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Bielorussia: la repressione di Lukašenka, i processi ai dissidenti e l’infiltrazione di Putin nella società civile

3 Febbraio 2023 7 min lettura

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Bielorussia: la repressione di Lukašenka, i processi ai dissidenti e l’infiltrazione di Putin nella società civile

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Le elezioni presidenziali bielorusse del 2020 e la brutale risposta del governo di Aljaksandr Lukašenka alle successive proteste hanno privato la maggior parte dei cittadini della trasformazione politica che chiedevano a gran voce. Il continuo disinteresse dello Stato per i processi democratici e i diritti umani - che non ha fatto che aumentare con l’invasione russa dell’Ucraina dello scorso 24 febbraio - ostacola lo sviluppo del paese in tutte le sue forme, dall’economia alla cultura.

Come altri paesi dell’ex blocco sovietico, nel 2022 la Belarus’ si è ritrovata a dover fare i conti, tra le altre cose, con una situazione economica che ha ben poche prospettive positive per i mesi (o più probabilmente anni) a venire. La recessione economica dovuta alla guerra e al conseguente confronto con l’Occidente (le sanzioni europee hanno colpito anche Minsk) è un fattore chiave da prendere in considerazione quando si parla di sviluppo politico all’interno del paese. Nonostante il sostegno concreto della Russia - reiterato dal presidente russo in occasione della sua visita a Minsk lo scorso 19 dicembre - in seguito all’imposizione delle sanzioni in risposta all’evidente complicità nella guerra in Ucraina, gli economisti non escludono un calo significativo del PIL (fino al 20%) e una vera e propria crisi finanziaria: “Non possiamo dire che l’economia sia sopravvissuta a tutte le conseguenze generate dalla guerra. Uno stallo può verificarsi in qualsiasi momento”, avverte l’economista Dmitrij Kruk dell’istituto di ricerca BEROC. E aggiunge: “Fino al 2022, la Belarus’ non era emarginata al 100%, il paese poteva ricevere prestiti, era facile fare affari con le imprese bielorusse. Ora la situazione è cambiata radicalmente. La Belarus’ come paese - non solo come potenza - è stata bollata con un marchio nero”.

Un elemento, questo, che si ricollega alla deriva totalitaria intrapresa dal regime di Lukašenka, il quale procederà imperterrito a “un’ulteriore criminalizzazione delle opinioni dell’opposizione, mentre le autorità bielorusse continueranno a punire i simpatizzanti dell’Ucraina, della lingua bielorussa e dell’orientamento nazionale”, come riporta a Deutsche Welle il politologo e giornalista Artem Šrajbman. La guerra ha infatti privato Lukašenka della possibilità di trovare finalmente un dialogo con l’opposizione e con l’Occidente, su qualsiasi fronte, compreso quello del rilascio dei prigionieri politici, il cui numero cresce giorno dopo giorno invece di diminuire.

La lotta dei dissidenti e l’appello per la solidarietà ai difensori dei diritti umani nella Bielorussia di Lukašenka

 

Al riguardo, alcuni casi sono a dir poco esemplificativi: a inizio anno si sono aperti due processi significativi, uno al fondatore e ad alcuni collaboratori dell’organizzazione non governativa per i diritti umani “Viasna” e uno ai leader dell’opposizione in esilio, tra cui Svjatlana Cichanoŭskaja.

Il processo per il “caso Viasna” è iniziato il 5 gennaio presso il Tribunale distrettuale Leninskij di Minsk. Tre gli imputati che rischiano dai sette ai dodici anni di carcere: il presidente di “Viasna” e premio Nobel per la pace Ales’ Bialjacki, il suo vice Valjancin Stefanovič e l’avvocato Uladzimir Labkovič, dichiaratosi innocenti davanti al giudice. Un quarto imputato, Zmicer Salaŭeŭ, verrà processato in contumacia poiché ha lasciato il paese. In carcere dal 14 luglio 2021, detenuti in condizioni disumane e sottoposti a procedimenti giudiziari inficiati da numerose irregolarità, sono tutti accusati di “contrabbando” e di “finanziamento di azioni di gruppo che violano gravemente l’ordine pubblico” (rispettivamente secondo il comma 4 dell’articolo 228 e il comma 2 dell’articolo 342 del codice penale bielorusso). Ma quello che salta agli occhi di più - oltre all’ennesimo processo “farsa” che avviene in completa conformità con la violazione dei diritti umani (gli imputati continuano a essere ammanettati anche davanti al giudice) - è che il materiale del caso e le udienze del processo sono in lingua russa e che le diverse richieste da parte degli imputati di avere un interprete per poter parlare nella loro lingua madre - il bielorusso - sono state respinte dal giudice, in contrasto con il diritto nazionale e internazionale.

