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Il discorso del papà di Giulia Cecchettin è un dono altamente ‘politico’ alle nostre società disorientate

5 Dicembre 2023 9 min lettura

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Il discorso del papà di Giulia Cecchettin è un dono altamente ‘politico’ alle nostre società disorientate

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Nella Basilica di Santa Giustina a Padova si sono raccolte oltre ottomila persone per il funerale di Giulia Cecchettin, che la famiglia ha voluto pubblico e in luogo che potesse ospitare una grande partecipazione. L’enorme risonanza del femminicidio di Giulia ha suscitato commozione in tutta Italia, al punto che le esequie, celebrate dal Vescovo di Padova, hanno visto la presenza di un alto numero di rappresentanti delle istituzioni e una vasta folla che si è soffermata sul sagrato e su Prato della Valle. Si tratta senza dubbio di una delle cerimonie più seguite della recente storia d’Italia, la cui importanza e la discussione che alimenterà rimarranno nelle cronache.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin, pur corrispondendo ai tratti tipici del reato, è caratterizzato al contempo da una dimensione simbolica che lo rende un evento spartiacque, sia per la giovane età della vittima, sia per le sue caratteristiche culturali e caratteriali, che la rendono una figura molto riconoscibile tra le figlie, le sorelle, le amiche che ognuno può contare nella propria cerchia. L’aspetto così famigliare, l’intelligenza grazie alla quale ha completato un corso di studi impegnativo, la famiglia già provata dalla recente perdita della madre per malattia, la sorella maggiore le cui parole hanno scosso il paese: sono tutti elementi che contribuiscono a rendere Giulia un personaggio pubblico eccezionale, poiché la sua vicenda ha colpito la sensibilità di milioni di italiani che davanti a un fatto di cronaca così impressionante dimostrano di non potere e di non volere rimanere indifferenti.

In questo quadro si inserisce il discorso pronunciato dal padre di Giulia in conclusione del rito funebre: un discorso laico e posato, che si fa espressione della necessità di un cambiamento a partire dal basso, dalla comunità educativa e dalla rete sociale in cui ognuno di noi è inserito. Proprio perché parla al cuore del paese e si colloca in una congiuntura storica significativa – un momento in cui si rimettono in discussione alcune epocali svolte nell’assetto giuridico del paese che garantirono tutele e diritti alle donne prima inimmaginabili – questo discorso non può rimanere confinato al recinto sacro della liturgia, ma deve essere diffuso come strumento educativo.

Il fatto stesso che a pronunciare l’ultimo saluto a Giulia sia stato il padre rende la figura di Gino Cecchettin un riferimento per tutti gli uomini. Non solo coloro i quali temono un destino infausto per le proprie figlie – idea conservatrice basata sull’assunto patriarcale che il pater familias sia il soggetto deputato alla difesa di un territorio e alla custodia della moralità intesa come tradizione. In realtà, questo discorso si rivolge a tutti, ma in particolare agli uomini eterosessuali, che siano o meno padri, la cui salute poggia anche sulla relazione affettiva.

Proprio questo gruppo sociale è al centro della riflessione che Cecchettin ha voluto condividere con il paese, attraverso l’apertura del rito a tutti coloro che desiderassero partecipare e concedendo il permesso di riprendere la messa. Questo gesto di encomiabile apertura e condivisione è un dono che la famiglia Cecchettin ci ha fatto e che va trattato con il rispetto dovuto ai momenti più alti della vita di una comunità.

Il discorso prende l’avvio dal ricordo della figlia, di cui vengono elogiati il carattere allegro, la predisposizione allo studio, il senso di responsabilità dimostrato durante la perdita della madre. Il padre la definisce una combattente, “una oplita, come spesso si definiva”, tenace nei momenti di difficoltà e dallo spirito indomito. Ma nel giro di pochi istanti dall’inizio dell’elogio, Gino Cecchettin affronta di petto la questione centrale, quella che da giorni è invitato a commentare e su cui né lui né la sorella Elena hanno mai taciuto. 

