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L’empatia selettiva

15 Giugno 2025 13 min lettura

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L’empatia selettiva

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13 min lettura

Pubblichiamo la traduzione integrale del discorso pronunciato dalla scrittrice Francesca Melandri lo scorso 7 maggio a Vienna, quando le è stato conferito il Premio Bruno Kreisky per la scrittura politica, nella categoria “opera completa”. Il discorso è stato tradotto in versione ridotta dal quotidiano francese Le Monde e dal quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung. Questo il video dell'intervento originale, in inglese:

Questa è un’occasione di amicizia e di celebrazione, ed è meraviglioso condividerla con tutti voi. Devo però confessarvi che in queste settimane e in questi mesi è difficile non sentire un peso sul cuore, anche nelle occasioni più felici. E sono sicura che ciascuno di voi capisce cosa intendo. Stiamo attraversando tempi sconcertanti, crudeli, sanguinosi, terrificanti, veloci, e di certo storicamente significativi - ma che significano cosa? Dove ci stanno portando? Non ne abbiamo la minima idea. 

Ci troviamo oggi in una sala dedicata a Bruno Kreisky, quindi immagino che la maggior parte di voi sia interessata alle notizie dal mondo quanto me. Ma immagino anche che pochi di voi abbiano mai sentito parlare della pulizia etnica di cui sto per raccontarvi.
Quando ero una ventenne, nel 1992 – la data è importante, come vedrete – mi trovavo con un altro film maker  in Nepal, dove avevamo deciso di documentare la situazione totalmente ignorata dei lotshampa, un'etnia nepalese che era stata appena cacciata dal Bhutan. Il Bhutan è quel famoso regno himalayano così idealizzato – idealizzato da noi occidentali, intendo – per il suo cosiddetto Indice di Felicità Interna.

Il nuovo re del Bhutan aveva deciso di trasformare il suo paese in un luogo monoetnico ed esclusivamente buddista. Perciò aveva deciso di eliminare tutti i lotshampa, nepalesi indù che vivevano lì da generazioni, costringendoli a scappare in Nepal. Il mio amico e io andammo con la nostra telecamera al campo profughi che l'UNHCR aveva allestito per queste migliaia di persone in esilio. Era nella pianura del Nepal, nel Terai, ed era un luogo deprimente come qualsiasi campo profughi: tende improvvisate, persone affamate, bambini sporchi e senza istruzione. Come se non bastasse, il campo era stato allestito proprio nel mezzo del letto asciutto di un fiume stagionale, e tutti sapevano che il monsone lo avrebbe presto trasformato in un inferno di fango. Intervistammo diverse persone, soprattutto donne, che ci raccontarono le loro storie. La pulizia etnica messa in atto dal regno da favola del Bhutan si era svolta secondo il solito copione di tutte le pulizie etniche: stupri di gruppo, persone uccise davanti ai familiari, fughe notturne con nient'altro che i vestiti addosso, i mezzi di sostentamento e la propria casa perduti per sempre. Girammo un bel po' di materiale. Quando tornai in Italia, lo offrii a diverse emittenti televisive. Nessuna era interessata. La risposta era sempre la stessa: “in questo momento c'è una pulizia etnica in Bosnia, a nessuno interessa quell'altra”. Io ogni volta rispondevo che se alla gente non importava della pulizia etnica in Bhutan era perché nessuno ne parlava. Ma fu tutto inutile: il nostro materiale non fu mai mandato in onda. È stato allora che imparai una volta per sempre una importante lezione: ci sono catastrofi umanitarie di moda e altre non di moda. Ci sono guerre di moda e altre no. Pulizie etniche di moda e altre no. Genocidi di moda e genocidi non di moda. 

Ho condiviso questa storia per riflettere su un comportamento che vedo spesso intorno a me come risposta alle tante crisi che stanno succedendo, un comportamento  che spesso mi preoccupa ancora più degli eventi stessi, perché riguarda i nostri meccanismi cognitivi. E la cognizione è quel luogo dove comincia e finisce il mondo per noi esseri umani, in cui ne abbiamo percezione, lo esploriamo, prendiamo decisioni. Pertanto, la nostra cognizione è quel prodigioso strumento - o meglio, quel luogo preziosissimo - che di fatto modella il mondo in cui viviamo. I tiranni e i loro propagandisti hanno sempre capito molto bene questo principio: lavora sulla cognizione delle persone, e ti troverai già fatto metà del lavoro di instaurare una tirannia.

