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La Risoluzione ONU sul cessate il fuoco e gli effetti su Israele e Hamas

28 Marzo 2024 7 min lettura

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La Risoluzione ONU sul cessate il fuoco e gli effetti su Israele e Hamas

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Con quattordici voti a favore e l’astensione degli Stati Uniti, il 25 marzo 2024 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione richiedendo un cessate il fuoco temporaneo nel conflitto tra Israele e Hamas, iniziato a seguito degli attacchi del 7 ottobre 2023. Dopo mesi di stallo dovuti ai veti incrociati dei membri permanenti del Consiglio (tre veti statunitensi e due veti di Cina e Russia), è stato finalmente trovato un accordo sulla base di un testo proposto dai dieci membri non permanenti del Consiglio e presentato dal Mozambico.

Il testo della Risoluzione 2728 (2024), che è molto breve, richiede "a tutte le parti del conflitto di cessare le ostilità con effetto immediato per il mese del Ramadan", in vista di una successiva risoluzione definitiva del conflitto per via negoziale. Chiede inoltre "il rilascio incondizionato degli ostaggi" e che tutte le parti del conflitto rispettino gli obblighi che derivano dal diritto internazionale umanitario. Queste richieste non sono tra loro legate da un nesso di condizionalità.

Il testo rappresenta un compromesso tra le diverse proposte avanzate in precedenza dalle varie parti coinvolte, con l'intento di conferire maggiore o minore vincolatività al dispositivo della risoluzione. Gli Stati Uniti, preoccupati per le possibili conseguenze sui negoziati in corso, avevano precedentemente proposto una formulazione più ambigua che sottolineava “l'imperativo di un cessate il fuoco immediato e duraturo”, senza una richiesta esplicita intestata al Consiglio. D’altra parte, la Russia aveva invece richiesto che il cessate il fuoco fosse “permanente” e non limitato al periodo delle festività religiose, ma questo emendamento non è stato accolto.

Il testo della risoluzione non menziona specificamente gli attacchi del 7 ottobre né le responsabilità di Hamas, come auspicato da Israele. Piuttosto, condanna in modo generico "tutti gli attacchi contro i civili [...] e tutti gli atti di terrorismo”. Questo ha portato l’ambasciatore e rappresentante permanente di Israele alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, a definire l'adozione della risoluzione “una vergogna”.

La risoluzione è vincolante per Israele?

La risoluzione ha suscitato reazioni contrastanti. L’ambasciatore dell’Algeria ha affermato che questo può essere il primo passo per porre fine al “bagno di sangue” che sta avvenendo a Gaza. Gli Stati Uniti, pur non opponendosi alla sua adozione – il che lascia pensare a un certo malcontento dell’amministrazione Biden nei confronti delle attuali politiche militari israeliane –  hanno dichiarato sin da subito di non considerarla vincolante. In segno di protesta, Israele ha recentemente annunciato il ritiro dalle trattative in corso in Qatar, e il ministro degli Esteri, Israel Katz, ha detto che il paese non darà seguito all’ordine di cessate il fuoco.

Sebbene sia ragionevole aspettarsi che gli Stati rispettino le decisioni del Consiglio – dato che quest’ultimo agisce per tutelare la pace e la sicurezza comune – è tecnicamente complesso stabilire se le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza siano vincolanti dal punto di vista giuridico. Secondo una parte della dottrina internazionalistica, le uniche disposizioni della Carta che permettono l’adozione di decisioni vincolanti sarebbero gli articoli 41 e 42, che consentono l’adozione di misure coercitive, di carattere sanzionatorio (articolo 41), o di carattere militare (articolo 42), nei casi di minaccia alla pace internazionale o sue violazioni. La Risoluzione 2728 (2024) – probabilmente in virtù della sua natura di compromesso – non contiene alcun riferimento alla base giuridica su cui è stata adottata, per cui è difficile individuarne l’esatto fondamento nella Carta. Non sembrerebbe trattarsi degli articoli 41 e 42, perché il Consiglio non ha formalmente determinato, come richiederebbe preliminarmente l’articolo 39 della Carta, l’esistenza di una minaccia alla pace o una sua violazione.

Nella prassi delle Nazioni Unite, il “cessate il fuoco” è tipicamente considerata una “misura provvisoria” ai sensi dell’articolo 40 della Carta, ossia una misura temporanea che il Consiglio può adottare allo scopo di prevenire l’aggravarsi del conflitto. La risoluzione 2728 rientrerebbe in questa ipotesi, dato che dispone un cessate il fuoco temporaneo e contiene riferimento ai tentativi di negoziati in corso. Solitamente, però, si ritiene che le misure provvisorie non abbiano carattere vincolante, e infatti l’Articolo 40 parla di un “invito” che il Consiglio può rivolgere alle parti di un conflitto e specifica che, in caso di mancato ottemperamento, il Consiglio ne terrà “debito conto”.

Chi sostiene invece che tutte le decisioni del Consiglio siano vincolanti fa leva sul dato letterale dell’Articolo 25 della Carta, che impone agli Stati membri un generale obbligo di osservare e attuare le decisioni del Consiglio di Sicurezza. Questa interpretazione è stata anche fatta propria dalla Corte internazionale di giustizia (Opinione consultiva sulle conseguenze giuridiche della continua presenza del Sudafrica in Namibia del 1971, qui, para. 113).

Bisogna sottolineare che una risoluzione del Consiglio può avere sia un contenuto decisorio (decisioni) sia un contenuto più meramente esortativo (raccomandazioni) e che soltanto il primo sarà da considerarsi vincolante. La Corte internazionale di giustizia ha affermato che il carattere vincolante di una risoluzione debba essere valutato a seconda delle circostanze, del linguaggio utilizzato, delle discussioni tra i membri del Consiglio e delle disposizioni della Carta invocate (Opinione consultiva sulla Namibia, 1971, para. 114). 

Se si guarda al linguaggio utilizzato nella risoluzione 2728, è difficile ritenere che non sia un vero e proprio ordine. Di certo il verbo “demand” (“richiedere” in una traduzione approssimativa) non sembra meramente esortativo. Inoltre, il “cessate il fuoco” è indicato con pretesa di immediatezza e fa riferimento a un periodo di tempo circoscritto, il mese del Ramadan. Considerato che le festività religiose sono tutt’ora in corso, se si considerasse la misura come una raccomandazione, la Risoluzione 2728 verrebbe privata con tutta probabilità di qualsiasi effetto utile. 

D’altro canto, se il Consiglio avesse voluto rivolgere un invito o una raccomandazione, avrebbe potuto utilizzare un linguaggio diverso. Ad esempio, il cessate il fuoco nel conflitto israelo-palestinese del 2006 è stato richiesto per mezzo di formule come “calls for” (Risoluzione 1701/2006).

Formulazioni analoghe a quella della risoluzione 2728 sono state utilizzate in altre risoluzioni considerate vincolanti. Ad esempio la risoluzione 598/1987, che chiedeva un cessate il fuoco immediato tra Iran e Iraq, utilizzava il termine “demands” (“Demands that, as a first step towards a negotiated settlement, the Islamic Republic of Iran and Iraq observe an immediate cease-fire”), ed è stata considerata vincolante da numerosi Stati (qui, pp. 16, 21-22, 27-28), dall’allora Presidente del Consiglio di Sicurezza (qui), e dall’Iraq stesso (vedi. Doc. S/19045 del 14/08/1987), oltreché accettata incondizionatamente dall’Iran (vedi Doc. S/20094 dell’08/08/1988). Lo stesso termine è stato utilizzato nella risoluzione 660 del 1990, che richiedeva il ritiro delle truppe irachene a seguito dell’invasione del Kuwait.

Alcuni studiosi ritengono che possa parlarsi di decisione in senso proprio soltanto quando il Consiglio utilizza termini come “decides”. Tuttavia, in passato sono state riconosciute come vincolanti anche decisioni che utilizzavano termini più esortativi, come “calls upon” (ad es. la Risoluzione 269/1969 e la Risoluzione 276/1970, sul cui punto si può vedere Opinione consultiva sulla Namibia della Corte internazionale di giustizia, 1971, para. 115).

Al momento, in risposta alla posizione statunitense, alcuni Stati tra cui Cina, Russia, Sierra Leone, Francia e Algeria hanno chiarito di ritenere la risoluzione vincolante. In virtù di tutti questi elementi, può affermarsi che Israele debba dare seguito alle richieste del Consiglio di Sicurezza e adempiere all’ordine di cessate il fuoco. Una violazione del dispositivo della risoluzione comporta una violazione degli obblighi assunti da Israele con la partecipazione alle Nazioni Unite e in ultima analisi una violazione del diritto internazionale.

Dal punto di vista giuridico, questo potrebbe comportare eventuali comportamenti ritorsivi e sanzionatori da parte di altri Stati, oltreché l’adozione di misure sanzionatorie da parte degli organi delle Nazioni Unite. Da un punto di vista politico, il mancato ottemperamento da parte di Israele della risoluzione potrebbe aumentare il suo isolamento sulla scena internazionale e conseguentemente allontanarlo dai suoi attuali alleati. Inoltre, solleverebbe interrogativi sulla legittimità delle sue operazioni militari e sui loro obiettivi, considerando che finora esse sono state giustificate come operazioni di legittima difesa (Articolo 51 Carta ONU). 

Va ricordato a questo proposito che il 26 marzo è scaduto il termine per Israele per presentare il report sull’implementazione delle misure provvisorie indicate dalla Corte internazionale di giustizia nel ricorso proposto dal Sudafrica per le presunte violazioni della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio. Il report è stato presentato ma non è attualmente pubblico.

La risoluzione è vincolante anche per Hamas?

Una questione leggermente diversa è comprendere se la risoluzione sia vincolante anche per Hamas, dato che Hamas non può essere considerato uno Stato ai sensi della Carta delle Nazioni Unite. Come accennato in precedenza, l'Articolo 25 della Carta dell'ONU stabilisce l'obbligo di rispettare le decisioni del Consiglio di Sicurezza solo per gli Stati membri.

Tuttavia, è ampiamente accettato che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza possano riguardare anche Stati non membri delle Nazioni Unite e attori non statali. A differenza delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, che sono vincolanti solo per le parti coinvolte nel procedimento (inevitabilmente Stati) le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza non incontrano questo limite, in considerazione della natura speciale della Carta delle Nazioni Unite.

In numerose occasioni, il Consiglio si è rivolto anche ad attori che non sono propriamente considerati Stati, imponendo loro il rispetto di obblighi internazionali. Ad esempio, la Risoluzione 814/1993 e la Risoluzione 1474/2003 sui conflitti in Somalia si sono rivolte rispettivamente anche a "movimenti e fazioni" e "altri attori", mentre la Risoluzione 1160/1998, adottata durante il conflitto in Kosovo, si è rivolta anche alla “leadership albanese del Kosovo”. Pertanto, nella parte in cui la Risoluzione 2728 ordina un cessate il fuoco a tutte le parti coinvolte nel conflitto (“an immediate ceasefire […] respected by all parties”), il Consiglio di Sicurezza si sta inequivocabilmente rivolgendo anche ad Hamas, con pretesi effetti vincolanti. D'altra parte, ancora una volta, se lo avesse voluto, il Consiglio avrebbe potuto utilizzare una formulazione differente. 

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Violenza e impotenza nella Russia di Putin

27 Marzo 2024 5 min lettura

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Violenza e impotenza nella Russia di Putin

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Calma, stabilità, sicurezza in cambio della libertà: questi erano i punti di un "contratto" immaginario con la società. Cosa resta adesso di questo “contratto”?

di Anton Orech

Venerdì sera un mio conoscente non ha controllato il telefono, non ha acceso la TV (del resto, la cosa non gli sarebbe stata di grande aiuto) ed è andato a letto presto. Al mattino ha visto le immagini del “Crocus” in fiamme e ha pensato a un attacco di droni. E a cos’altro si potrebbe pensare adesso? Belgorod è sotto attacco ogni giorno, le raffinerie di petrolio vanno a fuoco, droni si schiantano sulle città. Non si può dire che ci abbiamo fatto l’abitudine, ma siamo preparati. Invece al massacro nella capitale non eravamo preparati per nulla. 

Quel che è peggio è che non erano preparati nemmeno coloro che avrebbero dovuto essere pronti a qualsiasi cosa. Del resto, la storia dei peggiori attacchi terroristici in Russia è quasi sempre fatta di impreparazione, codardia e inganno. In questo senso, temo che il “Crocus” insanguinato ci riserva nuovi dettagli non meno orribili di Beslan e il “Nord-Ost”…

La prima reazione delle autorità, che cercano in modo alquanto goffo di scaricare la colpa ora sull’Occidente, ora sull’Ucraina, non fa altro che mettere in evidenza il loro smarrimento. Loro davvero non si aspettavano un attacco su questo fronte. Stringendo la mano ora ad HAMAS, ora ai talebani, ora ad altri farabutti, non avevano previsto che il terrorismo islamico sarebbe tornato nella sua forma più orribile. Tranquillità, stabilità e sicurezza: questi erano i punti del presunto “contratto” con la società. Noi ve li diamo in cambio delle vostre libertà, della vostra non ingerenza nella politica, in cambio di quell’87% alle elezioni. Del resto, questo “contratto”, il potere ha iniziato già da tempo a ridefinirlo in modo unilaterale. Cosa ne resta ora? Una sala concerti senza tetto ridotta in cenere e centinaia di persone uccise e menomate dai terroristi?

Le autorità tollerano Kadyrov e il suo Stato nello Stato proprio perché assicura la “tranquillità” e garantisce che non ci saranno altre esplosioni nei condomini, in metropolitana, nelle stazioni, su treni e aerei… È significativo, tra l’altro, che i combattenti dell’“Achmat” siano stati menzionati subito, quando si è parlato della cattura dei terroristi del “Crocus”. Questo per mettere subito in chiaro che gli uomini di Kadyrov sono amici e aiutanti, mentre le brutte associazioni con gli anni Zero vanno tenute alla larga.

Ma è significativo anche un altro fatto. Quello stesso venerdì, poche ore prima della tragedia, nel registro degli estremisti e terroristi è stato inserito il “Movimento internazionale LGBT”: un’organizzazione immaginaria, messa al bando in modo tutt’altro che immaginario. La prima “cellula” а еssere scoperta è stato un locale gay a Orenburg. Ne risulta che, dal punto di vista della legge, non c’è alcuna differenza tra questi baristi e i tagliagole del “Crocus”. Sono terroristi i primi e sono terroristi i secondi. Decine di persone finiscono in questi registri senza aver commesso alcun atto di violenza, ma per delle pubblicazioni sui social, delle dichiarazioni, o qualcos’altro ancora. Interi reparti dei servizi di sicurezza monitorano senza sosta migliaia di canali e account, esaminano, leggono, aggiornano regolarmente i registri...