Le parole dedicate al femminicidio sono di una lucidità rara: viene definito “il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne” e che attraverso l’abuso toglie loro prima la libertà e solo dopo la vita. In poche e semplici parole, il padre di Giulia offre una disamina molto precisa del fenomeno, che definisce a più riprese come un flagello e una piaga sociale. Si chiede soprattutto come possa essere accaduto questo, e la risposta che offre chiama in causa tutta la comunità educante nei suoi pilastri: famiglia, scuola, società civile, mondo dell’informazione. 

Il contrasto alla violenza di genere quindi, secondo Cecchettin, può essere realizzato attraverso molteplici canali, di cui scuola e informazione costituiscono tasselli fondamentali. Ma prima di iniziare la sua analisi e avanzare le sue richieste, Cecchettin si rivolge agli uomini, che definisce “agenti di cambiamento contro la violenza di genere”, attribuendo loro un ruolo centrale nello smantellamento della cultura patriarcale. Esorta a parlare agli altri maschi “sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali”; incita al coinvolgimento, all’ascolto e a non voltare la testa davanti ai segnali di violenza, anche i più lievi. 

L’azione personale degli stessi uomini è quindi cruciale per “rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto”. Questo accorato appello coglie il senso profondo dell’azione trasformatrice, che non può essere confinata alla scuola, ma deve diffondersi nella società civile attraverso l’impegno personale, il sentirsi chiamati in causa. Parole particolarmente significative sono poi rivolte ai genitori, che sprona a non sottrarsi al compito educativo, laddove concetti ormai ritenuti quasi obsoleti come sacrificio e impegno giocano invece un ruolo centrale nella formazione di una struttura psichica che sia in grado di reggere davanti alle difficoltà più comuni attinenti a molte sfere, fra cui quella affettiva.

Il richiamo ai genitori è di particolare importanza per la fase educativa odierna, che si confronta con una pretesa capillare di performatività in ogni campo, soprattutto a scuola e all’università, e un costante incitamento alla competitività, clima che mette a dura prova l’emotività di adolescenti, resi sempre più fragili anche dalla pressione che gli ambienti lavorativi esercitano su famiglie sempre più assenti. In questo senso, l’invito a insegnare ad accettare le sconfitte è centrale in un dialogo che abbia per obiettivo il rispetto dell’altro, come dice Cecchettin, e una sessualità libera dal possesso.

In queste parole si cela un pensiero che atterrisce chiunque abbia figli in età adolescenziale, ovvero che le fragilità causate da un ambiente troppo competitivo generi forme di rivalsa e di rafforzamento di identità che passano anche per la possessività come antidoto alla solitudine. L’esortazione a educare all’amore vero, "che cerca solo il bene dell’altro", è centrale in questo contesto.

Ma Cecchettin è anche un ingegnere informatico che di mestiere sviluppa software, e nessuno meglio di lui può sapere quale ruolo cruciale rivesta la tecnologia in tutto questo. Oltre a connetterci in modi straordinari, sostiene,

Spesso purtroppo ci isola e ci priva del contatto umano e reale. È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di trovare la capacità di ascoltare ed essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto. 

Quindi, la comunicazione autentica, oltre la tecnologia, è la chiave per instaurare quel dialogo solo attraverso il quale può realizzarsi l’aspirazione a un amore sano, che tenda a realizzare il bene dell’altro oltre che a soddisfare il desiderio di essere visti connaturato in ognuno di noi. Parole importanti vengono rivolte alla scuola: nel discorso viene posta enfasi sulla necessità di “investire in programmi educativi che ci insegnino il rispetto reciproco e l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo, per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza”. Per educare alla relazione costruttiva e alla gestione dei conflitti è necessario coinvolgere figure altamente specializzate, che di certo non mancano nei dipartimenti di scienze umane e nel servizio sanitario nazionale.

Tuttavia, perché queste figure possano contribuire al processo educativo di cui parla Cecchettin è necessario uno sforzo a livello istituzionale, al netto delle parole vuote e dannose che abbiamo ascoltato recentemente su una ipotetica educazione affettiva. Si tratta di stanziare fondi per mobilitare personale formato senza che vi siano interferenze ideologiche, cosa che al momento sembra irrealizzabile, visto che se c’è una parte che rema contro l’autentico cambiamento di cui parla Cecchettin è proprio quella che attualmente governa questo paese.