Chiamo questo comportamento empatia selettiva.

Attenzione: noi esseri umani, creature bipedi, iper-sociali, a sangue caldo e dotate di capacità linguistiche, non siamo in grado di provare la stessa connessione empatica con tutti i nostri simili, tantomeno con la stessa intensità. I nostri cari riceveranno sempre un tipo di attenzione diversa rispetto agli sconosciuti che vivono in terre lontane, a prescindere da quanto ci battiamo per un mondo migliore. Non dovremmo né essere orgogliosi né vergognarci di questa incapacità, perché è il risultato dell'evoluzione naturale e serve allo scopo, decisamente importante, della sopravvivenza della nostra specie. Quindi non sto parlando dei diversi livelli di empatia che proviamo verso le persone che ci sono più o meno vicine nella vita. Sto parlando dell'empatia che noi, il pubblico occidentale, proviamo per gli esseri umani che hanno la grande sfortuna di finire nei notiziari. Per le persone che, con i loro corpi e le loro vite, e con i corpi e le vite dei loro cari, stanno vivendo gli orrori, il dolore e la distruzione di cui veniamo a conoscenza mentre sorseggiamo il nostro caffè al mattino. 

Non conosciamo direttamente queste persone, ma potremmo avere un legame più o meno forte con la loro cultura o la loro terra, e ovviamente questo influenzerà la nostra percezione di quanto accade laggiù e il nostro interesse. Di conseguenza, i fatti del mondo possono essere divisi in due grandi categorie. La prima comprende quei fatti verso cui non sentiamo alcun investimento personale, e che al massimo possono suscitare una compassione sporadica e generica, quando e se ne veniamo a conoscenza. La seconda comprende i fatti verso cui abbiamo un investimento personale. 

Appartiene alla prima categoria la pulizia etnica della minoranza nepalese lhotshampa nel Bhutan degli anni '90. In più di 30 anni, ho raccontato questa storia innumerevoli volte, e la maggior parte delle persone rimane sconcertata per non averne mai sentito parlare. I pochissimi che ne sono già a conoscenza sono sempre persone con qualche legame diretto con il subcontinente indiano. Siate sinceri, chi di voi ne ha sentito parlare?

Allo stesso modo, penso che tra noi in questa sala – tra l'altro, una sala parecchio “bianca” – pochissimi abbiano mai visitato il Sudan o abbiano qualche legame personale o culturale con quel paese; e quelli che hanno visitato la Repubblica Democratica del Congo sono probabilmente ancora meno, o persino nessuno. Quindi le guerre e le catastrofi umanitarie che stanno succedendo in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo non hanno niente a che vedere con l'esperienza personale della maggior parte di noi. Questa distanza è alimentata dal disinteresse che i media mainstream mostrano verso quei due paesi, in un circolo vizioso di indifferenza. Ricevono pochissima attenzione perché ci arrivano pochissime notizie al riguardo, e la scarsità di notizie ci porta a non prestare attenzione, e così via. Il nostro disinteresse e la nostra ignoranza sono sia la causa che l'effetto del fatto che nessuna di queste due catastrofi umanitarie ci viene presentata come qualcosa di importante, che ha davvero a che fare con noi.

La scelta di quale sofferenza sia rilevante oppure no, di quale debba commuoverci e magari addirittura spingerci a una qualche risposta politica, e quale invece vada appena accennata o addirittura ignorata, dipende da un insieme di storia, geopolitica, interessi egemonici, abitudini e persino mode passeggere. Vi ricordate di quando tutti erano solidali con la causa tibetana? Bene, centinaia di migliaia di tibetani sono ancora in esilio in India in condizioni di apolidia, alla mercé quindi dei loro ospiti indiani;  e quelli rimasti in Tibet sono ancora puniti duramente dai cinesi se non si lasciano assimilare. Non è cambiato nulla dai tempi in cui Richard Gere prendeva il tè ogni giorno con il Dalai Lama, semmai le cose sono peggiorate. Ma i tibetani non sono più di moda, quindi nessuno ne parla più.

