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Quattro argomentazioni che non vogliamo più sentire quando si parla di violenza sulle donne

6 Aprile 2021 11 min lettura

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Quattro argomentazioni che non vogliamo più sentire quando si parla di violenza sulle donne

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Quando si parla di violenza domestica, femminicidi, molestie e abusi sulle donne ci sono alcune obiezioni che ricorrono spesso: “Va bene la violenza sulle donne, ma non bisognerebbe parlare di violenza in generale? Non condanniamo forse ogni violenza?”; “Si ma perché allora non si parla mai della violenza sugli uomini?”; “Il termine femminicidio è discriminatorio, forse anche verso le donne. Allora parliamo di maschicidio!”; “Non tutti gli uomini sono violenti, è una generalizzazione”.

Queste argomentazioni appaiono sovente nei commenti agli articoli che parlano di questi temi, invocando mancanze, lacune o pregiudizi da parte di chi ha scritto il pezzo. Sono varie declinazioni dello stesso tema, con un unico sottotesto: tutto questo parlare di violenza sulle donne discrimina, colpevolizza, stigmatizza gli uomini. Non è così, ovviamente, semmai li chiama in causa. E questa, lo capisco, non è di certo una posizione comoda.

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Non esiste nessuna “guerra tra i sessi”: esiste un sistema etero patriarcale in cui a un genere sono accordati privilegi e prerogative a discapito di un altro. Un sistema in cui l’essere donna espone a rischi, discriminazioni, ingiustizie e problemi per il solo fatto di esserlo - e ancora di più se povera, nera o appartenente a minoranze. Non è un argomento di discussione: lo dicono i dati sull’occupazione, sui salari, sulla presenza in politica e nei luoghi di potere. E anche quelli sulla violenza, come vedremo in seguito, che oramai da un po’ di tempo sono sotto gli occhi di tutti.

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1. Non sarebbe più corretto parlare di violenza in generale?

“Perché parlare di violenza sulle donne? La violenza è violenza e basta, a prescindere da chi la subisce!” Questa è probabilmente la prima e più diffusa argomentazione tra i commenti negativi ad articoli e post che parlano di femminicidio o violenza domestica. Viene per lo più da uomini (ma talvolta sono anche donne a tirarla fuori).

Dire che la violenza sia sempre da condannare è un’affermazione che, almeno in linea di principio, non trova contrari. Chi non vuole stigmatizzare tutte le violenze? Questo discorso però sarebbe ineccepibile in un mondo di uguali, cosa che questo mondo non è. In una società caratterizzata da forti squilibri di potere, fare un discorso sulla “violenza in generale” lascia fuori grosse fette di realtà, le soggettività di chi quella violenza la subisce nonché le ragioni alla base.

Come spiega Lorenzo Gasparrini, l’errore è pensare che “i fenomeni storici e sociali si possano giudicare a prescindere dalla loro origine, dalle loro concause, dalle circostanze nelle quali sono nati – quindi non importa chi o perché spara: aggressore e aggredito sono uguali quando sparano; non importa chi picchia o stupra e perché: uomini e donne sono uguali quando picchiano o stuprano”.

C’è una ragione perché si parla di violenza sulle donne. L’European Institute for Gender Equality definisce la violenza di genere come un fenomeno “profondamente radicato nelle disuguaglianze” tra uomini e donne e lo considera “una delle più rilevanti violazioni dei diritti umani” in tutte le società. La violenza di genere “è violenza diretta contro una persona in ragione del suo genere”.

Spesso violenza di genere e violenza contro le donne vengono usati come termini interscambiabili. Questo, spiega l’EIGE, dipende dal fatto che “è stato largamente riconosciuto come la maggior parte della violenza di genere sia inflitta a donne e ragazze da parte di uomini”. Anzi, si tratta di un’incidenza “sproporzionata”.

Un recente studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - il più grande finora mai realizzato – ha rilevato come nel mondo una donna su tre abbia subito violenza fisica o sessuale da parte di un partner maschile: un marito, un fidanzato, un compagno.