Parole particolarmente dure sono rivolte al sistema mediatico, che in queste ultime settimane ha dato il peggio di sé. Riferendosi di certo alla propria esperienza personale, Cecchettin afferma che

La diffusione di notizie sensazionalistiche non solo alimenta una sfera morbosa, dando spazio a sciacalli complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la determinazione di chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli, solo perché dicono qualcosa con cui non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere, perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce solo sentendoci tutti coinvolti, anche quando sarebbe facile sentirsi assolti. 

Si tratta di una poderosa staffilata che mette in luce tutte le carenze dei media, la totale assenza di rispetto verso le vittime, il costante sottrarsi alla responsabilità di facilitare una comunicazione su cui si possa costruire senso, e l’insistenza al contrario nell’inquinare il discorso pubblico. Il tutto con l’obiettivo di generare profitto, nel migliore dei casi, e nel peggiore di far pendere la bilancia politica da un solo lato in tempi di campagna elettorale.

Questo discorso così mirabilmente strutturato, classico e posato, si rivolge quindi anche alle istituzioni, a cui Cecchettin chiede di affrontare in modo unitario il flagello della violenza di genere, di collaborare con le forze dell’ordine e la scuola, non verso un inasprimento delle misure repressive ma, al contrario, fornendo risorse e strumenti a entrambi per potere lavorare verso un unico obiettivo: debellare la violenza di genere. Il fatto che Cecchettin evidenzi la necessità di risorse è molto significativa: dietro l’inazione delle forze dell’ordine vi è anche un’endemica carenza di fondi e personale, che nei casi in cui si verifichi la necessità di un intervento porta a sottovalutarne l’urgenza. Non si tratta quindi unicamente di diffusa cultura patriarcale, ma anche di volontà politica di non rafforzare quegli elementi della società che sono centrali nella lotta contro il femminicidio.

Il finale del discorso di Gino Cecchettin acquista una cifra lirica che colpisce al contempo per la sua semplicità e la sua forza. Tramite i versi di una poesia molto immediata del poeta Khalil Gibran, dal titolo Il vero amore, la famiglia affida il saluto dell’amata figlia a parole intrise di una saggezza antica e per questo universale. Una lirica che vale la pena di citare per intero, perché questi versi si prestano ad ammonimento per chi sa leggere attraverso la parola poetica e a messaggio di speranza per tutti coloro che riescono a vedere in questa tragedia un inizio e non una fine:

Il vero amore non è né fisico né romantico. | Il vero amore è l'accettazione di tutto ciò che è |è stato, sarà e non sarà. | Le persone più felici non sono necessariamente | coloro che hanno il meglio di tutto, | ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno. | La vita non è una questione | di come sopravvivere alla tempesta, | ma di come danzare nella pioggia.

Il messaggio di speranza di Gino Cecchettin e dei suoi figli Elena e Davide è fra i più limpidi che abbiamo ascoltato di recente: “Io non so pregare ma so sperare, insieme a tutti voi che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle vostre vite, e un giorno possa germogliare e produca il suo frutto di perdono e di pace”.

 A dispetto di chi ogni giorno dissemina fiumi di parole di odio e di vendetta, queste riflessioni aprono a una prospettiva di riflessione collettiva e di convivenza civile di cui si sente una profonda mancanza, data l’assenza di figure pubbliche che incarnino la dimensione della collettività nella sua espressione forse più alta che è quella rituale. A fronte di un vuoto richiamo a valori astratti, il discorso con cui la famiglia Cecchettin ha deciso di salutare la figlia si dimostra concreto, operativo, programmatico, ed è proprio questo l’aspetto che più di ogni altro, più della commozione e della tragedia, può innescare la scintilla di quel cambiamento vagheggiato da molti ma mai realmente voluto.

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(Immagine anteprima: grab via YouTube)

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