Abbiamo poi la seconda categoria, e in questa rientra la pulizia etnica in Bosnia. Questo è il gruppo di crisi umanitarie che, almeno, riesce ad arrivare al centro del dibattito e dell'agenda politica, e ancora una volta ciò è sia causa che conseguenza del maggiore interesse dell'opinione pubblica. Queste sono le notizie in prima pagina, quelle che animano i discorsi dei politici e di cui discutiamo con gli amici a cena. Ma, ed è questo l'aspetto che voglio sottolineare, questo maggiore interesse ha anche, potenzialmente, un lato oscuro. È ciò che accade quando il semplice e sincero interesse per il destino dei nostri simili diventa una conferma della nostra identità personale. Non mi riferisco all'identità delle persone che vivono quei contesti di crisi, protagoniste involontarie e sfortunate di bombardamenti, uccisioni, stupri e privazioni. Parlo invece dell'identità degli spettatori, quella di chi non viene bombardato né affamato né ucciso, ma sta semplicemente guardando - in altre parole, la nostra. Ed è proprio questo eccesso di approccio identitario alle notizie dal mondo che vorrei portare alla vostra attenzione, perché mi preoccupa più di quanto riesca a dire.

Questa empatia selettiva e identitaria era già evidente fin dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina nel febbraio 2022, ma è letteralmente esplosa dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre con il rapimento degli ostaggi e la guerra di Israele contro Gaza.

Quando guardo al nostro occidente, vedo accadere ovunque la stessa scena. Vedo un gran numero di cittadini che provano profondo e sincero sdegno per la sproporzionata violenza della rappresaglia israeliana a Gaza, per la dimensione insostenibile della sofferenza, distruzione, fame e morte che da ormai un anno e mezzo si abbattono sui palestinesi. Vedo cittadini che esprimono sgomento e rabbia per questo stato di cose, e che a ragione protestano indignati contro i governi occidentali, i quali non stanno facendo nulla per fermare questa apocalisse di dolore o, peggio ancora, stanno persino aiutando i responsabili. Ma vedo anche come tanti, troppi di questi stessi cittadini preoccupati non siano riusciti a esprimere mai, nemmeno una volta, solidarietà e indignazione per la sofferenza umana certamente non meno intollerabile che la Russia di Putin sta infliggendo agli ucraini da tre anni, dall'inizio dell'invasione su vasta scala dell’Ucraina.

Questi stessi cittadini non hanno mai protestato contro il regime di Putin, non  hanno mai chiesto che l'esercito russo lasci immediatamente l'Ucraina come ci si aspetterebbe dalle società democratiche nei confronti di un invasore. Troppi di questi cittadini giustamente inorriditi, che hanno condiviso notizie sulla distruzione degli ospedali di Rafah, sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi, sui bambini mutilati, sulle donne incinte affamate dal blocco dei camion con gli aiuti alimentari e sui neonati che muoiono nelle culle senza elettricità, non hanno mai saputo dire nemmeno una parola  sulla distruzione di Mariupol, le cui immagini dopo l'invasione mostravano un cumulo di macerie non inferiore a quello attuale di Gaza. Non una parola sul rapimento dei bambini ucraini – l'atto per eccellenza che estirpa la generazione futura di un popolo e che definisce, secondo il diritto internazionale, il crimine di genocidio – non una parola sul catastrofico ecocidio provocato dai russi con l'esplosione della diga di Nova Kakhovka, che ha sversato liquami tossici su un’area grande quanto un piccolo paese europeo avvelenandola per generazioni. Non una parola sugli orrori di Bucha, non una parola sui bombardamenti  quotidiani sui civili a Kharkiv, Sumy, Kyiv, che non si sono mai fermati e continuano ora, mentre stiamo parlando. Non una sola parola.
Perché?

Le ragioni sono così tante che mi è servito un intero libro per dirle, il mio ultimo, Piedi freddi. Ma se dovessi spiegarlo  in una parola direi: identità. Molte persone basano la propria identità politica e culturale sulla convinzione che solo l’Occidente sia l'agente oscuro della storia, la manifestazione dei tratti più violenti dell'Impero e del colonialismo. Per queste persone, nei tre anni di attacchi all'integrità territoriale, alle città e ai corpi dell'Ucraina è stato quasi impossibile riconoscere quell'altra forza imperiale violenta e oscura della storia mondiale degli ultimi secoli: l'imperialismo russo, si tratti dell'URSS o del regime di Putin. E io sospetto che queste persona temano che, se venissero a conoscenza dell'altra metà della storia mondiale, se entrassero in contatto con la violenza e la brutalità imperiale che polacchi, baltici, ciukci della Siberia, ceceni, tatari, circassi e ucraini conoscono fin troppo bene, se ammettessero quanta parte della storia del pianeta hanno completamente ignorato nella loro visione del mondo, ebbene, che la loro intera identità sarebbe minacciata. E così si rifiutano di farlo. Risultato: l'Ucraina e soprattutto gli ucraini sembrano non esistere, per loro.