In Italia secondo l’Istat, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Stiamo parlando di circa 7 milioni di persone che hanno avuto a che fare con strattonamenti, molestie, maltrattamenti, fino ad arrivare a percosse, tentativi di strangolamento, stupri. Senza contare i casi di abusi psicologici o stalking. A commettere le violenze più gravi sono partner, parenti, amici, persone conosciute. Sono stime al ribasso, che nascondono molto sommerso, non denunciato e non detto.

È evidente che le violenze siano in generale da condannare, ma nel parlare del fenomeno non si può prescindere da questi dati ed evidenze. La violenza su donne e ragazze è un problema sistemico, che incide sulla vita di milioni di persone. E se ne deve parlare nella sua specificità, altrimenti si perde di vista tutto il resto e non si potrà mai affrontare seriamente.

2. Il termine femminicidio è discriminatorio

Da una decina d’anni anche in Italia si è iniziato a utilizzare il termine “femminicidio”. Dopo molta fatica e una battaglia da parte di movimenti femministi e giornaliste, la parola è entrata anche nelle redazioni – anche se non in tutte e non sempre viene usata.

Sin dalla sua introduzione, “femminicidio” ha scatenato diverse critiche. Anche se sono andate un po’ scemando con il tempo, alcune continuano a ricorrere. Su tutte: perché non basta parlare di “omicidio”? Non è addirittura discriminatorio se non offensivo usare “femminicidio”?

No, non lo è. Partiamo dall’origine: il termine femicide è stato diffuso per la prima volta dalla criminologa statunitense Diana Russell nel saggio "Femicide: The Politics of Woman Killing". Con questa nuova categoria, la studiosa indicava la violenza estrema da parte di un uomo nei confronti di una donna “in quanto donna”.

“Il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio ed include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine.”

L'anno successivo, nel 1993, l'antropologa messicana Marcela Lagarde, rifacendosi agli studi di Russell, ha ampliato il concetto di “femminicidio”, dando una connotazione sociale, culturale e politica per indicare quegli atti di violenza e discriminazione commessi contro le donne e inseriti in una società e cultura che quasi li tollera.

Femminicidio dunque è “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine -maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale - che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine”.

Quando parliamo di femminicidio, quindi, non stiamo semplicemente dicendo che è stata uccisa una donna, ma che una donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette quella violenza. In una società patriarcale, chi uccide la sua compagna o ex perché incapace di accettare la sua volontà di lasciarlo o autodeterminarsi commette un femminicidio. Chi aggredisce e causa la morte di una ragazza sconosciuta per strada perché intimamente convinto di poter disporre del corpo delle donne a suo piacimento commette un femminicidio.

Queste stesse condizioni non esistono per quanto riguarda gli uomini. Per questo, non ha senso invocare l’uso del termine “maschicidio”.

Non si nega che gli uomini vengano uccisi – anzi, parlando in numeri assoluti lo sono in misura superiore. Le circostanze di queste morti, però, sono molto diverse.

In Italia quest’anno c’è stato in media un femminicidio ogni tre giorni. In un report pubblicato a febbraio l’Istat ha rilevato che nel 2020 si è registrato un forte calo degli omicidi, mentre i femminicidi sono stati l’unico reato a crescere.

Gli uomini vengono uccisi perlopiù da sconosciuti (43,1%) o da persone non identificate (21,1%); le donne muoiono principalmente per mano di qualcuno che conoscono, che spesso vive tra le mura domestiche. Tra il 2018 e il 2019 gli omicidi in ambito familiare o affettivo sono stati il 27,9% del totale degli omicidi di uomini e l’83,8% di quelli che hanno come vittime le donne.

Sempre secondo l'Istat, nel 2019 le donne uccise sono state 111, l’88,3% delle quali è morta per mano di una persona conosciuta: 55 di loro sono state ammazzate dall’attuale partner, 13 dall’ex, 25 da un familiare (inclusi figli e genitori) e cinque da un conoscente (amici o colleghi). In oltre la metà dei casi, dunque, le donne sono state uccise dai compagni attuali o precedenti, e, dice l’Istat, in misura maggiore rispetto agli anni passati: “Il 61,3% delle donne uccise nel 2019, il 54,9% nel 2018 e il 54,7% nel 2014”.