Chissà se hanno tempo per leggere i canali dei veri criminali. Perché, se si crede alle prove fornite, i banditi della strage del “Crocus” sono stati praticamente reclutati tramite un annuncio e in cambio di somme ridicole. Insomma, dei poveracci disoccupati sono stati in grado di trovare quegli annunci, i diligenti servizi segreti, a quanto pare, no.


Dei terroristi che non conoscevano né il russo né il luogo ci hanno messo solo 18 minuti a uccidere decine di persone e ridurre in cenere una delle sale concerti più grandi del paese.

Le forze speciali hanno impiegato un’ora e mezza per arrivare sul posto e iniziare l’assalto all’edificio, nel quale non c’era già nessuno, a parte le persone che stavano morendo per le fiamme e il fumo. Dopo aver percorso centinaia di chilometri, i terroristi sono stati intercettati dalle videocamere di sorveglianza perché avevano superato il limite di velocità. E se non l’avessero superato? A Mosca (e non solo) siamo sorvegliati da migliaia di videocamere. La tecnologia di riconoscimento facciale, come suol dirsi, vi riconoscerà lo stesso, non importa se siete truccati, indossate gli occhiali o avete il cappello tirato giù fino al mento. E con quanta solerzia sono stati identificati coloro che erano andati ai funerali di Naval’nyj! Non è stato necessario inseguirli per 400 chilometri. 

E noi capiamo bene, perché è andata così. Perché assicurare la sicurezza pubblica è sì un obiettivo delle autorità, ma non è la sua priorità. La priorità è, invece, “auto-assicurarsi” la stabilità e la solidità dello Stato, neutralizzare nemici e oppositori, isolare tutti i dissidenti. O pensate che sia un caso che Kara-Murza abbia avuto una condanna più grave di quella del “maniaco di Skopin”? E poi accade la tragedia, e succede che i poliziotti di stanza proprio dietro l’angolo del “Crocus” si dileguano, mentre i veri eroi si rivelano essere dei ragazzini addetti al guardaroba, di 14 e 15 anni, che salvano centinaia di persone. Oppure un giovane che disarma uno dei terroristi, o un guardiano 47enne, che sfonda delle porte chiuse a chiave…

“Spesso, l’eroismo di alcuni è frutto di un crimine di altri”, diceva Michail Žvaneckij, e la vita ce lo ha confermato centinaia di volte. Ma ecco che accade una nuova tragedia, e prima di ogni altra cosa sentiamo dire che bisogna reintrodurre la pena di morte. Bene, la società sarà senz’altro contenta. Già non facciamo altro che sentire frasi del tipo: per queste cose bisogna fucilare la gente, metterla al muro. E “queste cose” possono essere anche solo il furto di una pagnotta al supermercato.

Il figlio di Kadyrov entra in cella e pesta un sospettato in custodia cautelare, violando la legge a favore di camera. E riceve un sacco di onorificenze. Ora tutti noi abbiamo visto il modo in cui i terroristi (sì, senza ombra di dubbio, dei criminali) sono stati torturati, a uno di loro è stato tagliato un orecchio. Questo è già di per sé un crimine. Ma nessuno, nemmeno per una cinica formalità, direbbe: ragazzi, stiamo esagerando; ovviamente, quelle carogne se lo sono meritato, ma forse non era il caso di riprendere e diffondere queste cose.

E, se necessario, si ucciderà con altrettanta facilità: non fa alcuna differenza chi spedirà una persona all’altro mondo, se ciò accade comunque “secondo giustizia”.

Accanto alla tragica impotenza di chi dovrebbe difenderci, vediamo la facilità con cui la violenza diventa norma.

Gli “yankee” già hanno ripreso a diffondere l’allarme, come agli inizi di marzo, quando i loro avvertimenti su un imminente attacco terroristico sono stati considerati una forma di ricatto e tentativo di destabilizzazione. E noi capiamo che ciò che è successo al “Crocus” potrebbe ripetersi, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento. E sarà solo una questione di fortuna. 

Articolo originale apparso su Novaya Gazeta e tradotto per gentile concessione della redazione. Traduzione dal russo all'italiano  a cura di Anastasia Komarova.

Immagine in anteprima: frame video CBS Sunday Morning via YouTube

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Da Milosevic a Vucic, il lungo tradimento della democrazia serba

26 Marzo 2024 7 min lettura

Da Milosevic a Vucic, il lungo tradimento della democrazia serba

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Riunito in sessione plenaria a Strasburgo all'inizio di febbraio, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione in Serbia dopo le elezioni dello scorso dicembre. Il testo chiede un'indagine internazionale e indipendente sulle irregolarità denunciate dall'opposizione in Serbia riguardo alle ultime elezioni, vinte dal partito del presidente serbo Aleksandar Vučić. La risoluzione include anche la richiesta di una sospensione dei finanziamenti da parte dell'Unione Europea nel caso in cui le autorità di Belgrado non si mostrino pronte ad attuare le principali raccomandazioni elettorali o nel caso in cui i risultati dell'inchiesta dimostrino un coinvolgimento diretto delle autorità serbe nei presunti brogli.

Le elezioni locali a Belgrado hanno visto la vittoria della coalizione di opposizione “Serbia contro la violenza” che riunisce diversi partiti, movimenti civici ed ecologisti. Tuttavia, stando a quanto sostenuto dal presidente serbo Vučić, ciò non è accaduto. Il nome di questa coalizione nasce dopo le tragiche sparatorie in Serbia avvenute prima in una scuola e poi davanti un’altra, all’inizio di maggio dell'anno scorso, in cui sono state uccise 19 persone. Questa lista ha segnalato 450 irregolarità, e la più grande riguarda il voto delle persone provenienti dalla Repubblica Srpska [ndr, la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina] a Belgrado, ma anche in altre città in Serbia. Secondo quanto dichiarato dai loro rappresentanti, il governo ha permesso il voto a più di 40.000 persone provenienti dalla Bosnia, solo a Belgrado.

Tuttavia, le accuse delle molte irregolarità non sono arrivate solo da parte dell’opposizione, ma anche dagli osservatori internazionali, tra cui i rappresentanti dell’OSCE, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. In un paese democratico, questo sarebbe motivo sufficiente per interrompere le elezioni, ma non in Serbia, il paese candidato all'adesione all'UE.

“Vergogna eterna per le marionette straniere”

Commentando gli eventi verificatisi a Strasburgo, il presidente Vučić, visibilmente scosso, ha dichiarato che questa risoluzione non è la prima, né tantomeno l'ultima e con il tempo sarà dimenticata, mentre la vergogna eterna dell'opposizione rimarrà per sempre.

Durante un suo discorso da New York, dove si era recato per incontrare il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, per discutere dei prossimi passi riguardo alla situazione in Kosovo, il presidente serbo, visibilmente scosso, ha accusato i membri dell'opposizione di cercare di assumere il potere in veste di burattini delle forze straniere. 

Non è la prima volta che Vučić esprime un'accusa del genere. L'ultima volta che l’ho ascoltato parlare dal vivo risale all'11 aprile 2002, dopo il suicidio dell'ex ministro della polizia serbo, Vlajko Stojiljković. L’ex ministro era accusato di crimini di guerra in Kosovo e avrebbe dovuto scontare la sua pena nel carcere di Scheveningen all’Aja, destinato ai detenuti ex jugoslavi condannati per crimini di guerra.

Ricordo nitidamente quel giorno. Aspirante giornalista, mi ero recata per realizzare un servizio di fronte al parlamento. Non dimenticherò mai l'espressione commossa del giovane Aleksandar Vučič, all'epoca segretario del Partito radicale serbo. Di fronte alla folla di persone giunte per rendere omaggio all'ex ministro, accusò l'opposizione del regime dittatoriale di Slobodan Milošević di essere dei traditori, dei mercenari stranieri e responsabili di quanto accaduto.

Quella sera, mentre cercavo di parlare con le persone riunite di fronte al Parlamento, mi sono trovata all’improvviso circondata da altre persone che mi hanno accusata di essere una traditrice e una bugiarda, e di essere pagata dai sostenitori stranieri. Una donna, poco più vecchia di mia nonna, mi disse che ero “una strega da bruciare”. In quel periodo, facevo il tirocinio presso la radio Index, uno dei media oppositori al regime di Milošević.

Quale futuro per il paese che sabota la democrazia

Prima della votazione sulla risoluzione, a Strasburgo si è svolto un panel dal titolo "Serbia: la democrazia al bivio", al quale hanno partecipato i rappresentanti della coalizione di opposizione serba.

Dopo la rivoluzione del 5 ottobre 2000, nota come la “rivoluzione dei bulldozer” che segnò la fine del regime di Slobodan Milošević, ho nutrito una forte fiducia nella libertà e nella democrazia che ci attendevano. Ricordo quei giorni prima e dopo l’evento epocale, quando circa mezzo milione di persone invase le strade della capitale Belgrado. Quel giorno abbiamo incendiato il parlamento e finalmente sconfitto un dittatore. Poco tempo dopo, la bandiera americana sventolava sull'edificio della mia Università, dove studiavo Scienze Politiche. In quel periodo, fu istituito un Dipartimento per gli Studi americani e io ero convinta che tutto ciò fosse la rappresentazione dell’arrivo della democrazia.

Srđa Popović, leader del movimento Otpor, e simbolo della lotta contro il regime, all'epoca consigliere del primo ministro Zoran Đinđić che fu successivamente ucciso, era il mio professore di Ecologia politica. Ci ha fatto lezioni sull'importanza dell'ecologia nei paesi democratici e ci ha spiegato la natura della transizione democratica. Secondo lui, nel caso della Serbia, sarebbero stati necessari anni per completare il processo verso il passaggio definitivo alla democrazia. Popović mostrava fiducia e convinzione in questo cammino, e anch'io – lo ammetto – condividevo la sua stessa prospettiva.

Mentre, il presidente del Centro per le elezioni libere e la democrazia (CESID) – e all’epoca mio professore di Sociologia politica – Zoran Stojiljković, ci aveva insegnato che le elezioni sono l’apice della democrazia. A quel tempo, quando in Serbia era stato appena introdotto il sistema parlamentare, lui ci disse che negli anni a venire avremmo avuto la possibilità di partecipare al processo elettorale democratico.

Dai momenti di speranza ai momenti più bui

Dalla cosiddetta "rivoluzione dei peluche" presso la fontana di Terazija nel 1991 a Belgrado, alle proteste contro la dittatura nel 2017 e alle marce di protesta "1 su 5 milioni" che sono durate quasi un anno, fino ai raduni più massicci "Serbia contro la violenza" nel 2023, sono trascorsi oltre 30 anni. 

Avevo soltanto 11 anni, troppo piccola per comprendere appieno quanto accaduto durante quella prima manifestazione di massa contro il regime di Slobodan Milošević, quando l’esercito jugoslavo si scontrò con il popolo sulle strade della capitale e quando il diciassettenne Branivoje Milinović venne ucciso dai colpi di pistola. Dal 9 al 14 marzo del 1991, oltre 200.000 studenti provenienti dalle altre città serbe manifestarono contro una politica sull'orlo della guerra. Il paradosso di quella protesta risiede nel fatto che, nonostante alla fine tutte le richieste dei manifestanti fossero state soddisfatte, pochi giorni dopo scoppiò il conflitto in Croazia.  

Anche io mi resi conto che la guerra era iniziata. Trascorrevo le serate sul divano con mia nonna a guardare i telegiornali. Non ero sicura di chi stesse combattendo contro chi, e ci voleva del tempo per capire perché anche a scuola avessimo cominciato a dividerci tra serbi, croati e bosniaci. Prima eravamo tutti jugoslavi.

Negli anni successivi, mentre la guerra si diffondeva in Bosnia, gli studenti serbi continuarono a protestare contro il regime. Si riversarono per le strade, affrontando le percosse della polizia, i gas lacrimogeni e i proiettili di gomma. Picchiare i manifestanti era il modo in cui il regime dell'epoca trattava chi si opponeva.

Delle ampie proteste dell'inverno del 1996 e 1997, quando oppositori e studenti scesero in strada per contestare i brogli elettorali, ricordo la bellissima immagine della festa di Capodanno che si svolse nella piazza principale di Belgrado in quell'occasione. Un ricordo memorabile che mi ha spinto a unirmi alle proteste con oltre mezzo milione di persone il 5 ottobre 2000, quando finalmente sconfiggemmo il nostro presidente. Tutti noi abbiamo creduto fermamente che i giorni migliori sarebbero arrivati. Abbiamo creduto nei valori e nelle istituzioni democratiche che stavano emergendo in un paese che pare sia in una transizione del processo democratico senza fine.

Studenti contro il regime, per un futuro migliore 

Durante tutto questo periodo, gli studenti serbi, spesso definiti come traditori della patria hanno protestato contro le guerre nell'ex Jugoslavia, contro l'embargo e le sanzioni, contro il regime di Slobodan Milošević e nell’ultimo decennio contro il governo di Aleksandar Vučić, che per ironia di quella transizione democratica, ha istituito un governo autoritario. Il governo che, secondo lui, ha garantito lo svolgimento delle elezioni più democratiche mai tenutesi in Serbia. Tuttavia, nonostante abbia dichiarato che la risoluzione del Parlamento europeo equivale a un'occupazione di un paese sovrano, il presidente serbo ha annunciato alcune settimane fa nuove elezioni locali a Belgrado, le quali si terranno il 2 giugno. 

Emilija Milenković, una studentessa della Facoltà di Scienze Politiche di Belgrado, ha dichiarato durante una manifestazione di protesta contro il presunto furto elettorale che nel 2012, all'ascesa al potere del Partito Progressista Serbo guidato da Aleksandar Vučić, lei aveva appena 10 anni. Quando frequentavo la stessa facoltà, Emilija non era ancora nata, e nessuno poteva prevedere in quale paese sarebbe cresciuta. In quel periodo, credevo fortemente che ci sarebbe stato un futuro migliore per la nostra gioventù e il nostro paese, che nessuno avrebbe potuto rubarci il futuro. 

Ed è proprio questo che ha urlato Emilija, oggi 21enne e leader di un gruppo di protesta studentesca che ha chiesto l'annullamento delle elezioni in Serbia. Dicendo di non sapere cosa significhi vivere in una società normale, con una rabbia palpabile, ha gridato che i giovani non permetteranno ai politici di sottrarre loro la terra e la vita nel loro paese. La voce e la dignità sono le uniche risorse rimaste ai giovani che lotteranno contro chiunque voglia rubare il loro futuro.

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Ripensare il modello penitenziario: cosa fare (e non fare) per contrastare la tragedia dei suicidi nelle carceri italiane

26 Marzo 2024 6 min lettura

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Ripensare il modello penitenziario: cosa fare (e non fare) per contrastare la tragedia dei suicidi nelle carceri italiane

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Il 2024 nelle carceri italiane è iniziato con la storia drammatica di Matteo Concetti, un ragazzo di ventitre anni che si è tolto la vita nei primi giorni di gennaio nell’istituto di Ancona Montacuto. La madre, a cui il ragazzo aveva manifestato le sue intenzioni, aveva chiesto alle istituzioni di intervenire perché il figlio non fosse riportato nella cella di isolamento in cui si trovava in seguito all’aggressione a un agente.