Ma vale anche il contrario.

Io passo metà dell'anno a Berlino, e sono sconcertata di fronte alle vere e proprie contorsioni verbali della maggior parte dei politici tedeschi quando devono parlare di Gaza. Il dolore dei palestinesi è descritto come una sorta di piaga biblica, un disastro climatico, una calamità infausta e inspiegabile, quasi il frutto di forze misteriose. E tutto pur di non pronunciare mai la parola “Israele”. Eppure, di fronte all'Ucraina brutalmente aggredita quegli stessi politici esprimono posizioni articolate, comprensive e animate da una giusta solidarietà, specie dopo il tradimento da parte degli Stati Uniti. Sono pienamente d'accordo con questi politici quando affermano che noi europei dobbiamo sostenere l'Ucraina non solo per spirito di solidarietà, ma per autodifesa e per proteggere le nostre democrazie.

Tutte queste persone sono perfettamente capaci di provare empatia e solidarietà per chi subisce bombardamenti, quindi. Eppure, troppo spesso in Germania le manifestazioni pubbliche di solidarietà per la catastrofe che ha colpito Gaza sono punite con provvedimenti ufficiali, come nell’ignobile caso dei quattro studenti espulsi di recente. Perché?

Ancora una volta, le ragioni psico-storiche sono molto complesse. Alcune sono evidenti, altre meno, ma quello è un libro che dovrebbe scrivere un autore o un'autrice del paese, non io che sono italiana. Da osservatrice esterna, anche se provengo da una terra la cui storia è strettamente legata al passato più buio della Germania, posso solo dire che la sconcertante empatia selettiva del discorso pubblico, sull'Ucraina e su Gaza rispettivamente, deriva dal rifiuto di riconoscere che qualcosa nella visione che la Germania ha di sé va radicalmente rivista. Questa visione è stata maturata da uno sforzo collettivo di fare i conti con i crimini commessi che rappresenta un modello unico al mondo di esplicita presa di responsabilità per il proprio passato e che non sminuisce affatto. Ma, allo stesso tempo, questa visione di sé va radicalmente rivista se si vuole mantenere la sacra promessa della Germania post-nazista e democratica: stare sempre, d’ora in poi, dalla parte dei diritti umani. In altre parole, quella oggi  in atto in Germania  è una crisi di identità.

Ma anche in molti altri paesi occidentali i politici stanno facendo gaslighting ai danni dei loro cittadini. Fingono che gli orrori di Gaza non stiano accadendo, o che non abbiano una causa nota, mentre i cittadini che quei politici sono chiamati a rappresentare sanno perfettamente cosa accade. Nei parlamenti sia nazionali che a Bruxelles, troppi hanno invocato i valori europei per giustificare il sostegno all’Ucraina, salvo poi ignorarli apertamente in altri contesti. Così facendo, si sono dimostrati incapaci di difenderli con coerenza etica e credibilità.

Del resto, come abbiamo visto, anche molti cittadini non sono riusciti a sollevare lo sguardo oltre la propria identità fissa e immutabile. Non sono stati capaci di mostrare solidarietà al di là di un pregiudizio identitario e, dopo tre anni, continuano a rifiutarsi di riconoscere e correggere la loro palese ignoranza dell’imperialismo russo. E io, da progressista europea, devo purtroppo riconoscere che questa mancanza di solidarietà verso la sorte dell’Ucraina democratica, sottoposta a un attacco su vasta scala da parte di un terrore totalitario, è un fallimento di proporzioni storiche per molte società civili progressiste. Siamo insomma di fronte a una reciproca e speculare cecità parziale, dove troppi rappresentanti eletti e troppi cittadini attivi politicamente estendono la propria solidarietà morale solo a uno dei due conflitti. Mentre l’altro è ignorato, come se non avesse né valore né cause. 

Tutto ciò, preso insieme, costituisce un grave danno per le nostre democrazie. E poiché la più sostanziale  differenza tra le democrazie e i regimi autoritari sta proprio nel fatto che sia rappresentanti eletti che cittadini sono chiamati insieme a garantire la tenuta della democrazia, ritengo che entrambe le parti abbiano contribuito a questo fallimento. 

C’è qualcosa di molto autoreferenziale, molto egocentrico, in tutto questo.