Nel primo semestre del 2020 – in un contesto di aumento della violenza domestica a livello mondiale - “gli assassini di donne sono stati pari al 45% del totale degli omicidi, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, e hanno raggiunto il 50% durante il lockdown nei mesi di marzo e aprile 2020”. Le donne “sono state uccise principalmente in ambito affettivo/familiare (90,0% nel primo semestre 2020) e da parte di partner o ex partner (61,0%)”.

3. Si parla sempre di violenza sulle donne e mai di violenza sugli uomini

È vero, di “violenza sugli uomini” si parla molto poco. Però vanno fatte un paio di precisazioni.

Innanzitutto, bisogna intendersi su cosa intendiamo quando parliamo di violenza sugli uomini. Ad esempio, come fa notare Gasparrini in un articolo su Bossy, con questo termine potremmo intendere il risultato di comportamenti violenti (crimini, reati, condotte socialmente esecrabili o contro il buonsenso comune) che hanno come vittime persone di sesso maschile. Questo caso rientra nelle statistiche Istat e di altri istituti, e oltre alle stime ne viene fuori che sono uomini anche la maggior parte degli autori di questi crimini.

In ogni caso, questo tipo di violenza non è da considerarsi una “questione di genere”, perché “non dipende da una precisa scelta verso le vittime”.

Se così fosse, dovremmo parlare di violenza subita dagli uomini in quanto uomini. È una violenza agita in ragione di “caratteristiche specifiche attribuite al loro genere e che li rendono particolarmente vulnerabili in determinate occasioni da chi li ritiene manchevoli o eccedenti proprio in relazione a quelle caratteristiche”, scrive Gasaparrini, citando tra gli esempi la violenza omofoba (verso un uomo che “non si comporta da uomo”), il bullismo (verso una vittima considerata più debole) o la violenza domestica nelle coppie omosessuali, in cui è presente un compagno abusante. Anche quando si parla di questo tipo di violenza l’autore è tipicamente un uomo.

Il fatto che non se ne parli molto ha una ragione fortemente culturale: gli uomini non parlano di questi problemi e, aggiunge ancora Gasparrini, sono portati a considerare la violenza e lo scontro tra maschi come la normalità.

Periodicamente viene tirata fuori una ricerca - “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile” - che parla di quattro o cinque milioni (a seconda del giornale che la riprende) di uomini che hanno subito violenza da parte di donne. Dello studio – dal quale il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha preso le distanze - però sono stati criticati sia i metodi di raccolta delle testimonianze e della congruità del campione statistico.

Nessuno nega che un uomo possa anche subire violenza – fisica o psicologica – da parte di una donna, all’interno delle mura di casa o sul luogo di lavoro. Ma non esistono stime attendibili di questo fenomeno - che comunque rimane piuttosto esiguo - né studi a riguardo. A causa dello stesso sistema patriarcale e del tipo di modello maschile che ne è correlato, peraltro, gli uomini sono poco inclini a raccontare per paura di sembrare deboli - chi andrebbe a dire di aver subito abusi da una donna rischiando di essere additato come "poco maschio"? - e non si sono sviluppate vere reti di supporto o di approfondimento che consentirebbero di affrontare la questione.

In ogni caso, parliamo di fenomeni diversi e non esiste una competizione tra lotta alla violenza sulle donne e sensibilizzazione verso uomini che subiscono abusi. I movimenti e le organizzazioni che si battono contro femminicidi e abusi sulle donne non hanno l'obiettivo di stabilire una supremazia della sofferenza, ma di far sì che nessuna venga più uccisa e che tutte possano vivere libere.

4. Non tutti gli uomini, #NotAllMen

Ogni volta che davanti a un caso di violenza sulle donne si esce fuori dall’episodio specifico e si fa un discorso generale su tema della “violenza maschile” sulle donne, inevitabilmente parte un coro difensivo: “Non tutti gli uomini” uccidono/stuprano/aggrediscono/abusano ecc.