Dopo Matteo Concetti altre 25 persone si sono suicidate nei penitenziari italiani. Un'altra, un ragazzo di ventidue anni, nel Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma. Ventisette persone in meno di tre mesi. L'ultima due giorni fa.

Secondo il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, “sono dati che devono allarmare perché con questa progressione, che speriamo non sia rispettata, si arriverà a delle sequenze tragiche, probabilmente mai viste nella storia penitenziaria degli ultimi 50 anni”. 

Perché in carcere 

I dati dei suicidi in carcere, e quelli delle morti per altre cause, sono raccolti da ormai più di vent’anni da Ristretti Orizzonti, la rivista dalla Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto Penale Femminile della Giudecca, nel dossier, costantemente aggiornato, Morire di carcere

«L’idea del dossier è nata perché venivamo a conoscenza di alcuni suicidi di cui non trovavamo traccia nei dati ufficiali - spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti - Quindi abbiamo capito che dovevamo cercare di attivare tutte le fonti, come i familiari o il volontariato, cioè quella presenza che va oltre l'amministrazione».

Francesco Morelli, che coordina il lavoro di monitoraggio dall’inizio del progetto, spiega che tuttora i dati ufficiali e quelli di Ristretti Orizzonti non sempre corrispondono. Secondo l’amministrazione penitenziaria ad esempio la morte che avviene a causa di un prolungato sciopero della fame non è classificabile come un suicidio. 

Quelli di Morire di carcere, però, non sono solo dati, aggiunge Morelli, sono storie personali: «Nel sito del Ministero trovi solo i numeri e nemmeno l'età, nemmeno il sesso o la nazionalità, naturalmente non i nomi e cognomi e non le vicende». L’obiettivo del dossier è raccontare anche chi sono queste persone, qual è la loro esperienza detentiva, ricostruire le loro storie, capire che cosa è successo attraverso le notizie della stampa e grazie alle testimonianze di chi le conosceva.

«Il tema del suicidio - afferma Gonnella - riguarda italiani e stranieri, giudicabili e condannati, giovani e meno giovani, uomini e donne, detenuti al 41 bis e detenuti dentro per pochi euro rubati. Riguarda tutti e tutte e dunque riguarda la vita penitenziaria».

«Pur essendo ogni suicidio non generalizzabile, - aggiunge - perché ogni singola persona che fa un atto di quel genere lo fa in base alla sua biografia, alla sua storia, alla sua disperazione che non vanno generalizzate, è chiaro che numeri come questi portano a dire che l'allarme è un allarme di sistema, perché vuol dire che l'amministrazione, che ha un ruolo istituzionale di supervisione di quel periodo di vita della persona, non riesce a intercettare minimamente quella disperazione».

Se individuare una o più cause di un fenomeno così drammatico appare impossibile, è il sistema detentivo nel suo complesso a doversi interrogare, ma non solo, secondo quanto scrive l’ex Garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma, nell’introduzione al rapporto “Per un’analisi dei suicidi negli Istituti penitenziari”, pubblicato a gennaio 2023. 

Scrive Palma che le sole condizioni di detenzione non sono sufficienti a spiegare il fenomeno: «Troppo brevi sono state in molti casi le permanenze all’interno del carcere per supportare tale visione; troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte – spesso – è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno». 

Secondo Palma «è la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante».

Non solo la reclusione dunque, ma anche lo stigma che ne deriva. Una questione che coinvolge non solo chi di quel luogo ha diretta responsabilità ma anche la collettività esterna «che di quel simbolismo è produttore ed elemento consolidante».

Uno dei momenti più delicati è l’ingresso, i primi giorni. Secondo Morelli la ragione ha a che fare con la composizione della popolazione detenuta, fortemente mutata nel corso della storia recente. Una popolazione detenuta esito delle politiche degli ultimi decenni, composta da persone con dipendenze, o con disturbi psichici, o straniere. Persone che non avevano messo in conto l’esperienza del carcere nella loro vita.

«In quel caso l'impatto è drammatico - spiega Favero - ma per chi ha fatto una lunga carcerazione anche uscire fa paura. Ricordo un uomo che diceva: “Io in carcere ho imparato a fare il bravo detenuto, non ho imparato a vivere, a fare il cittadino”. E quindi chi esce lo fa senza sapere se riuscirà a trovare un suo posto nel mondo fuori. Nonostante sia il momento in cui si riconquista la libertà, è anche una fase delicatissima».

E poi c’è il trasferimento. Il carcere è un luogo in cui si perde la gestione del proprio tempo di vita. I momenti della giornata sono scanditi, rigidi: l’apertura delle porte la mattina, il pranzo, l’ora d’aria, le attività – quando ci sono – e poi la chiusura la sera, la cena. Tutto si svolge nella limitatezza dello spazio, degli incontri, degli scambi. E lo stravolgimento di quelle abitudini, spiega Morelli, può costituire per alcune persone un trauma molto forte.

«Perché il carcere, come tutte le istituzioni totali, rende le persone malate di abitudini - spiega - Ci si alza sempre alla stessa ora, ci si dicono addirittura più o meno le stesse parole. In carcere anche il linguaggio è limitato. La persona detenuta ha un suo tran tran che con il trasferimento viene sconvolto, deve incontrare persone nuove o dimostrare di essere un detenuto che non dà problemi per non finire in isolamento».

Ma il trasferimento per alcune persone significa anche allontanamento dagli affetti che vivono fuori, con la conseguenza che i colloqui si diradano, diminuiscono le occasioni per allontanarsi anche solo per un’ora e anche solo mentalmente da quello spazio.

Guardando i dati si nota che raramente le morti per suicidio sono inferiori a 50 per anno, in una strage silenziosa che solo di rado fa notizia. Poi ci sono stati anni particolarmente tragici, come il 2022, quando sono state 84 le persone recluse che si sono tolte la vita. Le restrizioni imposte dalla pandemia, che in un primo momento avevano generato terrore e rivolte negli istituti, con il bilancio catastrofico che ne conseguì, avevano poi permesso un aumento del numero delle telefonate a casa per le persone detenute, oltre che l’introduzione delle videochiamate. Ma nel 2022 la maggior parte degli istituti è tornata alla quotidianità pre pandemica, un colloquio alla settimana di un’ora e un numero limitato di telefonate.

Cosa fare

«Sicuramente ci sono delle cose da non fare» - prosegue Morelli - e che invece in molte occasioni sono considerate prassi. Come isolare la persona che minaccia il suicidio, che «viene portata in una cella chiamata “liscia”, ossia senza sbarre o oggetti, vale a dire in una situazione in cui diventa tecnicamente molto difficoltoso riuscire a realizzare il suicidio. Ma sappiamo che non è sufficiente. Come non lo è un’altra modalità, quella di creare sezioni ad hoc, a sorveglianza intensificata, dove gli agenti effettuano un controllo più frequente».

«L'unico modo per prevenire il suicidio è cambiare il modello penitenziario - sostiene Gonnella - aprirsi all'esterno, consentire le telefonate quotidiane ai detenuti comuni, riempire le carceri di vita vera».

E infatti proprio quando le attività diminuiscono, quando le carceri si svuotano di impegni per le persone detenute, il rischio del suicidio è più elevato, come dicono le notizie dei mesi di agosto e dicembre.

«Lo sappiamo da trent’anni - prosegue Gonnella - e per impedirlo si dovrebbero costruire i servizi in base alle esigenze dell’utenza, così come si dovrebbe pensare a una preparazione al rilascio, fornire una spiegazione su quello che accade fuori, permettere la costruzione di un ponte con l’esterno. Perché le persone possono temere la solitudine, lo stigma, lo sguardo di riprovazione».

Se tra le cause di un fenomeno così tragico c’è il carcere come luogo a sé, isolato e isolante, la risposta non può che essere un dialogo con il mondo fuori. Un dialogo che deve partire da una presa di coscienza della società esterna rispetto a sé stessa e alla visione della detenzione.

Immagine in anteprima: Édouard Hue, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

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Scioglimento Comune di Bari: tra fatti e diritto, i dubbi sul metodo del ministro Piantedosi

25 Marzo 2024 20 min lettura

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Scioglimento Comune di Bari: tra fatti e diritto, i dubbi sul metodo del ministro Piantedosi

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I fatti recenti li conosciamo tutti. Il 19 marzo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha preannunciato al sindaco di Bari, Antonio Decaro, la nomina di una “Commissione di accesso” per valutare se ci sono i presupposti per sciogliere il Comune di Bari per infiltrazioni mafiose. La commissione dovrà fare una serie di accertamenti e riferire gli esiti al ministro che deciderà di conseguenza se procedere o meno con la proposta di scioglimento e la conseguente nomina di un commissario.

La decisione di Piantedosi è arrivata dopo una serie di arresti, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia locale, a fine febbraio nei confronti di 130 persone per associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione di armi da sparo, commercio di droga e turbativa d’asta. L’inchiesta “Codice Interno”, che ha poi portato alle ordinanze di custodia cautelare, ipotizza l’ingerenza elettorale politico-mafiosa nelle elezioni comunali del 26 maggio 2019 e l’infiltrazione dei clan cittadini nell’Amtab, la municipalizzata del trasporto urbano, sottoposta ad amministrazione giudiziaria per un anno, e la cui delega è in mano al sindaco di Bari, Decaro. Tra gli arrestati c’erano anche l’avvocato Giacomo Olivieri, ex consigliere regionale, e la moglie Maria Carmen Lorusso, consigliera comunale di una lista civica inizialmente eletta dall’opposizione e poi passata alla maggioranza.

È stato proprio il sindaco Decaro a dare notizia di quanto comunicatogli da Piantedosi parlando in un post sulla sua pagina Facebook di “atto di guerra nei confronti della città di Bari” e facendosi corpo sacrificale tutt’uno con la cittadinanza con l’effetto di spostare su un piano squisitamente politico una questione che è innanzitutto giuridica (seppure con implicazioni evidentemente politiche, come vedremo). Si tratta, ha scritto Decaro, di un atto gravissimo, che mira a sabotare il corso regolare della vita democratica della città di Bari, proprio (guarda caso) alla vigilia delle elezioni”. Il prossimo 8 e 9 giugno Bari è infatti chiamata a eleggere il suo nuovo sindaco. “A questa aggressione io mi opporrò con tutto me stesso, come mi sono opposto ai mafiosi di questa città. Fosse l’ultimo atto della mia esperienza politica. Non starò zitto. Non assisterò in silenzio a questa operazione di inversione della verità e di distruzione della reputazione di una amministrazione sana e di una intera città”, ha concluso Decaro.

Nei giorni successivi è arrivata la solidarietà di altri sindaci e di rappresentanti della società civile e sabato scorso è stata organizzata una partecipata manifestazione “Giù le mani da Bari. Io sto con Decaro”. A loro volta, parlamentari e ministri della maggioranza hanno accusato il sindaco di Bari di aver voluto strumentalizzare politicamente l’iniziativa di Piantedosi. Alcuni di loro hanno parlato di atto dovuto da parte del ministro. Ma le cose sono un po’ più complicate. Come spiega la giurista Vitalba Azzollini su Domani, “non c'è alcun automatismo normativo che impone di far scattare la nomina in caso di arresto di due consiglieri o infiltrazione in una municipalizzata”. In altre parole, l’atto non è dovuto, “ma è il risultato di valutazioni discrezionali. E ogni atto discrezionale di un'autorità va adeguatamente motivato”. 

E dunque: c’erano i presupposti giuridici per la nomina della “Commissione di accesso”? Sì, in base al Testo Unico sullo scioglimento dei consigli comunali. Ma destano più d’una perplessità alcune questioni di metodo: perché il ministro Piantedosi ha avviato la procedura mentre le indagini sono ancora in una fase per certi versi embrionale e andando addirittura nella direzione opposta a quanto affermato alcune settimane prima dal procuratore di Bari, Roberto Rossi, che ci aveva tenuto a precisare che l’estraneità dell’amministrazione comunale e il suo impegno nella lotta alla mafia? Su quali motivazioni si è basata la decisione del prefetto, quindi del ministro dell'Interno di cui il prefetto è emanazione? C’era un ragionevole sospetto che influenze mafiose inficiassero l'attività dell'amministrazione? Inoltre, secondo l'articolo 143 del Testo Unico degli Enti Locali (ultime tre righe del terzo comma), ai fini degli accertamenti, quindi anche quelli per arrivare alla nomina della commissione, il prefetto poteva sentire il Procuratore della Repubblica: perché non l'ha fatto? Infine, nei giorni precedenti alla nomina della commissione, il sindaco Decaro aveva inviato al prefetto un corposo dossier sulle azioni antimafia da parte del Comune di Bari: perché il ministero degli Interni non ha esaminato i documenti inviati prima di avviare la procedura? 

Le tappe del caso

Tutto parte lo scorso 26 febbraio quando le indagini della Direzione distrettuale antimafia portano all’iscrizione nel registro degli indagati 130 persone sospettate di essere legate ai clan. 

Le persone coinvolte sono ritenute responsabili, a vario titolo di associazione di tipo mafioso, estorsioni, porto e detenzioni di armi da sparo, illecita commercializzazione di sostanze stupefacenti, turbata libertà degli incanti, frode in competizioni sportive, tutti reati aggravati dal metodo mafioso, nonché del reato di cui all’articolo 416 ter del codice penale (scambio elettorale politico-mafioso). In base alle indagini della Dda sarebbe stata documentata una presunta ingerenza elettorale politico-mafiosa, in particolare di consorterie criminali di stampo mafioso come i Parisi-Palermiti e gli Strisciuglio, nelle Elezioni Comunali di Bari del 26 maggio 2019.

In particolare finiscono agli arresti domiciliari Maria Carmen Lorusso, una consigliera comunale eletta nel centrodestra (e poi passato in una lista della maggioranza di centrosinistra), e di suo marito (in carcere a Lanciano), l’avvocato Giacomo Olivieri, ex consigliere regionale e anche ex-presidente della Multiservizi (su nomina dell’allora sindaco Michele Emiliano), la municipalizzata che si occupa della manutenzione del verde (per i presunti sprechi nella gestione della società in-house Olivieri fu rinviato a giudizio). Tra gli arrestati anche Tommaso “Tommy” Parisi, cantante neomelodico e figlio del boss Savino (detto Savinuccio), del quartiere Japigia, già condannato in primo grado a otto anni per associazione mafiosa.