Ora, il fatto che noi occidentali tendiamo a essere troppo assorbiti da noi stessi non è certo una novità per chiunque abbia un minimo di conoscenza degli ultimi secoli di storia mondiale. Quindi, sinceramente, non è questo il lato oscuro che mi preoccupa di più. A preoccuparmi davvero è come l'empatia sia stata presa in ostaggio dall'identità.

Ogni volta che qualcuno sui social media pubblica una foto, per esempio, di una donna che tiene in braccio il corpo distrutto del suo bambino morto dopo un attentato in un asilo in Ucraina, il primo commento è sempre del tipo “E i bambini morti a Gaza?”. Oppure quando i ritratti degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas che erano stati attaccati ai pali della luce a New York furono strappati dagli studenti che protestavano “in solidarietà con i palestinesi”. E in ognuno di questi casi, vedo un inferno umanitario usato per sminuirne un altro. E non riesco a immaginare nulla di più disumanizzante. 

Ma altrettanto disumano è il concetto assurdo secondo cui, se un atto di violenza è più presente nelle notizie rispetto a un altro, allora le sue vittime devono essere considerate meno meritevoli di solidarietà a causa di questo “privilegio”. Secondo questa logica assurda, trent'anni fa io avrei dovuto dire: “Ah quei fortunati dei bosniaci di Srebrenica, che ricevono così tanta più attenzione rispetto ai nepalesi del Bhutan!”.

Nel nostro continente abbiamo già vissuto un tempo in cui la sofferenza di innumerevoli persone fu considerata priva di alcun valore come fossero insetti, degni solo di disprezzo e indifferenza. E questo da parte di persone che nel frattempo si prendevano cura delle loro famiglie, dei loro amici, di coloro con cui si identificavano. Ecco ciò che mi preoccupa: se ricominciamo a dividere gli esseri umani tra chi merita la nostra identificazione, empatia e solidarietà, e chi invece non ne è degno, stiamo imboccando di nuovo quella strada oscura. E ottant’anni fa abbiamo giurato che non l’avremmo percorsa mai, mai più.

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Vorrei concludere aggiornandovi sui nepalesi del Bhutan. Dopo tanti anni in quell’orribile campo profughi, diverse migliaia di loro furono trasferiti negli Stati Uniti. Lì, si presume, hanno lavorato, si sono innamorati, hanno fatto shopping, hanno litigato con il coniuge, si sono ammalati. Proprio come i tibetani in India, però, non hanno mai ottenuto la cittadinanza statunitense, solo il permesso di soggiorno. Ora Donald Trump, il campione mondiale di disumanizzazione strumentale, vuole espellerli tutti. Ma dove? Il Nepal non li vuole, non sono mai stati suoi cittadini. Come potete immaginare nemmeno il regno felice del Bhutan li vuole, e del resto i lotshampa ovviamente non prendono nemmeno  in considerazione l'idea di farvi ritorno. Quindi le loro traversie non sono ancora finite. Ma credo che questo costituisca un buon promemoria di un semplice fatto: in ogni parte del mondo, ci sono esseri umani che continuano a vivere e morire, sorridere e soffrire anche quando noi, spettatori infinitamente più fortunati e troppo spesso narcisisti dell'opulento Occidente, non accordiamo loro nemmeno un briciolo della nostra attenzione.

©Francesca Melandri 

 

8 Commenti
  1. Elena Lippe

    Grazie di cuore per questo intervento. Una luce in tempi tanto oscuri. Una voce che ha il coraggio e la determinazione di nominare il processo di disumanizzazione che ci sta travolgendo tutte e tutti. Mi sono commossa e ho provato un profondo sollievo e gratitudine. Grazie

  2. Carlo

    Una vita umana non vale niente, ma niente vale più di una vita umana, la seconda parte sempre più tra parentesi

