito di più non sono state le descrizioni fisiche o mentali della malattia, ma ciò che era andato oltre i confini del dolore ed era entrato nel regno dell'identità. Quei momenti di cui hai scritto, quando dicevi di non sapere più chi fossi, per me sono davvero una delle forme più terrificanti di sofferenza umana. Eppure, non solo sei tornata alla vita riemergendo dall'abisso, ma hai continuato a vivere con uno sguardo più attento e profondo.

La domanda che ti sei posta aleggia da tempo anche intorno a me, come una nebbia di illusioni. A volte ho dimenticato chi ero, o forse non ho mai veramente conosciuto me stessa. Sapere chi sei richiede un cammino, un rimedio. Credo che molte persone manchino di autoconsapevolezza; è come se inseguissero ciò che gli altri si aspettano da loro, non ciò che desiderano veramente. Spesso cerchiamo di confonderci tra la folla o fissiamo lo sguardo su una persona di rango di cui non siamo nemmeno certi della bontà. Questa tendenza non si vede solo nell'aspetto esteriore, ma anche nel nostro comportamento, nei nostri pensieri e persino nel nostro modo di vivere. Molti di noi credono che la nostra identità sia definita dalla ricchezza, dalla posizione sociale o dai desideri terreni effimeri. Ma in realtà, le nostre radici affondano in qualcosa di più profondo e duraturo. La nostra vera identità esiste in quella parte di noi che non dipende dall'approvazione degli altri: nei nostri valori, nelle nostre convinzioni e nel significato che diamo alla vita.

Mia cara Francesca, da molto tempo desidero sapere esattamente cosa dovrei fare: qual è il vero scopo della mia vita. Comprendere il proprio scopo è la strada per rispondere alla domanda: “Chi sono io?”

Vivo in una società in cui alle donne viene data poca importanza. La ragione di ciò risiede nello stile di vita profondamente tradizionale e antiquato del popolo afghano: in quelle credenze che confinano la donna esclusivamente tra le mura di casa. Per un po' ho cercato di trovare me stessa. E quanto è difficile, quando finalmente raggiungi il limite della scoperta di te stessa, vedere un gruppo portarti via quella comprensione per anni. Quel gruppo sono i talebani. Dio solo sa, forse anche loro non hanno mai veramente conosciuto se stessi. Commettono atti senza comprenderne lo scopo; per esempio, privando le donne del diritto al lavoro, all'istruzione, alla libertà. Probabilmente non conoscono il motivo dietro queste azioni perché non hanno mai cercato una risposta alla domanda “Chi sono io?”.

Dico questo perché un altro aspetto della conoscenza di sé è la capacità di cogliere la verità e di distinguere il bene dal male; e, a mio avviso, questo è proprio ciò che manca ai talebani. Non sono in grado di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è; si limitano a seguire le orme dei loro padri e le promesse che hanno fatto molto tempo fa.

Considerando la situazione attuale in Afghanistan, non credo che la vita migliorerà per molti anni a venire. Io e altre giovani donne come me ci consideriamo vittime di queste circostanze. A volte mi dico: se solo fossi nata qualche anno prima, o qualche anno dopo, oltre questa era dei talebani. O se solo fossi nata in un altro posto. Se solo…

Mia cara Francesca, non voglio allontanarmi dalla domanda principale – “Chi sono io?” – ma a volte la vita diventa così difficile che quando mi guardo allo specchio non riconosco più la persona che mi sta davanti. Mi chiedo: “È la stessa che un tempo credeva di poter plasmare il proprio futuro?” Oppure sono solo un’ombra modellata dallo sguardo degli altri, che ora non ha nemmeno il coraggio di vivere come desidera? Forse è per questo che parlo costantemente con me stessa, lotto con me stessa, mi rivolgo persino contro me stessa. Provo rabbia e non so perché, ma forse è a causa della situazione in Afghanistan.

Mia cara Francesca, mi sento come se volessi urlare, ma senza riuscire a emettere alcun suono. Forse la mia voce si è persa tra i miei pensieri e la paura del futuro.

Mia cara Francesca, per me sei la prova vivente di un essere umano che ha attraversato l'oscurità, ha sopportato la sofferenza e continua a stare a testa alta. Mi ricordi che la frattura può diventare un varco verso la luce e che ogni crepa nell'anima può essere un segno del passaggio della fede e della speranza. Anche quando sei silenziosa e stanca, non dimenticare mai che sei ancora sul sentiero, il sentiero che conduce alla verità, trasformando questo fragile senso di sé in un “io” più pieno e profondo. Forse non hai ancora raggiunto quell'io completo, ma ogni passo che fai, anche nel silenzio e nel dubbio, ti avvicina al luogo in cui ritroverai te stessa. Quindi, resta e continua ad andare avanti, anche quando ti perdi lungo la strada. Perché tu non sei solo un “io”; sei la storia di un essere umano che cerca la luce attraverso l'oscurità, e questa è la più grande verità di tutte.

A volte penso che questa domanda, “Chi sono io?”, sia una sorta di trappola. Forse la verità non sta nel trovare la risposta, ma nel sopportare il dolore della ricerca. Forse quando una persona finalmente raggiunge la verità, potrebbe non essere più viva e in quel preciso momento morire, ma la verità stessa rimane viva. Per conoscere se stessi, per rispondere a questa domanda, bisogna viaggiare nelle profondità del proprio essere, attraversare la propria anima e la propria mente, fino a quando non si riesce finalmente ad affrontare il vero “io”.

Se qualcuno mi chiedesse ora: “Chi sei?”, risponderei: io sono la ricerca stessa: un percorso, un'anima errante, la condizione stessa dell’essere smarrita mentre lotto per raggiungere la verità e trovare me stessa, nonostante tutto.