Olivieri sarebbe stato dietro gli accordi con i clan mafiosi Parisi, Montani e Strisciuglio per far eleggere nelle elezioni comunali del maggio 2019 la moglie grazie alla compravendita di voti. Un anno e mezzo prima, nell’ottobre del 2022, era stata arrestata un’altra consigliera comunale di Bari, Francesca Ferri, sempre eletta nel centrodestra, e attualmente a processo insieme al compagno, Filippo Dentamaro, e all’ex consigliere regionale, imprenditore e presidente del Foggia calcio, Nicola Canonico, sempre per presunto voto di scambio nella tornata elettorale del maggio 2019. I tre sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale per le elezioni di Bari e di scambio elettorale politico-mafioso quelle di Valenzano.

Secondo l’accusa, Olivieri avrebbe versato denaro a esponenti dei clan mafiosi, promesso posti di lavoro e buoni benzina. Per favorire l’elezione di Maria Carmen Lorusso si sarebbe mosso anche il padre, l’oncologo Vito Lorusso, già indagato per concussione e peculato e nuovamente arrestato in questa inchiesta. Vito Lorusso avrebbe stretto un accordo con Massimo Parisi, fratello del boss ‘Savinuccio’: in cambio dei voti alla figlia avrebbe curato un nipote del capoclan, poi deceduto. Inoltre, in tandem con Maria Carmen Lorusso correva il candidato Michele Nacci (risultato il primo dei non eletti della lista di centrodestra ‘Di Rella sindaco’), che avrebbe legami familiari con pregiudicati ed esponenti di spicco del clan di Andrea Montani. In cambio di denaro e di un posto di lavoro, anche il clan Strisciuglio si sarebbe mobilitato per Olivieri. 

Le indagini riguardano inoltre le possibili infiltrazioni del clan Parisi del quartiere Japigia nell’Amtab, l’azienda municipalizzata dei trasporti. Tra i dipendenti dell’azienda, da oltre 20 anni, c’erano anche Massimo Parisi (fratello del boss “Savinuccio”) e Tommaso Lovreglio, nipote e braccio destro del boss. Parisi, secondo i pm, avrebbe avuto un ruolo importante nella gestione di alcune beghe sindacali tra i dipendenti dell’Amtab. Lovreglio, invece, avrebbe pilotato alcune assunzioni per piazzare nell’azienda (a tempo determinato) alcune persone a lui vicine. L’Amtab spa e la Maldarizzi automotive spa, società sulle quali i clan avrebbero dunque esercitato la propria forza criminale ottenendo posti di lavoro, sono state sottoposte ad amministrazione controllata. L’indagine parla anche delle presunte combine ordinate dai clan sulle partite di calcio Corato-Fortis Altamura del 30 aprile 2017 e del 7 ottobre 2018.

Contestualmente sono stati eseguiti sequestri patrimoniali d’urgenza, disposti dalla Dda, “di beni e patrimoni riconducibili alle attività delittuose in contestazione o costituenti patrimoni di ingiustificata provenienza, sproporzionati rispetto alle reali capacità reddituali, nei confronti di 16 persone indagate, alcune delle quali già destinatarie delle su indicate misure cautelari personali, per un ammontare approssimativo” di 20 milioni di euro, e “comprendenti diversi immobili, tra appartamenti e capannoni industriali, quote di società commerciali, industriali e di servizi, conti correnti bancari e postali, autovetture e beni di lusso”.

Quello che emerge è “un quadro estremamente allarmante dell'operatività del clan Parisi e della sua vocazione universalista, tipica delle associazioni mafiose, di occupare ogni spazio della vita economica e sociale che consenta di ricavare vantaggi e utilità”, commenta a caldo il procuratore nazionale Antimafia, Giovanni Melillo. “I fenomeni mafiosi in Puglia presentano delle situazioni di complessità che impongono indagini estremamente difficili, per le quali sono necessari strumenti sempre più sofisticati”.

Durante la conferenza stampa sull’indagine, il procuratore di Bari, Roberto Rossi, esclude il coinvolgimento dell’amministrazione Decaro. Rossi parla di inquinamento del voto parziale e circoscritto e di insussistenza del coinvolgimento del sindaco: «Quando si parla di condizionamento elettorale si rischia di pensare che tutto sia inquinato. C’è stata una parziale e circoscritta attività di inquinamento del voto all’interno delle comunali su cui l’amministrazione ha saputo rispondere. Abbiamo accertato l’insussistenza del coinvolgimento del sindaco Decaro”. 

Il giorno successivo, il 27 febbraio, un gruppo di parlamentari pugliesi – il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, il sottosegretario alla Sanità Marcello Gemmato, il senatore Filippo Melchiorre e altri tre parlamentari, tutti legati ai partiti dell’attuale maggioranza di governo di destra e tutti eletti in Puglia – chiede un incontro con Piantedosi. Il capogruppo al Senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri, parla per primo di ipotesi di scioglimento del Comune. In un’intervista, infatti, afferma: “Su Bari la notizia è che i nostri coordinatori regionali si sono recati al ministero dell'Interno per ipotizzare lo scioglimento del Comune. Centotrenta arresti, che sfiorano anche l'amministrazione locale. Un fatto molto preoccupante. Non abbiamo preso decisioni per Bari, vogliamo capire bene che succede: probabilmente c'è un Comune da sciogliere”. 

Intanto, la Commissione parlamentare antimafia, guidata da Chiara Colosimo (Fratelli d’Italia), apre a sua volta un fascicolo e chiede tutti gli atti riguardanti l’inchiesta “Codice Interno”. “Gli oltre 130 indagati, gli oltre 110 tradotti in carcere, l'amministrazione giudiziaria disposta per l'Amtab e quello che emerge in queste ore riguardo il Comune di Bari ha e richiede una necessità di un approfondimento. Un approfondimento dei rapporti tra mafia e politica, cosa che faremo senza tentennamenti nel pieno rispetto del lavoro degli inquirenti», spiega la presidente Colosimo.

Il 28 febbraio viene fuori la notizia che due vigilesse della Polizia locale di Bari si erano rivolte a un fedelissimo del clan Parisi dopo essere state insultate da un automobilista, a testimonianza del “comportamento di assoluta 'riverenza'” assunto dalle due vigilesse, “che avrebbero dovuto reagire segnalando l'accaduto all'autorità giudiziaria”. Sempre dagli atti dell’indagine emerge che nel 2018 una funzionaria della prefettura si era rivolta a un indagato ritenuto vicino al clan Parisi per riavere l'auto che le era stata rubata. La vettura alla fine era stata recuperata e la donna aveva versato 700 euro per ottenerla. Le due vigilesse, e altri 4 dipendenti dell’Amtab, l’azienda municipalizzata che gestisce il trasporto pubblico barese, sarebbero stati sospesi dal servizio. Nel frattempo, dopo l’ingresso dell’amministratore giudiziario, nominato dal Tribunale di Bari, arrivano le dimissioni del direttore generale di Amtab, Domenico Mariani, e della consigliera di amministrazione, Lorena Costantini. Le dimissioni vengono congelate dall’amministratore giudiziario, Luca D’Amore, in attesa della riunione del Consiglio di Amministrazione.

Col passare dei giorni, la questione diventa sempre più terreno di scontro politico. Gasparri torna sul caso e continua a non escludere l’ipotesi dello scioglimento del Comune mentre il deputato della Lega, Davide Bellomo, parla di responsabilità politiche da parte del sindaco di Bari Decaro. 

Il 17 marzo inizia a circolare la notizia dell’istituzione di una commissione di indagine guidata dalla prefettura e dell’avvio della procedura per valutare lo scioglimento del Comune per mafia. 

Il resto è cronaca di questi giorni. Il 19 marzo in un post su Facebook, il sindaco di Bari, Antonio Decaro, annuncia l’intenzione del ministro degli Interni di attivare la commissione. “Oggi è stato firmato un atto di guerra nei confronti della città di Bari. Il ministro Piantedosi mi ha comunicato telefonicamente che è stata nominata la commissione di accesso finalizzata a verificare una ipotesi di scioglimento del Comune”, afferma Decaro. Secondo il sindaco, il carattere dell’iniziativa di Piantedosi è eminentemente politico. Decaro parla di “meccanismo a orologeria” e di un atto che “segue la richiesta di un gruppo di parlamentari di centrodestra pugliese, tra i quali due viceministri del Governo e si riferisce all’indagine per voto di scambio in cui sono stati arrestati tra gli altri l’avv. Giacomo Olivieri e la moglie, consigliera comunale eletta proprio nelle file di centrodestra”. 

Decaro sottolinea anche che Piantedosi ha avviato la procedura di valutazione di scioglimento del Comune senza aver preso in considerazione le parole del Procuratore distrettuale antimafia Rossi e un dossier di 23 fascicoli inviato su richiesta del Prefetto. “È giusto che si sappia che negli scorsi giorni mi è stato richiesto di raccogliere tutte le attività svolte dal Comune di Bari contro la criminalità organizzata. Bene, è stato consegnato al Prefetto alle 12.00 di ieri, un voluminoso dossier, composto da 23 fascicoli e migliaia di pagine, contenente le attività svolte dal Comune contro la criminalità organizzata in questi anni. È evidente, vista la rapidità con cui è giunta la notizia della nomina della Commissione, che nessuno si è curato di leggere quelle carte. Ha avuto dunque più valore la pressione politica del centrodestra barese che fatti, denunce, documenti, testimonianze. Si tratta di una vicenda vergognosa e gravissima, che va contro la città, contro i cittadini perbene, contro il sindaco”, ha aggiunto il sindaco facendo riferimento all’incontro voluto dai parlamentari baresi della maggioranza con il ministro Piantedosi all’indomani degli arresti di fine febbraio.

“Gli stessi soggetti che nel 2019 hanno portato in Consiglio Comunale due consiglieri arrestati per voto di scambio, ora spingono per lo scioglimento di un grande capoluogo di regione, evento mai successo in Italia, nemmeno ai tempi dell’inchiesta su Mafia Capitale”, conclude Decaro. “È un atto gravissimo, che mira a sabotare il corso regolare della vita democratica della città di Bari, proprio (guarda caso) alla vigilia delle elezioni. Elezioni che il centrodestra a Bari perde da vent’anni consecutivamente. Per le quali stenta a trovare un candidato e che stavolta vuole vincere truccando la partita”.

Il giorno successivo il sindaco di Bari ha espresso gli stessi concetti in un’infervorata conferenza stampa di tre quarti d’ora. Decaro ha ricordato il suo impegno di sindaco antimafia, da nove anni sotto scorta: la lotta contro le fornacelle abusive per la festa di San Nicola, le denunce che hanno fatto arrestare esponenti dei clan, i concerti vietati al figlio del boss “Savinuccio”, il cantante neo melodico Tommy Parisi. 

La reazione di Decaro avrebbe sorpreso il ministro Piantedosi, riporta un articolo del Corriere della Sera del 20 marzo. Il sindaco di Bari avrebbe avuto due contatti con il ministro dell’Interno nell’ultima settimana nel tentativo di evitare proprio la nomina della Commissione, come gli era stato ipotizzato da Piantedosi. Decaro era stato ricevuto al Viminale dopo che i parlamentari pugliesi del centrodestra avevano sollecitato lo scioglimento del suo Comune e aveva chiesto a Piantedosi di non prendere alcuna iniziativa. Nei giorni successivi, però, riporta ancora il Corriere, “il ministro ha dato incarico agli uffici di studiare le carte processuali che hanno portato agli arresti di fine febbraio. E quando ha scoperto, tra l’altro, che nel 2018 una funzionaria comunale aveva versato soldi a un indagato vicino al clan per farsi restituire un’auto, ha ritenuto opportuno istituire la commissione”.

Due sere dopo Piantedosi avrebbe chiamato Decaro per comunicargli l’avvio della procedura e il sindaco avrebbe chiesto di potersi occupare in prima persona della diffusione della notizia. Ma le modalità e i toni hanno sorpreso il ministro che, a quel punto, ci ha tenuto a sottolineare di capire l’amarezza del sindaco di Bari, ma di ritenerla esagerata. Piantedosi ha ricordato che si tratta di una iniziativa che “ha solo fini ispettivi ed è proprio per questo motivo finalizzata a verificare se ci siano gli estremi di un’ipotesi di scioglimento del Comune” e che “si è resa necessaria a seguito di un'indagine giudiziaria molto importante, che ha portato a 130 arresti tra cui anche un consigliere comunale e soprattutto al commissariamento, ai sensi della normativa antimafia, di un'azienda municipalizzata totalmente controllata dal Comune di Bari”. Poi Piantedosi ha specificato che non si tratta di una iniziativa contro il Comune di Bari e ha ricordato che da quando si è insediato il governo ha sciolto 15 Comuni in prevalenza di centrodestra e che ci sono stati accessi ispettivi in altri comuni di grandi dimensioni come Reggio Calabria, Roma e Foggia. Pertanto dietro la sua decisione non ci sarebbe una finalità politica, come affermato da Decaro.

Il 23 marzo c’è stata la manifestazione a difesa di Bari e del sindaco Decaro. Nel suo intervento, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, facendo riferimento agli anni in cui era sindaco, ha raccontato di quando l’allora assessore ai Trasporti, Antonio Decaro, fu minacciato da esponenti del clan Capriati. Ma nel ricordare l’episodio ha affermato di aver portato Decaro “a casa della sorella di Antonio Capriati, che era il boss di quel quartiere, e andai a dirle che questo ingegnere è assessore mio e deve lavorare perché c'è il pericolo che qui i bambini possano essere investiti dalle macchine. Quindi, se ha bisogno di bere, se ha bisogno di assistenza, te lo affido”. Le affermazioni di Emiliano hanno contribuito a inasprire i toni dello scontro politico. Decaro ha smentito dicendo che “Emiliano non ricorda bene. È certamente vero che lui mi diede tutto il suo sostegno, davanti alle proteste di buona parte del quartiere, quando iniziammo a chiudere Bari Vecchia alle auto, ma non sono mai andato in nessuna casa di nessuna sorella”. Il Giornale e La Verità hanno pubblicato uno scatto che ritrae Decaro proprio con la sorella di Capriati, ma la foto non risalirebbe all’epoca dei fatti raccontati da Emiliano.

Il vicepresidente della Commissione antimafia, Mauro D’Attis, ha annunciato: “Dopo le parole di Emiliano chiederò approfondimento della Commissione Antimafia”. Mentre i parlamentari pugliesi di Forza Italia Dario Damiani, Rita Dalla Chiesa, Andrea Caroppo, Giandiego Gatta e Vito De Palma si sono detti perplessi della difesa del sindaco di Bari: “Oggi Decaro cerca di smentire, ma le immagini sono eloquenti: il sindaco di Bari mimava in diretta con sincerità l’incontro che oggi smentisce. Il video parla da sé e non racconta una pagina lusinghiera. Emiliano, Decaro e la sorella del boss: la verità prenderà forma, e noi siamo in prima linea per difendere le comunità anche oltre gli slogan, anche oltre il politicamente corretto. Se ne occupi l’Antimafia”.