Recentemente è successo in Inghilterra, dopo l’uccisione di Sarah Everard e l’ondata di testimonianze sui social da parte di donne che raccontavano di non sentirsi sicure quando camminano da sole la sera perché hanno paura di essere aggredite da un uomo. Ne sono seguiti centinaia di messaggi di utenti maschi che si affrettavano a chiedere dei distinguo, con l’hashtag #NotAllMen.

Un caso piuttosto emblematico nel nostro paese si è verificato lo scorso novembre, quando, dopo giornate in cui si era susseguito un femminicidio dopo l’altro, il profilo Instagram di Repubblica ha pubblicato una grafica con queste parole: “La gelosia non uccide, gli uomini sì”.

Il post poneva la questione su un piano preciso: sono gli uomini ad ammazzare le donne in quanto donne. Ed è il patriarcato ad armarli.

La grafica però è durata poco. Il post ha ricevuto diversi commenti di protesta di uomini che hanno tacciato la testata di sessismo, lamentandosi dell’associazione tra l’essere uomini e uccidere le donne. Così Repubblica ha pubblicato un altro testo specificando “alcuni uomini”.

È evidente che non tutti gli uomini uccidono, violentano, molestano, aggrediscono, abusano fisicamente o psicologicamente le donne. Non tutti gli uomini scambiano foto intime delle ex nelle chat con gli amici o fanno catcalling per strada. Nessuna persona lo pensa, tantomeno nessuna femminista. Ed è altrettanto evidente che ci sono tanti uomini che non si sognerebbero mai fare cose del genere. Il piano del discorso, infatti, non è che tutti gli uomini sono violenti, ma che la violenza è un problema maschile.

Posto questo, dunque, il primo problema è che la precisazione "Not All Men" rischia di far passare gli episodi di violenza come casi isolati ad opera di "mostri" avulsi dalla società in cui viviamo. Come se la violenza fosse una questione del singolo, non sistemico.

Quelli che si premurano di dire che "non tutti gli uomini sono così", stanno in realtà dicendo "io non sono così", tirandosi fuori dalla discussione, stanno affermando di non aver nessuna intenzione di affrontare il problema della misoginia. Si stanno difendendo da una rappresentazione di loro stessi che non gli piace. E questa è la seconda ragione per cui dire "Not All Men" è problematico: perché al centro non c'è più la questione della violenza sulle donne, ma una difesa di genere basata sull'esperienza personale.

Circa il 50% delle donne sopra i 15 anni nell’Unione Europea ha subito molestie sessuali. Nel mondo, il 35% delle donne ha fatto esperienza di violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. Anche coloro che non hanno mai subito violenze o molestie vivono quotidianamente sin da ragazzine la paura che potrebbe capitare, adattano i loro comportamenti per evitarlo, fanno attenzione per strada, sul luogo di lavoro, in ambiente domestico.

In una società in cui il sessismo è sistemico, non rendersi colpevoli di certi comportamenti è il minimo sindacale: l'architettura patriarcale si nutre anche dell'inazione di chi, pur non facendo nulla di deplorevole, si limita semplicemente a godere dei propri privilegi senza metterli in discussione.

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Quanti uomini invece di stare sulla difensiva fanno davvero qualcosa per affrontare questa situazione, posto che non aggredire/uccidere in prima persona non è evidentemente abbastanza? Quanti uomini ascoltano seriamente le esperienze delle donne? Quanti uomini si adoperano per assicurarsi che altri uomini non abbiano comportamenti violenti? Quanti stigmatizzano il linguaggio sessista da parte di altri uomini, magari in cerchie di amici? Quanti alzano la voce e fanno autocoscienza e provano a sensibilizzare su questi temi? Ancora troppo pochi, purtroppo.

Dunque sì, non tutti gli uomini molestano, aggrediscono eccetera. Ma tutte le donne temono che possa succedere, perché quel tipo di uomo esiste, è cresciuto in e da questa società. E non ci sono ancora abbastanza uomini pronti ad affrontare il problema.

Foto anteprima Camelia.boban, sotto licenza CC BY-SA 4.0  via Wikimedia Commons

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