  3. Fernando

    bello, giusto, equilibrato, condivisibile......ma tende a confondere situazioni belliche (in cui due eserciti si fronteggiano, più o meno alla pari), come quella Ucraina, con i Genocidi dei Lotshampa e dei Palestinesi che avvengono per mano di autorità governative e militari animate dalla mens rea genocidaria, come in questo momento e da oltre 20 mesi sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania ad opera del più criminale, terrorista e sanguionario Stato canaglia della Storia recente, quello Israeliano, attivamente supportato da USA e governi europei, complici del Genocidio! E questa incogrua comparazione rischia di condurre il ragionamento (o, meglio, la percezione della sua ratio) verso un punto di caduta poco convincente: "l'empatia selettiva" è il frutto della manipolazione propagandistica delle informazioni e della distorsione semantica che ne è lo strumento principale, con la quale, per esempio, si parla di "disastro", "tragedia", "pulizia etnica", ma non si parla di "Genocidio" nel descrivere la realtà e la natura dei crimini - secondo le chiare definizioni del Diritto Internazionale Umanitario, che lo Stato ebraico di Israele sta consumando ai danni del popolo Palestinese e si continua a parlare di "guerra" per descrivere quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania dove, all'evidenza, non visono due eserciti che si fronteggiano, ma un solo vile e terroristico esercito, quello israeliano, che sta sterminando un intero popolo, uccidendo con colpi alla testa ed al petto bambini di 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 anni e radendo al suolo con bombe americane ed europee ogni edificio di Gaza, Ospedali, scuole, bombardando e bruciando vivi bambini, donne, anziani che nel frattempo sta facendo morire di fame e stenti! LO VOGLIAMO CHIAMARE CON LA DEFINIZIONE CHE GLI SPETTA SECONDO IL DIRITTO INTERNAZIONALE? E CIOè: GENOCIDIO?

  4. Cristian

    Egregio Fernando, la tua onusta riposta non fa altro che dimostrare quanto bisogno abbiamo tutti di fare nostri i ragionamenti come quelli dell'autrice del discorso Saluti

    • Valigia Blu

      Grazie Cristian, stavamo per replicare ma la tua risposta è perfetta.

  5. Fernando

    Grazie, ma di GENOCIDIO continuate a non parlare. Le parole, a maggior ragione quelle "cariche" di significato, possono cambiare la Storia delle società e dell'intera Umanità se utilizzate per informare, per smascherare la propaganda e la mistificazione della realtà. E nel caso del Genocidio del popolo Palestinese per mano dei sanguinari, vigliacchi terroristi israeliani, a mio parere lo sforzo di verità impone che le parole si incarichino di rappresentare in modo netto, chiaro e definitivo l'indelebile responsabilità dell'Olocausto Palestinese della quale la gran parte degli israeliani eredi degli sfortunati ebrei trucidati dai nazisti - non il solo Natanyahu e i terroristi Ben Gvir e Smootrich che si indicano strumentalmente quali capri espiatori di tanto orrore - saranno chiamati a rispondere di fronte alla Storia dell'Uomo, non a quella del vincitore di turno. E allora, l'invito è a tutti gli organi di informazione indipendenti (e a tutti coloro che fanno divulgazione per mestiere e per passione) ad "informare" ad ampio raggio sui crimini contro l'Umanità in atto in molte zone del Pianeta, utilizzando un registro semantico e comunicativo scevro da "empatie selettive" e autocensure, capace di smascherare la propoganda manipolatrice dei criminali genocidi e le censure delle marionette politiche europee che, attivamente o vigliaccamente, ne sono complici. Sia il tuo parlare si, si - no, no

    • Valigia Blu

      Ciao, proprio perché dici "Sia il tuo parlare si, si - no, no" ti preghiamo di applicare questa massima in primo luogo al tuo parlare, e poi da lì a tutto il resto; la vecchia storia della trave e della pagliuzza, per restare in ambito biblico. Se avrai tempo e voglia di consultare il nostro sito vedrai che copriamo per quanto è possibile tutti quei contesti dove sono in corso gravi violazioni dei diritti umani (ricordiamo che la CPI ha emesso a suo tempo mandati di cattura internazionale anche per i leader di Hamas https://www.valigiablu.it/mandato-arresto-netanyahu-hamas-aja/), senza bisogno di farne una bandiera identitaria, o una classifica di disumanità da imporre all'interlocutore. Altrimenti hai semplicemente sbagliato sito.

  6. Cristiano

    Acquisterò il libro di Francesca Melandri, e sulla questione sollevata devo dire che ho spesso fatto riflessioni e aperto confronti. L’empatia selettiva è un argomento controverso, spinoso, complesso. Il racconto dei lotshampa ci ricorda quanto sia diffuso e silente il dolore in questo mondo; quanto sia ipocrita, selettiva la protesta nelle piazze occidentali. Indicativo in tal senso leggere le righe piene di odio di tal Fernando, che ha di fatto sfigurato il discorso della Melandri per scrivere un’invettiva “anti-israeliana” (e non voglio spingermi oltre). Proprio sulla scorta di questi commenti pieni di odio, in cui si usano parole gravose senza conoscerne il senso giuridico e storico, eviterei di usare Gaza come esempio di “empatia selettiva”.

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