La reazione di questi giorni del sindaco di Bari ha ovviamente suscitato la reazione di rappresentanti politici di entrambi gli schieramenti. I parlamentari di centrodestra hanno voluto sottolineare la rilevanza giuridica dell’iniziativa del ministro Piantedosi resasi necessaria per appurare i livelli di infiltrazione mafiosa in alcuni rami dell’amministrazione. “Se mettiamo insieme tutti i procedimenti per scioglimento dei consigli comunali che ci sono stati finora, questi contengono un decimo dei fatti gravi che sostengono l'inchiesta di Bari. Siamo di fronte ad arresti, intercettazioni che provano collegamenti con la malavita, coinvolgimento di società. Il quadro è serio. Per molto meno, si sono avviate verifiche che hanno portato allo scioglimento degli organi interessati”, ha commentato Raffaele Fitto, ministro pugliese per gli Affari europei, sostiene l'iniziativa del governo, di competenza del collega Piantedosi, e rincara la dose. 

Se strumentalizzazione politica c’è stata, l’ha fatta Decaro, è in altre parole il pensiero dei parlamentari di centrodestra. “Non ho mai detto che il comune di Bari andrebbe sciolto. Decaro è stato bravo a personalizzare quello che sta accadendo. Ci sono state centinaia di procedure come quella di Bari per altri comuni, per i quali si è agito in quanto strutture amministrative, in quanto enti locali e territoriali. Si è arrivato a scioglimento di Comuni nei quali i sindaci non c'entravano nulla. Addirittura alcuni sindaci sono stati dichiarati incandidabili, hanno fatto ricorso, sono stati riammessi alla candidatura e in un caso un sindaco è anche stato rieletto”, ha commentato ancora D'Attis.

Solidarietà a Decaro è arrivata da parlamentari e sindaci di centrosinistra e da rappresentanti della società civile. Il sindaco di Milano Beppe Sala ha voluto evidenziare gli impatti politici dell’ispezione a ridosso delle elezioni: “Proviamo a essere pratici. La commissione che valuterà il possibile scioglimento del Consiglio Comunale avrà 90 giorni di tempo per esprimersi (prorogabili di altri 90). E poi si dibatterà. Ad andar bene (si fa per dire!) la Commissione si esprimerà nella finestra temporale dedicata a un eventuale ballottaggio”. 

Sulla politicizzazione della vicenda è intervenuto anche Emiliano, che ha chiesto prudenza al Governo: “Siamo a tre mesi dalle elezioni amministrative. Una materia così delicata come la lotta alla mafia deve vedere unita la Repubblica e le sue istituzioni in tutte le sue parti e non può diventare oggetto di polemica elettorale o di scontro. Invece sta accadendo l’opposto. E quindi confido nel senso dello Stato di tutti, perché il nostro avversario è la mafia”.

Il Sindaco Cosenza, Franz Caruso, ha infine invitato a rivedere “l’impianto normativo che fa da genesi allo strumento dell'avvio delle procedure di accertamento e scioglimento antimafia. Non è più tollerabile che indistinti indizi probatori preliminari, confusi e generici, finiscano senza contraddittorio in una richiesta di commissione d'accesso e da qui, sempre senza contraddittorio e conoscenza stratificata di atti completi e acclarati, in un comitato per l'ordine e la sicurezza che quasi sempre chiede e decreta di fatto lo scioglimento dei Comuni per mafia. È accaduto e accade sempre più spesso in Calabria, con destini giudicanti che poi smentiscono quasi sempre lo stesso scioglimento, e stavolta accade e mette a rischio una grande città del Mezzogiorno come Bari. Un faro per tutto il Sud”.

Il piano politico e il piano giuridico del caso

Sono proprio le parole del sindaco di Cosenza a porre alcune questioni importanti di metodo sollevate anche da alcuni giuristi e giornalisti che stanno analizzando la vicenda. Troppo spesso – ha sottolineato il sindaco Franz Caruso – si ricorre alla commissione di accesso a partire da “indistinti indizi probatori preliminari, confusi e generici” che portano allo scioglimento di Comuni per mafia, smentiti poi dalle sentenze della magistratura che però arrivano sempre dopo. In questo senso, sì, il ricorso alla commissione d’accesso ha implicazioni politiche.

È questo anche il caso di Bari? Alcuni elementi sollevano delle perplessità. Nell’articolo sopra citato, su Domani, la giurista Vitalba Azzollini ne indica alcuni

L’articolo 143 del Testo unico degli enti locali (TUEL) prevede che la commissione sia nominata dal prefetto al fine di verificare la sussistenza di elementi che possono condurre allo scioglimento del Comune. Questi elementi devono essere “concreti, univoci e rilevanti” su “collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori”, “ovvero su forme di condizionamento degli stessi”, che alterano la formazione della volontà degli organi collegiali e compromettono “il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni”, “il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati” e altro. 

Nel comunicato del ministero degli Interni che accompagna l’annuncio della procedura di valutazione per stabilire se ci sono gli elementi per lo scioglimento del Comune di Bari per mafia, il Viminale precisa che “il provvedimento di accesso ispettivo” si è reso necessario a seguito di un primo monitoraggio “circa i fatti emersi a seguito dell'indagine giudiziaria che ha portato a più di 100 arresti nel capoluogo pugliese e alla nomina, da parte del Tribunale, ai sensi dell'art. 34 del codice antimafia, di un amministratore giudiziario per l'azienda Mobilità e Trasporti Bari spa, interamente partecipata dallo stesso Comune» (Amtab)”. Inoltre, l'accesso ispettivo “non è pregiudizialmente finalizzato allo scioglimento del Comune bensì ad un'approfondita verifica dell'attività amministrativa”.

Dunque, spiega Azzollini, “la nomina della commissione non scatta in automatico al verificarsi di certi eventi, ma discende dalla necessità di un approfondimento”. Ed è quindi discrezionale. E ogni atto discrezionale di un'autorità va adeguatamente motivato.

Da questo discendono altre due questioni, una di merito e una di metodo. Nel merito: gli elementi individuati dal Ministero degli Interni sono “concreti, univoci e rilevanti” come espresso nell’articolo 143 del TUEL alla luce anche delle affermazioni del Procuratore di Bari, Roberto Rossi, che aveva parlato di un fenomeno circoscritto e dell’insussistenza del coinvolgimento del sindaco Decaro? Dalle parole del Procuratore l'amministrazione pare lambita in modo parziale e circoscritto da tali fatti. Ma su questo saranno le indagini a chiarire tutto. Nel metodo: sono stati accertati che ci fossero tutti gli elementi per poter avviare la procedura? E sotto questo aspetto, perché il ministro Piantedosi non ha atteso di valutare il dossier di 23 fascicoli inviato dal sindaco Decaro al prefetto? “L’esame avrebbe forse potuto fornire elementi utili a valutare la necessità o meno della nomina stessa. Ma la fretta di Piantedosi ha evidentemente prevalso”, spiega ancora Azzollini.

In sintesi, ci sono almeno tre aspetti che destano perplessità: 1) Di norma è il prefetto che chiede al ministero la nomina della commissione di accesso. E invece è accaduto il contrario, il ministro ha attivato il prefetto, e per di più dopo la riunione nel suo ufficio con i parlamentari del centrodestra pugliesi. I parlamentari avrebbero potuto rivolgersi direttamente al prefetto o addirittura al Procuratore della Repubblica, se avevano prove fondate; 2) Le commissioni di accesso entrano in campo mesi dopo che le inchieste della magistratura hanno aperto la strada con indagini sull’amministrazione comunale e il sindaco. Qui invece avviene tutto in pochi giorni; 3) E comunque “normalmente” la Commissione è nominata dopo che il prefetto abbia raccolto il parere della Procura della Repubblica (mentre qui il procuratore aveva proprio escluso compromissioni e anzi ha enfatizzato il ruolo dell’amministrazione contro le mafie locali), come previsto dal terzo comma dell'art. 143 del TUEL.

“La sola idea di avviare una procedura di scioglimento per mafia di Bari è un azzardo, tanto più se la motivazione è l’arresto di un paio di politici locali e l’infiltrazione di una municipalizzata”, aggiunge Alessandro Barbano su Il Riformista. “L’invio a Bari della commissione d’accesso non è un ‘atto dovuto’, come sostiene Piantedosi, ma un atto politico, incauto e sgrammaticato”, prosegue Barbano che ricorda come neanche per Mafia Capitale (con la Corte di Cassazione che ribaltò la sentenza del verdetto di appello e stabilì che l’organizzazione a delinquere capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non era stata un’associazione di stampo mafioso ma un’associazione a delinquere ‘semplice’) si arrivò allo scioglimento del Comune di Roma.

Infine, c’è la speculazione politica. In un articolo su Domani, Nello Trocchia ricorda due casi in particolare: Fondi e Reggio Calabria. A Fondi, nonostante la valutazione dell’allora commissario, il prefetto Bruno Frattasi, e alcuni elementi certi e univoci convergessero verso l’infiltrazione mafiosa (“A Fondi c’era di tutto: auto che saltavano in aria, appalti in mano ai clan, favori, concessioni, le mani e i piedi della mala nel mercato ortofrutticolo. Una vera occupazione”, scrive Trocchia) il Comune non è stato sciolto dal governo all’epoca guidato da Berlusconi; a Reggio Calabria è andata diversamente. Nel 2012 l’allora ministra dell’Interno, Annamaria Cancellieri, ha ottenuto l’ok dal Consiglio dei ministri, presieduto da Mario Monti, allo scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose. Ma all’epoca, nonostante dalla relazione prefettizia fossero emersi elementi particolarmente rilevanti (“Appalti pubblici affidati a ditte in odor di mafia; infiltrazioni delle cosche nelle società miste; assessori, consiglieri comunali e funzionari legati da amicizia o vincoli di parentela a boss e pregiudicati; inefficienze, se non gravi irregolarità, nel funzionamento della stragrande maggioranza degli uffici”, ricorda ancora Trocchia), i parlamentari Sisto e Gasparri, gli stessi che oggi invitano Decaro a non strumentalizzare politicamente l’avvio della commissione d’accesso parlavano di errori, strumentalizzazioni e complotti. “Sciogliere un consiglio comunale per contiguità con la criminalità organizzata è scelta che deve essere lontana anni luce dal giudizio di probabilità o da ambiti di opinabilità”, affermava all’epoca Sisto. Mentre il senatore Maurizio Gasparri parlava di “speculazione politica”, salvo poi essere smentito persino dalle sentenze definitive. Oggi le posizioni si sono ribaltate.

In conclusione, bisognerebbe essere cauti nel ricorrere a un istituto che, come detto, parte da una commissione di accesso spesso in base a indizi probatori confusi e generici e può portare allo scioglimento di Comuni per mafia, talora smentiti da sentenze della magistratura, che arrivano quando il danno politico e reputazionale è già fatto. Si tratta di un profilo che non sempre è stato sottolineato in questi giorni, caratterizzati da una certa animosità da ogni parte, e che invece meriterebbe una adeguata valutazione.

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L’attentato di Mosca: la rivendicazione dell’Isis e le responsabilità dell’intelligence russa e del Cremlino

23 Marzo 2024 7 min lettura

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L’attentato di Mosca: la rivendicazione dell’Isis e le responsabilità dell’intelligence russa e del Cremlino

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Il 22 marzo è un venerdì sera come gli altri a Mosca: nonostante la guerra, vi sono vari spettacoli, concerti, la gente va al cinema o esce per godersi le prime giornate di una primavera sempre incerta a marzo. Il Crocus City Hall è un’enorme struttura alla periferia nord-ovest della capitale russa, al confine con Krasnogorsk: aperta nel 2008, nella sala con 6200 posti a sedere si tengono concerti e eventi di ogni tipo, dalla reunion di Al Bano e Romina Power nel 2013 alle esibizioni di cantanti russi di ogni genere; alcuni degli spazi vengono usati per fiere, esposizioni, incontri. Un luogo come tanti alle periferie delle grandi città europee, oltre a un grande centro commerciale e alla sede del governo regionale vicino vi è la stazione della linea blu della metropolitana di Mosca, Miakinino, e il raccordo anulare che circonda Mosca, il MKAD, ha uno svincolo lì.

La serata ha in calendario il concerto del gruppo Piknik, band rock fondata nell’allora Leningrado nel 1978, con un proprio seguito affezionato da allora; i biglietti per l’occasione sono andati esauriti, la sala è piena. Poco prima dell’inizio dello show, mentre gli spettatori prendevano posto e i ritardatari si affannavano per entrare, degli uomini armati, vestiti in mimetica, irrompono all’ingresso del Crocus. L’obiettivo è uccidere, senza alcuna improvvisazione: i video girati da chi si è trovato in quei minuti terribili vedono delle vere e proprie esecuzioni sommarie, con spari ravvicinati alla nuca e al volto, la fuga verso vie d’uscita tutte da cercare, rompendo i vetri o nascondendosi nei bagni, e le immagini dell’irruzione in sala hanno ricordato l’orrore del Bataclan a Parigi. Il lancio di candelotti fumogeni e, anche se al momento ancora non è chiaro, di ordigni ha scatenato un incendio nell’edificio, con colonne di fumo e fiamme che si sono alzate, visibili a chilometri di distanza. Il bilancio provvisorio è di 133 morti e centinaia di feriti, dopo l’intervento delle squadre di soccorso e lo spegnimento del rogo, per il quale sono stati impiegati elicotteri antincendio; decine di persone sono morte per asfissia, dopo aver cercato riparo dai terroristi.

La velocità dell’attacco – sarebbe durato 18 minuti – e i danni che ha causato sono stati impressionanti, portando alla parziale distruzione del complesso e a un numero enorme di vittime ancora difficile da quantificare. Le modalità dell’azione, che ha visto il tentativo della security del Crocus di fronteggiare i terroristi soccombendo immediatamente, sembrerebbero testimoniare un elevato livello di preparazione, simile ad altri attacchi del terrorismo islamista nello scorso decennio; l’arresto di undici persone, di cui i quattro esecutori materiali, fermati a circa centocinquanta chilometri dal confine ucraino, pare far pensare a una rete presente in Russia. La rivendicazione dell’ISIS, arrivata da un canale ritenuto vicino al movimento, è stata successivamente messa in dubbio, anche se fonti d’intelligence statunitense hanno confermato al New York Times e alla CBS l’autenticità della pista islamista.