Da sottolineare anche che le autorità bielorusse hanno de facto vietato ogni tipo di ripresa dall’aula e proibito a chiunque di scattare foto durante il processo, violando così il diritto a un’udienza pubblica ed equa, oltre che la logica: ai media filogovernativi è stato infatti permesso di registrare il tutto. Il 6 gennaio, Ekaterina Janšina, difensore dei diritti umani e giornalista russa, è stata condannata a quindici giorni di carcere amministrativo a Minsk con l’accusa di “teppismo minore” per aver presumibilmente scattato delle foto durante il primo giorno di processo. Infine, ad alcuni osservatori internazionali è stato negato l’accesso in aula, compresi ai diplomatici dell’Unione Europea che si sono radunati davanti al palazzo di giustizia per mostrare solidarietà ai difensori dei diritti umani.

Nel frattempo, presso il Tribunale municipale di Minsk, è iniziato il 17 gennaio il processo in contumacia di Svjatlana Cichanoŭskaja, Pavel Latuška (che ha contestato l’avvocato assegnatogli, ma il tribunale ha respinto l’istanza), Volha Kavalkova, Marija Maroz e Sjarhej Dyleŭski. Attualmente all’estero, gli oppositori di Lukašenka sono stati accusati secondo ben dodici articoli del codice penale bielorusso e non hanno tuttora accesso ad alcun documento sul loro caso. A margine del Forum economico mondiale di Davos, Cichanoŭskaja ha definito il suo processo una farsa e una vendetta da parte di Aljaksandr Lukašenka: “Questi processi non sono affatto dei processi. Questo è uno spettacolo, una farsa, e non ha nulla a che fare con la giustizia. È una vendetta personale di Lukašenka e dei suoi scagnozzi, e non solo contro di me, ma anche contro altre persone che si oppongono a lui”.

Arresti e condanne non si limitano ai difensori umami, come ben sappiamo: nei mesi scorsi il regime di Lukašenka ha condannato a dodici anni di carcere il fondatore della Fondazione bielorussa per la solidarietà sportiva Aljaksandr Apejkin e l’olimpionica nuotatrice bielorussa Aljaksandra Herasimenja.

Se, in seguito all’invasione russa su larga scala, l’Ucraina sta cercando di spazzare via qualsiasi segno che ricordi la Russia, il regime sovietico e l’imperialismo proveniente da est (come dimostrano anche la rimozione di monumenti dedicati alle principali figure culturali russe, tra cui la statua di Caterina II a Odessa, smantellata a fine dicembre, o la ri-denominazione delle strade che un tempo portavano il nome di generali, bolscevichi o intellettuali appartenenti al russkij mir), nella vicina Belarus’, invece, è sorprendentemente vero il contrario: il regime di Aljaksandr Lukašenka, l’ultimo alleato di Vladimir Putin, sta lavorando per ridurre e limitare sempre di più la cultura bielorussa. Il governo bielorusso sembra aver dichiarato guerra alla propria cultura nazionale.

La presenza russa in Belarus’ è ormai diffusa a macchia d’olio e ciò anche grazie (o a causa?) del nuovo assetto geopolitico europeo. Il presidente russo Vladimir Putin non si limita all’uso del territorio dei vicini di casa per le esercitazioni militari congiunte - che si sono intensificate con le esercitazioni dell’aviazione da combattimento bielorussa e russa avvenute tra il 16 gennaio e l'1 febbraio - ma riesce anche a intromettersi nella gestione della vita culturale all’interno della società bielorussa. Il suo alleato Lukašenka lo asseconda inaugurando “case della cultura russa”, alimentando la propaganda sui “valori tradizionali”, creando collaborazioni tra i sistemi scolastici dei due paesi “fratelli” e promuovendo il comune passato sovietico. Basti pensare che, lo scorso 30 dicembre, la “Casa russa” della città di Homel’, nel sud-est del paese - finanziata dal Cremlino e con l’autorizzazione delle autorità locali - ha chiesto ad alcuni bambini bielorussi di scrivere delle lettere ai soldati russi al fronte.