E se ora ti chiedessi: “Chi sei?”, quale sarebbe la tua risposta?

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi.

Con affetto,
Shamsia

Chi sono? Questa è la domanda cruciale – Lettera 4

Mia cara Shamsia,

ieri ho finito di scrivere quella che pensavo fosse la mia lettera per te. Stavo per inviarla agli organizzatori del nostro scambio quando ho letto la notizia: i talebani hanno bloccato internet in tutto l'Afghanistan.

Come si può reagire a questo? Come si può dare un senso all'oscurità, alla crudeltà, alla stupidità?

Ovviamente il mio primo pensiero è andato a te, cara Shamsia. A come hai descritto la tua vita interiore mentre i talebani hanno trasformato l'Afghanistan in una prigione a cielo aperto per tutte le donne.

Dopo aver letto queste notizie, la lettera che avevo appena finito di scriverti mi è sembrata... priva di significato. Inutile. E non solo perché ora non sono più sicura di quando, o addirittura se, potrai mai leggerla.

Proprio come nella tua prima lettera, anche nella seconda hai coraggiosamente dato voce al tuo dolore, alla tua privazione, alla tua disperazione. Eppure, stranamente, questo mi ha confortato. Non per le parole gentili che hai scritto su di me, per le quali ti ringrazio di cuore anche se non sono sicura di meritarle. Ciò che mi ha confortato è stata la sorprendente, eppure intensa sensazione di connessione che ho provato sia con le tue idee che con te, Shamsia. Con te, la donna, la persona reale.

Questo è ciò che hai scritto sui talebani:

Probabilmente non conoscono il motivo dietro queste azioni perché non hanno mai cercato una risposta alla domanda “Chi sono io?”.

Quando ho letto questa frase mi sono ritrovata a dire ad alta voce: “Sì!”. Avrei potuto scriverla io stessa.

In effetti, l'ho fatto. Alcuni anni fa, ho scritto qualcosa di molto simile in uno dei miei romanzi. La protagonista riflette sulle cause profonde del razzismo, sia nella società italiana odierna che durante il fascismo, quando suo padre andò come invasore in Etiopia. Riflette sul razzismo sia come manifestazione sociale che dentro di sé, una donna europea quarantenne, di classe media, dalla pelle chiara. Questa è la parte finale dei suoi pensieri:

Ilaria capisce la vera domanda che le si pone (...). È la stessa domanda che, inespressa e negata, si nasconde dietro gran parte di ciò che definiamo razzismo. E non è “Chi sei?”, ma piuttosto: “Chi sono io?

Sono d'accordo con te, cara Shamsia. I razzisti, i misogini, coloro che odiano interi gruppi di persone usate come capri espiatori - ebrei, musulmani, africani, donne, e mi fermo qui - manifestano tutti con il loro odio la stessa debolezza indicibile ma estremamente profonda. È così che il premio Nobel Toni Morrison ha definito una volta in modo memorabile i suprematisti bianchi:

“C'è qualcosa di distorto nella loro psiche. Se riesci a stare in piedi solo perché qualcun altro è in ginocchio, allora hai un problema serio”. E anche: “Le persone che fanno questo, che praticano il razzismo, sono come deprivat di qualcosa di essenziale".

Deprivate. 

Che parola profonda. Suggerisce una mancanza definitiva e irrimediabile, come la perdita che segue una morte.

Include anche una strana compassione per le persone crudeli che descrive - non per i loro atti di crudeltà, ovviamente, ma per loro, per gli esseri umani con quella insanabile mancanza. La stessa compassione che Gesù espresse sulla croce quando chiese a suo Padre di perdonare i suoi torturatori perché “non sanno quello che fanno”.

Questi uomini sono privi di un senso di sé abbastanza solido da non aver bisogno di esercitare il dominio su qualcun altro per sentirsi completi. Ma, come hai detto così eloquentemente, cara Shamsia, i talebani - proprio come ogni fascista, razzista, misogino - non lo raggiungeranno mai perché non si pongono mai la domanda delle domande: “chi sono io?”. Invece, costringono le loro vittime a portare sulle proprie spalle la loro mancanza interiore e a pagarne al posto loro il terribile prezzo.

Ecco perché, mia cara Shamsia, mi sono sentita così vicina a te mentre leggevo la tua lettera. E questo è esattamente ciò che i talebani temono e odiano: la relazione umana . Ecco perché cercano di interromperla completamente, o almeno ci provano.

È passato un giorno e oggi i talebani hanno ripristinato la connessione internet in Afghanistan. Ma come si può essere sicuri che non la interromperanno di nuovo a loro piacimento? Mia cara Shamsia, provo una tale rabbia nei confronti di questi uomini meschini, crudeli e rotti dentro che stanno facendo questo a te e a tutte le donne dell'Afghanistan. Ma il sentimento più forte che provo è la vergogna. È la mia parte del mondo, il ricco, prospero e democratico Occidente, che ti ha abbandonata nelle loro mani. Non abbiamo nemmeno la scusa di non sapere cosa stavamo facendo quando ti abbiamo tradita. Lo sapevamo benissimo, eppure lo abbiamo fatto lo stesso. E continuiamo a farlo, negando l'asilo che avevamo promesso agli afghani in fuga dall'orrore dei talebani.

Chiederei il tuo perdono, se non provassi tanta vergogna. Quindi questa è l'unica cosa che posso fare: mi rifiuto di smettere di sperare che un giorno tu e io potremo stare nella stessa stanza, e bere  insieme una tazza di tè.

Tua Francesca

Immagine in anteprima: Francesca Melandri

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