I quattro esecutori sarebbero cittadini tagiki, reclutati online, oltre che attraverso il movente religioso, con la promessa del pagamento di una somma tra i cinquecentomila e il milione di rubli (pari a circa cinquemila-diecimila euro), di cui ne sarebbero stati già consegnati duecentocinquantamila. La possibilità di una presenza di fedeli radicalizzatisi provenienti dall’Asia Centrale e dal Caucaso nelle fila dello Stato Islamico non rappresenta una novità, con comandanti come Abu Omar al-Shishani, noto anche come “Omar il ceceno”, tra i leader militari coinvolti nella battaglia per Mosul; una rete di reclutamento nella capitale russa, indirizzata all’arruolamento dei migranti provenienti dalle repubbliche centrasiatiche e sfruttando i problemi di xenofobia e diseguaglianza sociale a cui sono soggetti era stata già segnalata da varie inchieste giornalistiche e da retate delle forze di sicurezza sin dal 2014, ancor prima dell’intervento russo in Siria. Evgeniya Berkovich e Svetlana Petriychuk, in galera da ormai un anno, avevano ideato e allestito uno spettacolo sul fenomeno delle donne russe andate in sposa ai miliziani dell’Isis, Finist yasnyi sokol ("Finist, il falco coraggioso!) che ha ricevuto premi importanti, come la Maschera d'oro, e per il suo valore etico e artistico ha avuto varie rappresentazioni teatrali: amara ironia, sono accusate di incitazione al terrorismo.

Mentre il bilancio delle vittime con il passar delle ore si aggrava, la discussione su come sia stato possibile un attacco simile in una città altamente sorvegliata come Mosca inizia a emergere. Nella capitale vi sono centinaia di telecamere di riconoscimento facciale, utilizzate durante la pandemia di coronavirus e successivamente per identificare i manifestanti contro la guerra in Ucraina, ma si trovano in metropolitana e nei luoghi più frequentati; secondo le ricostruzioni fornite dal Comitato investigativo della Federazione Russa, gli esecutori si sarebbero mossi in automobile, una Renault Symbol bianca, su cui poi son stati fermati e arrestati, quindi il gruppo si sarebbe spostato direttamente in zona senza passare dal centro. La falla dell’intelligence russa, a cui il riconoscimento e la cattura dei sospettati dovrebbe porre rimedio, spiega anche come nel corso degli ultimi anni le attività di sorveglianza e investigazione nei confronti delle organizzazioni terroristiche di matrice islamista siano state relegate in secondo piano a favore della repressione degli attivisti politici ostili al regime putiniano e spostate ancor di più sull’Ucraina e su possibili legami tra atti di sabotaggio e servizi di Kyiv. Nelle prime ore successive all’attentato, diverse voci, tra cui quella dell’ex presidente russo Dmitry Medvedev, avevano indicato il mandante nei vertici ucraini, una interpretazione adottata anche da alcuni canali televisivi e media governativi; la cattura dei sospettati, avvenuta a poco più di un centinaio di chilometri dal confine ucraino nel territorio della regione di Bryansk, ha fatto parlare di una via di fuga preparata attraverso il passaggio della frontiera.

La pista islamista, che con il passar del tempo trova sempre più conferme con la pubblicazione di Amak, canale vicino all’Isis, delle fotografie degli attentatori, trova una sua logica nella decennale guerra russo-cecena, segnata da crimini di guerra e da atti terroristici d’enorme gravità, dagli attacchi suicidi in metropolitana agli ostaggi presi al teatro della Dubrovka durante lo spettacolo Nord-Ost nel 2002 alla scuola n.1 di Beslan due anni dopo; Mosca era stata colpita ancora nel 2011 con l’attentato all’aeroporto di Domodedovo. L’intervento russo in Siria a sostegno del regime del dittatore Bashar al-Assad e il legame tra la Russia e l’Iran, altro nemico storico dello Stato Islamico, hanno solo accentuato l’ostilità, ed è presumibile che la guerra in Ucraina abbia permesso di pianificare un attentato nella capitale russa in un momento in cui il livello d’attenzione verso il terrorismo islamista si era abbassato. Vi erano stati avvertimenti occidentali a inizio marzo su possibili attacchi, smentiti seccamente da Putin come una provocazione volta a seminare il panico tra la popolazione russa nell’incontro con i vertici dell’FSB martedì 19 marzo.

Le reazioni della comunità internazionale sono state univoche, di condanna dell’attacco e di vicinanza al popolo russo, come il primo messaggio proveniente da Washington, a cui si sono aggiunti quelli delle cancellerie europee e di altri paesi in rapporti meno tesi con Mosca. Anche la NATO ha espresso la propria solidarietà, e da Oltreoceano son stati inviati materiali alle autorità russe su quanto avvenuto. Prese di posizione importanti in un contesto di crisi senza precedenti delle relazioni con l’Occidente, e volte anche ad escludere possibili accuse di complicità con gli attentatori. Le dichiarazioni di Vladimir Putin, apparse in un messaggio alla nazione della durata di quasi sei minuti alle 13:30 italiane, hanno accennato a una possibile via di fuga approntata per gli attentatori al confine ucraino, ma in realtà il presidente si è concentrato in una ripresa dei toni a cui aveva abituato il paese e il mondo durante gli anni della seconda guerra cecena, in cui la durezza delle parole doveva servire a rassicurare i cittadini e ad annunciare la caccia ai responsabili della lunga stagione di terrorismo. L’invito ai governi che hanno espresso vicinanza alla Russia a collaborare è stato seguito dall’affermazione di dover stringersi come un sol uomo nella lotta al terrorismo, in unità con i combattenti impegnati nella guerra in Ucraina e l’annuncio dell’adozione di ulteriori misure di sicurezza assieme alla proclamazione di una giornata di lutto nazionale per domenica 24 marzo. Se la rielezione di Putin, avvenuta nemmeno una settimana fa con percentuali abilmente pianificate da tempo, si era presentata come un passaggio verso l’intensificarsi della militarizzazione della società, da riunire attorno alla nuova élite formata dai volontari e dai militari inviati al fronte ucraino, ora il Cremlino si trova a dover affrontare un altro teatro di crisi, annunciato da un altro sanguinoso massacro di civili le cui conseguenze, interne ed esterne, al momento appaiono ancora imprevedibili; la stabilità e la sicurezza il cui mantra vien ripetuto ancora oggi dalle autorità russe appaiono ormai del tutto svanite.

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Rocco Siffredi non è una vittima, e di sicuro non è vittima di una brutta intervista

22 Marzo 2024 5 min lettura

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Rocco Siffredi non è una vittima, e di sicuro non è vittima di una brutta intervista

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Se vivi abbastanza a lungo ti capiteranno parecchie cose incredibili, e io da oggi – come del resto un po’ tutti noi – posso dire di aver vissuto abbastanza a lungo da avere visto Michele Serra iniziare un articolo con la frase “Non ho consigli da dare a Rocco Siffredi”, e sì, lo so come finisce la frase, “se non nel settore che meglio conosco”, ma del resto quando Serra ha consegnato la sua Amaca anche a lui mancavano delle informazioni cruciali sul caso che andava ad affrontare, e che forse gli avrebbero risparmiato di scriverla. Il caso, riassumendo per sommi capi è questo: la giornalista Alisa Toaff ha denunciato Rocco Siffredi di averla bersagliata di messaggi osceni a valle di un’intervista. Toaff dice di aver denunciato Siffredi per molestie, e il 22 marzo – stesso giorno in cui su Repubblica è comparsa la rubrica di Serra - ha reso disponibili gli audio dei messaggi, che si presume siano già stati acquisiti dalle autorità. Se la denuncia avrà seguito e ci sarà un processo resta ancora da vedere, ma il fatto, per come è stato raccontato in prima persona dalla donna coinvolta, è documentato.

Ma qual era, insomma, il consiglio che Serra avrebbe voluto dare a Rocco Siffredi? Cito testualmente: “Domande scritte, risposte scritte: è la sola maniera per farsi intervistare senza incorrere in fraintendimenti ed equivoci. Non solamente se si è un divo del porno e a intervistarti è una donna. Parlo proprio in generale.” Il riferimento sembra essere alle circostanze da cui è scaturito l’incidente, e che dagli audio pubblicati da Toaff sembra essere legato a un non gradimento di Siffredi dell’intervista. Da cui prima gli insulti, poi i riferimenti sessuali espliciti. Nel suo articolo, Serra sembra suggerire che il tutto sarebbe stato evitabile se l’intervista fosse stata condotta in modalità no contact.

Un’intervista travisata, trascritta male e riportata peggio può capitare a chiunque: si segnala, se è online e sta circolando molto si chiede una rettifica, sperando che la richiesta non cada nel vuoto. A mia memoria, non ricordo di essermi mai sentita autorizzata a investire una persona che mi aveva intervistata con insulti sulla sua professionalità e allusioni a sfondo sessuale, né ho intenzione di farlo: penso di poter parlare per la maggior parte delle persone, quando dico che qui l’autotutela non c’entra nulla. Anche l’intervista peggiore della storia non merita la reazione che Toaff ha ricevuto, e che ha deciso di denunciare alle autorità. Ci sono modi per tutelarsi che non passano per suggerire a chi ti ha intervistato di incrementare la sua attività sessuale per diventare “normale”.

A leggerla e rileggerla, L’Amaca di Serra del 22 marzo suona sempre più surreale. Dal suggerimento di proteggersi concedendo solo interviste scritte si passa direttamente a postulare che tutti i problemi (vale a dire le dichiarazioni che si suppone fossero state travisate, e non i messaggi vocali che partono con apprezzamenti sulla fisicità della giornalista e virano poi su insulti e allusioni sessuali umilianti) abbiano la loro origine nella disponibilità a concedere interviste a persone che non si conoscono o la cui professionalità non è acclarata. L’insinuazione sulla presunta scarsa professionalità di Toaff – di cui Serra dice di non conoscere il nome – è evidente. “Può avere ragione o può avere torto” è un pronunciamento piuttosto spericolato, a meno che non si pensi che una che va a denunciare una molestia sessuale non sia in automatico una bugiarda, piuttosto che una persona che ha quello che manca a molte donne vittime di molestia, vale a dire i testimoni e le pezze d’appoggio. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Toaff dice, infatti, di essersi fatta accompagnare da un’amica.

Non è difficile intravedere fra le righe di Michele Serra una certa simpatia per Rocco Siffredi, cosa tutto sommato comprensibile (anche se non condivisa da tutti, o perlomeno non da chi trova certi aneddoti personali narrati dall’attore piuttosto discutibili sul piano del consenso). La simpatia, però, non può essere la discriminante nel decidere d’ufficio che quando uno viene accusato in maniera credibile di molestie, il problema è che ha accettato di farsi intervistare dalla persona che avrebbe molestato. E qui il punto non è credere o meno all’accusa, cosa che in assenza di ulteriori elementi è una questione personale: è, piuttosto, decidere di usare il proprio spazio pubblico per dare all’intera faccenda un taglio che getta dubbi sul racconto di una donna e sposa senza questioni la versione di un uomo, nell’assoluta improbabilità che l’episodio si potesse verificare a parti invertite con le stesse identiche modalità.

Le molestie, gli apprezzamenti non richiesti, il rischio di trovarsi da sole con un predatore sessuale sono problemi che le donne devono affrontare nel quotidiano, non un incidente di percorso. Le giornaliste vengono molestate in redazione e fuori in percentuali scandalose (come ha stimato una ricerca del 2019 sul fenomeno), e anche le interviste possono essere una trappola. Incontrare un uomo celebre in un luogo non pubblico, casa sua o una stanza d’albergo, rappresenta un pericolo ben più concreto per una donna che per l’uomo in questione: se la cosa peggiore che ti può capitare quando incontri una donna da solo è di essere travisato, forse quello che ti manca è la percezione del privilegio di cui godi.

Quello che è successo ad Alisa Toaff, e che le è già costato parecchio in termini di sofferenza personale (dopo la denuncia, il nome di Toaff sarebbe stato rivelato in un post su Instagram da un altro collega: la rivelazione le avrebbe causato una raffica di insulti a mezzo social) è ora nelle mani della giustizia, che deciderà nel merito, pure nei limiti di una legislazione lacunosa e non del tutto in grado di tutelare le vittime. Al resto di noi rimane, come al solito, la sensazione di essere sempre considerate delle mezze mitomani, se non proprio delle mitomani intere: creature bugiarde di cui non è il caso di fidarsi, e che possono mettere in seria crisi la reputazione di un brav’uomo. Chissà perché è così difficile denunciare una molestia. Chissà.

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Fuori da qui Post

A Gaza c’è un rischio imminente di carestia

22 Marzo 2024 6 min lettura

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A Gaza c’è un rischio imminente di carestia

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C’è un rischio carestia “imminente” a Gaza, dove 1,1 milioni di persone, pari alla metà degli abitanti della regione, soffre di livelli di insicurezza alimentare “catastrofici”. La carestia può verificarsi da un momento all’altro da qui a maggio, nella parte settentrionale della Striscia, mentre nella zona meridionale esiste un pericolo analogo qualora la situazione dovesse peggiorare, in particolare in caso di offensiva via terra israeliana a Rafah.

Questo è il giudizio di sintesi del rapporto presentato lunedì scorso dall’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un gruppo che riunisce varie organizzazioni, tra cui il Programma Alimentare Mondiale e l’OMS. Il livello di emergenza alimentare riportato dall’IPC riguarda il maggior numero di persone mai registrato nella categoria più alta - “fase 5” della scala IPC, ovvero “carestia/catastrofe”.

Come riferisce il Guardian, si tratta di una carestia “provocata dall’uomo” e per cui da più parti si sta accusando Israele di crimini di guerra. Oltre a ciò, a fine gennaio la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), nel caso avanzato dal Sudafrica con l’accusa di violazione della Convenzione sul genicidio, aveva emesso un’ordinanza in cui aveva chiesto a Israele di prendere le misure necessarie per tutelare la situazione umanitaria dei civili palestinesi. A inizio mese il Sudafrica ha chiesto alla CIG di richiedere nuove misure di emergenza, mentre Israele ha definito la richiesta come “moralmente ripugnante”, invitando la Corte a respingerla.

 

Il caso Sudafrica vs. Israele: come leggere l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia

Varie organizzazioni e alti funzionari si sono espressi questi giorni circa l’emergenza alimentare a Gaza. “La comunità internazionale dovrebbe vergognarsi per non essere riuscita a impedire questa situazione”, ha scritto su X/Twitter Martin Griffiths, coordinatore dei soccorsi delle Nazioni Unite. Commentando in un thread il rapporto dell’IPC, il presidente di Refugee International Jeremy Konyndyk ha dichiarato: “In 25 anni di attività umanitaria questa potrebbe essere, parola per parola, l'analisi più tragica che ho mai visto”.

Quello dell’IPC è solo l’ultimo allarme lanciato sul rischio carestia e l’uso della fame come strumento bellico. La stessa organizzazione, in un analogo rapporto presentato a dicembre, aveva rilevato i livelli record raggiunti dall’emergenza alimentare. Sempre a dicembre, un rapporto di Human Rights Watch aveva accusato Isaele di usare la fame come strumento di guerra per colpire la popolazione civile palestinese. Come ricordato nel rapporto,

Il diritto internazionale umanitario (o il diritto bellico), proibisce di affamare i civili come strumento di guerra. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale stabilisce che affamare intenzionalmente i civili "privandoli di oggetti indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l'ostacolare intenzionalmente le forniture di soccorso" è un crimine di guerra. L'intento criminale non richiede l'ammissione dell'aggressore, ma può anche essere dedotto dal complesso delle circostanze della campagna militare. [...] In quanto potenza occupante a Gaza, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, Israele ha il dovere di garantire alla popolazione civile l'approvvigionamento di cibo e medicinali.