Da dove arriva tutto ciò? Lukašenka non ha inventato una propria ideologia e, almeno nella teoria e nella logica, il suo regime dovrebbe essere di stampo nazionalista. Eppure, il bat’ka (‘padre’ in bielorusso) ora ha paura di tutto ciò che ha un sentore di bielorusso. Secondo quanto riferito da Henadz Koršunaŭ, ex direttore dell’Istituto di Sociologia dell’Accademia Nazionale delle Scienze bielorussa, chiunque parli o legga il bielorusso, crei musica bielorussa o venda manufatti bielorussi in negozi privati, può considerarsi parte di una minoranza perseguitata. D’altronde, sin dalle proteste del 2020, le guide turistiche che lavorano in bielorusso sono state imprigionate, la bandiera storica bielorussa bianca-rossa-bianca è stata resa illegale, lo slogan patriottico Žyve Belarus’ (viva la Belarus’) bandito e la lista dei materiali considerati provocatori è cresciuta sempre di più, fino a includere sempre più oggetti culturali e linguistici bielorussi e qualsiasi attività della società civile in bielorusso, come racconta anche l’attivista Andrei Vazyanou dalla Lituania.

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Negli ultimi due anni sono state chiuse da 700 a un migliaio di organizzazioni non governative: dalla Società di lingua bielorussa a organizzazioni senza alcuna affiliazione politica, come gruppi ecologici, associazioni che aiutano i disabili e case editrici. La storia della casa editrice Januškevič ne è un esempio. Andrej Januškevič l’ha fondata nel 2014 e ha riscosso un grande successo in patria, pubblicando nella lingua locale classici come “1984” di George Orwell e “Istanbul” di Orhan Pamuk. Nel novembre 2021, a più di un anno dall’inizio delle proteste antigovernative post-elettorali, i primi segni di repressione si sono fatti sentire e inaspriti nel marzo 2022 quando, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, alla casa editrice è stato ordinato di chiudere. Januškevič a maggio ha deciso allora di aprire una libreria della casa editrice che vende libri in bielorusso; ma il negozio, a poche ore dall’apertura, ha ricevuto la visita dei propagandisti del regime e la sera stessa è stato chiuso su ingiunzione dell’ufficio del procuratore. Andrej è stato arrestato e ha trascorso circa un mese in carcere prima di essere rilasciato e partire per la Polonia: “Questo regime non ha bisogno della cultura bielorussa, se non nel ruolo di cultura popolare marginale. È senza dubbio una politica antibielorussa. Al contrario, il regime installa il ‘mondo russo’ per rendere la Belarus’ solo un’altra parte della Russia occidentale”.

Se ancora non sappiamo di cosa abbiano parlato Putin e Lukašenka a porte chiuse a fine anno e possiamo solo ipotizzare le promesse fatte a Minsk riguardanti un sostegno economico e militare da parte di Mosca, non abbiamo dubbi sul fatto che i propagandisti del Cremlino stiano cercando di insinuarsi anche - e soprattutto - nella sfera della società civile. Sebbene il bat’ka bielorusso non sembri interessato a farsi coinvolgere attivamente nella guerra in Ucraina, perché un’azione simile potrebbe destabilizzare il suo potere in Belarus’ e avere conseguenze drammatiche per lui personalmente, dall’altro lato è Mosca ad avere l’ultima parola in materia. Di certo, andando avanti su questa strada e continuando a tenere alto il suo pugno di ferro repressivo, il presidente bielorusso non porterà alcun miglioramento al proprio paese che continua a lottare comunque per la libertà e la democrazia.

Immagine in anteprima: il premio Nobel per la Pace 2023 Ales Bialiatski in carcere via Twitter

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