Israele sta usando la fame come arma di guerra a Gaza

Analoghe accuse sono state sollevate lo scorso febbraio, quando tre alti funzionari delle Nazioni Unite hanno avvertito il Consiglio di Sicurezza del rischio carestia, “sollecitando un’azione immediata per evitare il disastro umanitario in un territorio in cui molti membri del Consiglio hanno denunciato l’uso della fame come arma di guerra”.

In quell’occasione, il vicedirettore generale della FAO Maurizio Martina aveva indicato come, a partire dal 9 ottobre, il rafforzamento del blocco imposto da Israele sulla Striscia di Gaza, con l’interruzione o la limitazione delle forniture di cibo, elettricità, carburante e altri bene, abbia finito per colpire in “l’intera catena di approvigionamento alimentare”.

Tornando al nuovo rapporto dell’IPC, il Famine Review Committee (FRC) ha sottolineato che la carestia può essere scongiurata, purché le parti in conflitto e la comunità internazionale adottino “misure urgenti e proattive”. Tra queste, l’FRC raccomanda:

il ripristino dell'accesso umanitario e dei servizi sanitari, nutrizionali, igienici e dell’accesso all’acqua; la protezione dei civili; la fornitura di cibo sicuro, nutriente e sufficiente a tutte le popolazioni che ne hanno bisogno; la fornitura di un numero sufficiente di aiuti, che vanno dal cibo ai farmaci, ai prodotti nutrizionali specialistici e al carburante in tutta la Striscia di Gaza; la piena ripresa del flusso di beni commerciali.

Anche Oxfam, confederazione di organizzazioni non profit impegnate nel ridurre la povertà nel mondo, ha commentato il rapporto dell’IPC, attraverso le parole di Sally Abi Khalil, responsabile dell’organizzazione per il Medio Oriente e il Nord Africa:

La situazione umanitaria a Gaza è effettivamente peggiorata da quando la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha ordinato specificamente a Israele di consentire maggiori aiuti.  La deliberata produzione di sofferenza da parte di Israele è sistemica e di tale portata e intensità da creare un rischio reale di genocidio a Gaza.

La stessa Oxfam, in un rapporto pubblicato il 15 marzo, ha evidenziato “sette restrizioni fondamentali imposte da Israele all’accesso umanitario”. Secondo Oxfam, queste restrizioni sono:

  • un assedio militare totale, equiparabile a una punizione collettiva;
  • una procedura ingiustificatamente inefficiente dei protocolli di ispezione;
  • il rifiuto arbitrario di "articoli a duplice uso" (ossia civile e militare), attraverso il ricorso opaco alla definizione di “duplice uso”;
  • un assato senza precedenti per intensità, brutalità e portata;
  • gli attacchi a operatori umanitari, alle strutture umanitarie e ai convogli di aiuti;
  • la mancanza di aree sicure per la popolazione civile e il trasferimento forzato di oltre il 70 per cento della popolazione;
  • sistematico rifiuti di missioni umanitarie nella zona nord di Gaza e restrizioni di accesso agli operatori umanitari.

Solo nelle prime due settimane di marzo, secondo i dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), il 46% delle missioni umanitarie nel nordi di Gaza (11 su un totale di 24) sono state agevolate dalle autorità israeliane, il 21% (5) sono state negate e il 33% (8) sono state rinviate. Nello stesso periodo, “il 76% delle missioni di aiuto nelle aree a sud del Wadi Ghazza che richiedono un coordinamento (78 su 103) sono state agevolate dalle autorità israeliane, 15 sono state negate (14%) e dieci sono state rinviate o ritirate (10%)”.

Lunedì scorso, Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (UNRWA), ha dichiarato che le autorità israeliane gli hanno negato il visto di ingresso a Gaza, dove avrebbe dovuto coordinare gli aiuti umanitari.

Cosa sappiamo finora delle accuse di Israele all’UNRWA

 

Su Internazionale, Francesca Gnetti ha riepilogato la situazione degli aiuti umanitari, evidenziando i limiti degli interventi attuali:

Israele sostiene di non mettere limiti agli aiuti umanitari. Ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano il blocco della distribuzione via terra imposto da Tel Aviv negli ultimi mesi. Prima del 7 ottobre 2023 circa cinquecento camion di aiuti entravano tutti i giorni nella Striscia di Gaza. Dopo gli attacchi di Hamas, Israele ha bloccato l’ingresso di generi alimentari, carburante, rifornimenti medici e altri beni. A fine ottobre è stato autorizzato l’ingresso di alcuni aiuti attraverso dei camion: a poco a poco sono diventati un centinaio al giorno fino alla fine del 2023, il doppio durante il cessate il fuoco di novembre. Dopo un calo significativo a febbraio, a marzo una media di 166 camion al giorno è entrata nella Striscia di Gaza.

Gli aiuti via mare, invece, sono ostacolati dal fatto che Israele ha distrutto tutti i porti della Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti stanno annunciato un piano per costruirne uno temporaneo destinato alla consegna degli aiuti, mentre nel frattempo, insieme ad altri paesi, stanno operando per la consegna di aiuti aerei. Tuttavia, fa presente Gnetti, questo metodo è tutt’altro che sicuro, tanto che il 13 marzo 25 ONG umanitarie hanno cofirmato un appello affinché diano la priorità alla richiesta di cessate il fuoco e agli aiuti umanitari via terra. Tra queste, figurano Oxfam, Amnesty International, Action Aid e Médecins du Monde.

“Gli Stati”, si legge nell’appello “non possono nascondersi dietro i lanci aerei e gli sforzi per aprire un corridoio marittimo per creare l'illusione di fare abbastanza per sostenere i bisogni di Gaza: la loro responsabilità primaria è quella di impedire il verificarsi di crimini atroci e di esercitare un'efficace pressione politica per porre fine ai bombardamenti incessanti e alle restrizioni che impediscono la consegna sicura degli aiuti umanitari”.

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Acqua, un bene comune non tutelato

22 Marzo 2024 8 min lettura

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Acqua, un bene comune non tutelato

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Sono 52 milioni le persone in Europa che vivono in aree considerate sotto stress idrico per almeno un mese all'anno: di queste il 28%, circa 15 milioni, si trova in Italia. L'andamento è in peggioramento, e questi numeri sono destinati a crescere nei prossimi anni. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per il Mediterraneo, entro il 2050 la richiesta di acqua raddoppierà o addirittura triplicherà. Il 22 marzo si celebra la giornata mondiale dell’acqua, istituita già nel 1992: ogni anno si parla dell’importanza di tutelare questa fondamentale risorsa, ma poi i dati che ci troviamo davanti agli occhi sono sempre più preoccupanti.

“Continuiamo ad affrontare la questione dell’acqua con un approccio emergenziale: si parla poco dell’importanza di tutelare questo bene comune, se non quando scarseggia”, afferma Stefania Di Vito dell’ufficio scientifico di Legambiente, esperta di usi della risorsa idrica. “Il discorso pubblico è troppo centrato sulla logica dell’accumulo: si parla molto dei desalinizzatori e degli invasi, per accumulare più acqua, mentre quello che servirebbe è un cambio del nostro modello di utilizzo. Non abbiamo bisogno di più acqua da usare, abbiamo bisogno di usarne meno, e meglio”.

Il Mediterraneo è un hotspot di rilevanza globale del cambiamento climatico: i dati mostrano un rapido cambiamento di indicatori chiave come le temperature, la quantità di piogge, il livello del mare e la disponibilità delle risorse idriche superficiali e sotterranee. Nel 2022 il livello di disponibilità di acqua in Italia è stato il più basso degli ultimi cent'anni, con un 30% di piogge in meno: la Società Meteorologica Italiana l’ha definito un anno “tra i più estremi mai registrati in termini di caldo e deficit di precipitazioni”. Secondo i dati dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente, sono aumentati del 367% i casi di danni dovuti alla siccità, passati dai 6 del 2021 ai 28 del 2022.

In un periodo storico in cui i cambiamenti climatici si stanno facendo sempre più evidenti, mettendo a rischio la quantità e la qualità d’acqua a disposizione, è necessaria un’accelerazione nel cambiare il modo di gestire questa preziosa risorsa. Eppure lo spreco di acqua potabile dovuto alle perdite degli acquedotti continua, tanto che ogni anno si perdono più di 3 miliardi di metri cubi d’acqua.

Una dashboard per analizzare lo stato delle acque in Italia

Per monitorare a che punto siamo oggi nel nostro paese, OBCT/Centro per la cooperazione internazionale ha realizzato la dashboard Lungo le vie dell’acqua, che mette a disposizione dati aperti provenienti da molteplici fonti: per rendere i numeri più facilmente comprensibili e consultabili sono state realizzate mappe interattive, che partono da alcuni indicatori cruciali per analizzare il cambiamento in atto.

Attraverso le rilevazioni raccolte da Ispra, per ognuna delle province italiane è possibile studiare le variazioni di diversi parametri, calcolando la differenza fra la media del periodo 1951-1980 e quella del periodo 1993-2022. Uno dei parametri più emblematici è la disponibilità idrica, ovvero la differenza fra l’afflusso totale di acqua al suolo e l’effettivo livello di evaporazione e traspirazione: negli ultimi trent’anni, la disponibilità idrica in Italia si è ridotta del 20%. Le province con i dati più preoccupanti si trovano in Sardegna: la situazione peggiore è stata registrata a Sassari, con un -33%, seguita da Nuoro (-32%), Sud Sardegna (-30%) e Oristano (-28%).

Il meccanismo che porta al calo della disponibilità idrica è semplice: piove meno, le temperature sono più alte, e l’evaporazione e la traspirazione dell’acqua di conseguenza crescono. I dati confermano questo trend: le precipitazioni medie annue sono in calo, e in alcune province toccano dati allarmanti. Nella provincia di Pistoia, la differenza tra le precipitazioni medie annue del periodo 1951-1980 e quelle del periodo 1993-2022 è di 166 mm di pioggia che cade in meno ogni anno, seguita dalla provincia di Varese (-154 mm), Cosenza (-143 mm), Frosinone (-142 mm) e Novara (-139 mm).

Parallelamente le temperature crescono, e lo fanno anche in questo caso in modo non uniforme sul territorio nazionale. La variazione maggiore è stata registrata al nord Italia: l’aumento più preoccupante si è registrato nella provincia di Aosta, dove in quarant’anni si è arrivati a un +1,9° C. Poi troviamo le province di Bolzano, Sondrio e Torino, con un +1,7° C, e la provincia Verbano-Cusio-Ossola con un +1,6%. Il caldo favorisce l’evaporazione e la traspirazione delle acque, e infatti a livello geografico si riscontra una coerenza nelle rilevazioni: le province in cui l’evapotraspirazione è stata maggiore sono di nuovo Aosta (+91 mm di acqua evaporata), Verbano-Cusio-Ossola (+82 mm), Bolzano (+80 mm), Sondrio (+77 mm) e Trento (+72mm).

Il risultato è un aumento rilevante degli eventi siccitosi. Ma la siccità è un problema che si verifica a macchia di leopardo e che colpisce zone diverse a seconda dei periodi: lo si vede analizzando i dati distribuiti dallo European Drought Observatory del Joint Research Center della Commissione Europea. Nel corso del 2023 si ha un’evoluzione molto rapida degli eventi siccitosi, che cambia mese per mese: la “zona rossa” si colloca a sud e a nord-ovest a gennaio, si allarga poi a tutto il nord Italia in primavera, fino a coinvolgere praticamente tutto il territorio nazionale in autunno.

Poi ci sono i dati pubblicati dall’Osservatorio Siccità del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che mostrano che in Italia il 2023 è stato il secondo anno più caldo dal 1800, subito dopo il 2022, l’anno peggiore di sempre. La situazione più critica è sulle isole: in Sardegna, a inizio 2024 gli invasi risultavano pieni solo per circa il 50%, tanto che il Consorzio di Bonifica della Sardegna Centrale ha vietato l’uso dell’acqua per l’irrigazione. In Sicilia la siccità e le alte temperature hanno costretto diversi comuni al razionamento dell’acqua, tanto che la scorsa settimana la regione ha approvato lo stato di emergenza fino al prossimo 31 dicembre in sei province – Agrigento, Caltanissetta, Enna, Messina, Palermo e Trapani. A parte qualche rara eccezione, nell’isola non piove da mesi e le conseguenze della mancanza d’acqua sono ormai evidenti: i laghi artificiali sono vuoti, molti fiumi sono in secca e gli agricoltori non riescono a irrigare i campi.

Le politiche pubbliche e l’opinione dei cittadini

La dashboard non si limita ad analizzare gli aspetti ambientali, ma considera anche il rapporto tra l'acqua pubblica, le infrastrutture idriche e le politiche delle amministrazioni locali. In Italia uno dei problemi maggiori è infatti quello dello spreco di acqua dovuto a un’infrastruttura idrica obsoleta e agli scarsi interventi di manutenzione: quando si rompe una tubatura importante si creano pozzanghere nelle strade o temporanei allagamenti, ma nella gran parte dei casi si tratta di piccole perdite che vengono riassorbite dal terreno e che non vengono individuate. Grazie ai dati raccolti da Istat è possibile valutare a quanto ammonta la dispersione idrica nelle diverse province italiane, e i dati non sono confortanti: in 27 province su 107, più della metà dell’acqua viene persa. In questo caso il dato peggiore è registrato nella provincia di Latina, dove si spreca ben il 74% del totale dell’acqua che passa nella rete idrica, seguita da Belluno (71%), Frosinone (69%), l’Aquila (68%) e Chieti (64%). Ma anche le province più “virtuose” presentano dati comunque critici: il risultato migliore è quello del territorio di Milano, dove “solo” il 18% dell’acqua della rete pubblica va dispeso, poi vengono le province di Aosta, Ravenna e Ascolti Piceno, dove si perde il 24% dell’acqua, ovvero quasi un quarto del totale.

Oltre al problema della rete idrica colabrodo, c’è la questione del mancato trattamento delle acque reflue. In molti comuni gli impianti sono vecchi, non manutenuti, e in alcuni casi non ci sono proprio. Tanto che in Italia più di una persona su 60 risiede in un Comune privo di fognature. “Sono quasi 300 i comuni senza un servizio di depurazione delle acque reflue urbane”, spiega Stefania Di Vito. “Addirittura, 40 non hanno neanche un servizio pubblico di fognature. Il problema tocca milioni di abitanti e ha ripercussioni sulla salute pubblica e sull’ambiente”. Per aver disatteso la direttiva europea sul trattamento delle acque reflue urbane, la Commissione ha avviato diverse procedure di infrazione contro l’Italia. “Per questa inadempienza, sono partite le prime richieste di sanzioni finanziarie”, continua Di Vito. “Questo significa che perderemo soldi pubblici, soldi che potrebbero essere investiti nell’adeguamento degli impianti”.

La dashboard affronta anche la questione del complesso rapporto tra i cittadini e l’acqua pubblica. Utilizzando i dati raccolti attraverso un sondaggio di Istat del 2022, si scoprono le opinioni delle persone su temi come la presenza o meno di disservizi idrici o la qualità dell’acqua pubblica. Ancora oggi, quasi un italiano su tre (29%) non si fida di bere l’acqua del rubinetto. La percentuale varia molto da regione a regione e i problemi maggiori si riscontrano al sud e nelle isole: in Sicilia si arriva al 62%, in Calabria al 51%, in Sardegna al 49%. In altre regioni, soprattutto al nord, le percentuali sono molto più basse: in Trentino-Alto Adige chi non si fida di bere l’acqua del rubinetto è poco più del 2%, mentre in Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta la percentuale è del 12%. Le stesse disuguaglianze territoriali si trovano tra chi lamenta irregolarità nell’erogazione dell’acqua: la media nazionale è del 10%, ma in regioni come la Calabria, la Sicilia e l’Abruzzo si arriva rispettivamente al 41%, 33% e 22%.

Infine, c’è l’analisi di quanto i cittadini siano soddisfatti della qualità dell’acqua a cui hanno accesso e del servizio di distribuzione. In Italia, il 14% dei cittadini si dice “per niente” o “poco” soddisfatto del servizio idrico pubblico, una percentuale relativamente bassa che però sale al 41% in Calabria, al 32% in Sicilia e al 29% in Abruzzo. Di nuovo, soddisfazione massima si riscontra a Bolzano (2%) e Trento (4%). Rispetto alla qualità dell’acqua, il 23% degli italiani sono “per niente” o “poco” soddisfatti, ma la percentuale è molto più alta nelle regioni insulari e del sud (Calabria 43%, Sicilia 40%, Sardegna 33%). Un’Italia a macchia di leopardo, quindi, dove il diritto all’accesso a un’acqua di qualità non è garantito per tutti allo stesso modo.

Verso un approccio sistemico della gestione dell’acqua

Il progetto di cui fa parte la dashboard, “Lungo le vie dell’acqua: ambiente, cultura, qualità di vita per educare alla cittadinanza globale”, vive anche al di fuori delle statistiche e della rete. Per creare coscienza diffusa sui territori sulla necessità di tutelare l’acqua come bene comune, sono state attivate tre comunità educanti a Rovereto, Cuneo e Mantova, comuni che si impegnano per una gestione sostenibile dell’acqua in prospettiva g-locale e inclusiva. In particolare, sono state realizzate formazioni per gli amministratori pubblici, gli insegnanti, i giornalisti e gli operatori del terzo settore, è stata lanciata una campagna di sensibilizzazione e sono state organizzate due edizioni della Settimana civica, che vede per protagoniste le scuole in una serie di eventi che ruotano attorno ai temi della gestione responsabile dell’acqua.

“Per una gestione sostenibile di una risorsa vitale come l’acqua, è necessario adottare un approccio sistemico e integrato”, spiega Stefania Di Vito di Legambiente. “Per ridurre la nostra impronta idrica, bisogna innanzitutto cambiare il nostro modello di utilizzo dell’acqua, abbassando in primis la richiesta. Usiamo ancora l’acqua potabile quando non sarebbe necessario: pensiamo ad esempio agli sciacquoni nei bagni, o alle irrigazioni. La qualità dell’acqua invece dev’essere adeguata all’uso: ecco perché bisognerebbe lavorare ad esempio sul recupero acque meteoriche in città. E poi c’è tutto il tema dell’ammodernamento della rete idrica, per evitare gli sprechi e le perdite”.

“Dovremmo puntare sull’efficientamento del ciclo idrico integrato, non solo per usi civili, ma anche per usi agricoli e industriali: la chiave è investire sul riciclo e riuso dell’acqua, in un’ottica di circolarità”, conclude Di Vito. “Ora che il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC, ndr) è stato approvato in via definitiva, dobbiamo metterci al lavoro: tutte le attività umane vanno ripensate in un’ottica di ottimizzazione, per la tutela di una risorsa vitale come l’acqua”.

Immagine in anteprima via London School of Economics

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Dal caso Ferragni al Ddl “Beneficenza”: serviva una nuova legge?

21 Marzo 2024 7 min lettura

Dal caso Ferragni al Ddl “Beneficenza”: serviva una nuova legge?

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La regolazione non dovrebbe seguire la scia degli impatti emozionali che episodi di attualità suscitano nell’opinione pubblica. Ma a volte è proprio così che si legifera in Italia. Il disegno di legge “Beneficenza” – volto a disciplinare le ipotesi di iniziative benefiche connesse alla vendita di prodotti – pare esserne l’ultimo esempio. Il testo trae origine dal noto “caso pandoro” che ha coinvolto l’azienda dolciaria Balocco e l’imprenditrice e influencer Chiara Ferragni. Ma c’era proprio bisogno di queste nuove regole?

I fatti: la multa dell'Antitrust a Chiara Ferragni e Balocco

Nel dicembre 2023, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) – che ha competenza in tema di tutela del consumatore contro pratiche commerciali scorrette – ha sanzionato due aziende facenti capo a Chiara Ferragni (Fenice e The Blonde Salad TBS Crew) e l’azienda dolciaria Balocco. Nel 2022, Ferragni aveva partecipato alla campagna promozionale di una linea di pandori Balocco (il “Pandoro Pink Christmas”), presentata come iniziativa di beneficenza per l’ospedale Regina Margherita di Torino. L’ammontare della donazione all’ospedale era stato determinato in precedenza e già versato da Balocco, quindi non era collegato al numero di prodotti venduti. Ma il contenuto della campagna pubblicitaria, secondo l’Autorità, induceva a credere che la vendita di ciascun pandoro contribuisse a tale donazione.

Nel comunicato stampa relativo al provvedimento si legge che il prezzo del pandoro griffato – il cui costo era di circa tre volte superiore a quello del pandoro normale – ha “contribuito a indurre in errore i consumatori rafforzando la loro percezione di poter contribuire alla donazione acquistando il ‘Pandoro Pink Christmas’”. Ciò “ha limitato considerevolmente la libertà di scelta dei consumatori facendo leva sulla loro sensibilità verso iniziative benefiche, in particolare quelle in aiuto di bambini affetti da gravi malattie”.

Il quadro delle regole vigenti a tutela dei consumatori

La normativa di riferimento è innanzitutto il Codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005, da ultimo modificato dalla l. n. 214/2023), che si occupa di pratiche commerciali scorrette. Per “pratica commerciale” si intende qualsiasi azione, omissione, condotta, dichiarazione o comunicazione commerciale, compresa la pubblicità diffusa con ogni mezzo e il marketing, relativa alla promozione, vendita o fornitura di beni o servizi ai consumatori. La pratica commerciale è scorretta quando è in contrasto con il principio della diligenza professionale, è falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta.

Il Codice del consumo considera specificamente le pratiche commerciali ingannevoli, vale a dire quelle idonee a indurre in errore il consumatore medio, distorcendone il processo decisionale. L’induzione in errore può riguardare il prezzo, la disponibilità sul mercato del prodotto, le sue caratteristiche, i rischi connessi al suo impiego.

Alle norme del codice del consumo si aggiunge il Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale elaborato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Si tratta di regole di soft law, vincolanti soltanto per i soggetti che hanno aderito al sistema autodisciplinare, considerate come best practices da osservare nel settore della pubblicità.

Oltre a questo complesso di regole vanno considerate le recenti linee guida dell’AGCOM relativamente agli influencer “professionali”, vale a dire quelli con un numero di follower pari ad almeno 1 milione, tra le diverse piattaforme e social media su cui operano, e che raggiungono determinati livelli di diffusione dei propri contenuti tra il pubblico. Le linee guida rendono direttamente applicabili a questi influencer una serie di disposizioni del Testo unico dei servizi di media audiovisivi (TUSMA), equiparandoli di fatto agli editori.


Il disegno di legge “Beneficenza”

La nuova normativa pone una serie di obblighi di trasparenza per le iniziative benefiche connesse alla vendita di prodotti, sancendo il corrispondente diritto dei consumatori di ricevere un’adeguata informazione. L’obiettivo del ddl è quello di fare in modo che le scelte di acquisto connesse a operazioni di beneficenza siano quanto più consapevoli.

La trasparenza sarà realizzata riportando sulle confezioni dei prodotti – anche con una targhetta cartacea o adesiva - l’indicazione dei beneficiari, tra quelli indicati dalla legge; delle finalità dell’iniziativa di beneficenza; della quota percentuale del prezzo di vendita o l’importo destinati ai beneficiari, per ogni unità venduta. Tali informazioni dovranno essere fornite anche nelle comunicazioni commerciali e nella pubblicità del prodotto, e l’obbligo graverà anche su coloro che lo pubblicizzano.

Tutte le informazioni relative alla beneficenza legata alla commercializzazione andranno comunicate all’Antitrust, unitamente al termine entro cui sarà effettuato il versamento dei fondi. Entro tre mesi dalla scadenza di tale termine, inoltre, si dovrà comunicare all’Autorità l’effettiva esecuzione del versamento. «Salvo che il fatto costituisca reato o una pratica commerciale scorretta» ai sensi del Codice del consumo, chiunque violi gli obblighi di trasparenza previsti è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da 5 mila a 50 mila euro.

La sovrapposizione

“Sono lieta che il governo abbia voluto velocemente riempire un vuoto legislativo”, ha affermato Chiara Ferragni riguardo al nuovo ddl “Beneficenza”. Ma è proprio vero che colma lacune normative?

Il vigente Codice del consumo sancisce il divieto di pratiche commerciali ingannevoli. Il divieto comporta, tra le altre cose, che deve esserci chiarezza su ogni elemento connesso alla vendita. Se le società di Ferragni e l’azienda Balocco sono state sanzionate per la vicenda del pandoro - e sono state sanzionate proprio perché la chiarezza è mancata - significa che sotto tale profilo non c’è un vuoto legislativo.

Il ddl in esame esplicita i singoli elementi su cui va fatta trasparenza in occasione di iniziative benefiche connesse alle vendite di prodotti. Ma la conseguenza dell’emanazione di questo ennesimo testo normativo in un ambito che, come visto, è già corposamente disciplinato, sarà una parziale sovrapposizione tra la nuova legge e il Codice del consumo. Infatti, l’assenza di informazioni precise sulle confezioni o nelle comunicazioni pubblicitarie circa le iniziative benefiche connesse alla vendita di un prodotto sarà di certo una violazione del testo sulla beneficenza, ma al contempo anche una pratica commerciale scorretta, come la è stata finora, ai sensi del Codice del consumo. Insomma, la medesima condotta sarà oggetto di entrambe le normative.

Di questo margine di sovrapposizione si è reso conto anche il legislatore, il quale – per scongiurare il pasticcio interpretativo e applicativo che ciò avrebbe determinato in concreto - ha disposto che le sanzioni previste dal ddl potranno essere irrogate solo se non siano contemporaneamente irrogabili quelle sancite dal Codice, le quali prevalgono in ogni caso. Allora ci si chiede per quale motivo il legislatore, anziché ricorrere a questo criterio di prevalenza per porre rimedio alla sovrapposizione, non l’abbia evitata a monte. Gli sarebbe bastato inserire espressamente nell’elenco delle pratiche commerciali ingannevoli, indicato dal Codice del consumo, la condotta di chi viola gli obblighi di trasparenza verso i consumatori per iniziative benefiche, anziché farne oggetto di un autonomo provvedimento.

Inoltre, la proposta di legge punisce con un importo irrisorio (50 mila euro euro) una condotta che ai sensi del Codice del consumo può essere sanzionata in modo molto più severo (fino a 10 milioni di euro). Anche per questo motivo sarebbe stato meglio configurare espressamente la violazione degli obblighi di trasparenza tra le pratiche ingannevoli individuate dal Codice stesso.

Nessuna sovrapposizione, invece, per la parte del ddl che riguarda la comunicazione, preventiva e successiva, all’Antitrust: se la pratica commerciale è corretta, e manca solo l’informativa all’Autorità, si applicherà esclusivamente il ddl beneficenza. Ma una sola previsione non giustifica l’emanazione di una nuova legge, tanto più che pure tale previsione avrebbe potuto essere collocata nel Codice del consumo.

Incongruenze

La formulazione del testo di legge solleva dubbi, specie in alcuni passaggi. Ad esempio, non è chiaro come sarebbe trattata, secondo il ddl, l’ipotesi in cui un’impresa destini propri fondi a una certa iniziativa benefica, ma senza collegarla al ricavato delle vendite di uno specifico prodotto. In altri termini, un’impresa potrebbe pubblicizzare il proprio sostegno finanziario a un’associazione che si occupi di tutela paesaggistica o di ricerca su determinate malattie oppure di altre nobili finalità, ma senza correlare l’ammontare di tale sostegno al numero di vendite di un certo prodotto. Stando all’interpretazione letterale delle norme del ddl, queste ultime non si applicherebbero al caso appena descritto, mancando la precisa correlazione tra la vendita di uno specifico prodotto e l’atto di beneficenza. Tuttavia solleva perplessità il fatto che un’impresa possa giovarsi sul piano reputazionale, e quindi anche su quello commerciale, della destinazione di risorse a una buona causa, senza dover sottostare agli obblighi di trasparenza previsti dalla nuova normativa.

Suscita perplessità anche la parte del testo che disciplina “la pubblicità e gli obblighi di informazione che i produttori e i professionisti devono adempiere in relazione alla promozione, alla vendita o alla fornitura ai consumatori di prodotti” i cui proventi siano destinati a iniziative benefiche. Con questa formulazione rischiano di essere soggetti all’obbligo di comunicazione anche coloro i quali destinano parte del ricavato della vendita a opere di beneficenza, ma per qualunque legittimo motivo non ne vogliano dare pubblicità. La norma, se interpretata alla lettera, imporrebbe loro di renderle pubbliche.

Questi rilievi denotano il fatto che la proposta legislativa sia stata adottata sull’onda di un caso di attualità, con norme modellate su quel caso, e non elaborate invece in modo da tenere conto di più ampie e generali esigenze.

Ora il progetto di legge inizierà il percorso parlamentare. Oltre a sanare le incongruenze rilevate, si dovrebbe evitare per l’ennesima volta una moltiplicazione di testi di legge e riportare le nuove norme in un corpus unitario, il Codice del consumo. Si parla sempre di qualità della regolazione. Sarebbe il caso di cominciare a realizzarla.

Immagine in anteprima: frame video Che tempo che fa via YouTube

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