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La lotta femminista nel 2021 è ancora una lotta per la sopravvivenza

22 Marzo 2021 7 min lettura

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La lotta femminista nel 2021 è ancora una lotta per la sopravvivenza

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di Giulia Blasi

Sarah Everard stava tornando a casa. Erano le nove di sera del 3 marzo 2021, lei era stata a casa di un’amica, a Clapham, nella zona sud di Londra. Le telecamere di sicurezza l’hanno ripresa un’ultima volta intorno alle nove e mezza, poi è scomparsa. Il suo corpo è stato ritrovato il 9 marzo, abbandonato dentro un sacco in un villaggio del Kent.

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Chi si domanda a cosa servano le lotte femministe nel ventunesimo secolo deve solo pensare a questo: a una donna che torna a casa da sola, e non sa se ci arriverà viva. In tutto il mondo, le donne devono vedersela con l’idea che la violenza nei loro confronti sia inevitabile, un fenomeno naturale come la pioggia o la grandine, qualcosa da cui ci si può proteggere ma che non si può eliminare. Come se l’assassino di Everard non avesse preso la decisione di ucciderla ma avesse agito spinto da una forza sovrannaturale, irresistibile. Come se l’unica cosa da fare per una donna fosse chiudersi in casa, sperando che il suo aguzzino non viva lì dentro con lei. 

È il 2021, e stiamo ancora lottando per i diritti di base, come se la loro negazione fosse uno sfortunato incidente e non il risultato di una perdurante marginalità legata a un sistema iniquo, modellato per intero intorno allo sguardo, alle necessità e alle priorità maschili, che tratta le donne e le minoranze (due sottoinsiemi che spesso si sovrappongono) come problemi, temi, cose di cui occuparsi a tratti e sempre a posteriori, quando va bene. Una società che non mette le donne al centro né permette loro di concorrere alla pari alla creazione delle regole d’ingaggio. Una società in cui una minoranza di individui – maschi, bianchi, eterosessuali, cisgender, preferibilmente anziani e borghesi – opera in un regime di sostanziale dittatura culturale, sostituendosi a ogni altra esperienza nel definire la scala delle priorità. 

Non siete convinti? Tralasciamo per il momento la vexata quaestio delle donne in politica, che pure è una cartina al tornasole molto efficiente. Andiamo a questioni, per così dire, più specifiche dell’esperienza femminile. Negli ultimi mesi sono ben quattro – Umbria, Marche, Abruzzo e Piemonte - le regioni italiane che hanno varato norme e provvedimenti volti a limitare l’accesso all’aborto, un servizio basilare per la salute delle cittadine già messo in crisi da un numero altissimo di medici obiettori: una di queste regioni è a guida femminile. Se le donne del terzo millennio devono ancora lottare per poter interrompere una gravidanza in maniera sicura e legale, è perché anche nelle società più avanzate il controllo dei corpi in grado di generare è considerato una priorità, e la scelta di proseguire o meno una gravidanza non è lasciata a chi quella gravidanza la deve portare avanti, con le conseguenze del caso, ma viene normata a monte dalla collettività. Una sottrazione di sovranità sul proprio corpo che avviene nel momento stesso del concepimento: chi concepisce non può più disporre di sé, ma deve attenersi alle decisioni della collettività su quello che può e non può fare, e questo permesso è sempre vincolato a un giudizio sul comportamento sessuale e sull’emotività agganciata all’interruzione di una gravidanza. Un aborto – se sofferto, se arrivato a valle di una lacerante decisione personale, se vissuto come un lutto, se impossibile da evitare e giudicato a larga maggioranza “necessario” – viene concesso. Il secondo o il terzo non sono più considerati decisioni individuali ma abusi, oltraggi alla collettività che così generosamente ti ha concesso di disporre del tuo utero. L’aborto senza rimorsi o sofferenza è una narrazione troppo centrata sull’esperienza femminile: pertanto va soppressa, rimossa, negata.

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Basta un cambio di indirizzo politico, un governo di destra ultraconservatrice, e il diritto all’aborto si rivela per quello che è: una concessione del sistema patriarcale, revocabile a seconda della convenienza politica o dell’ideologia del momento, come dimostrato anche dal recente ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne, che secondo Erdogan andrebbe a minare la stabilità familiare e favorirebbe i divorzi. Un sistema che lasciasse alle donne la piena disponibilità dei loro corpi non si sognerebbe di mettere in discussione la loro facoltà di decidere come, quando e se diventare o meno madri, e tantomeno il loro diritto a sottrarsi alla violenza.

La lotta femminista nel 2021 è ancora, alla base, una lotta per la sopravvivenza. In Irlanda del Nord, in Argentina, in Polonia, dove la questione del diritto all’IVG è attualissima, ma anche nel resto del mondo, quando si parla di violenza maschile contro le donne. Un argomento che è quasi impossibile sollevare senza che il genere responsabile di questa violenza si sollevi per chiedere assoluzioni individuali. Nei giorni successivi alle proteste nel Regno Unito per la morte di Sarah Everard e per il diritto delle donne di esistere senza essere ammazzate, i social network sono stati invasi dall’hashtag #NotAllMen, con cui gli uomini chiedevano di essere esentati dall’accusa di essere degli stupratori. Che la barra fosse bassina ce ne eravamo accorte, se per sentirsi a posto il maschio della specie chiede solo che gli venga riconosciuto di non aver mai fatto violenza a nessuna (che sia vero è un altro discorso), ma questa reazione non è avvilente solo per quello che rivela, ovvero la totale assenza di senso del ridicolo di chi per l’ennesima volta viene a chiedere un biscottino perché è tanto un bravo bambino. È avvilente perché no, vero, non tutti gli uomini: ma molti, moltissimi, e indistinguibili dagli altri, e né gli uni né gli altri sono disponibili (se non in un numero ancora molto limitato di casi) a mettere in discussione il proprio privilegio sociale, a farsi carico di risolvere il problema della violenza maschile agendo su di sé e sugli altri con un’azione di autocoscienza ed educazione reciproca che richiede un investimento, anche economico, a più livelli. Mentre lo scrivo mi viene da ridere: l’uomo accusato di avere ucciso Sarah Everard, Wayne Couzens, è un agente della Metropolitan Police, il corpo di polizia londinese. Un uomo pagato, letteralmente, per impedire lo stesso genere di crimini che avrebbe commesso. Era già indagato per atti osceni, ma non era stato sospeso dal servizio. Alla veglia in memoria di Everard (organizzata e poi disdetta a Clapham Common, ma alla quale erano presenti migliaia di donne) i colleghi di Couzens hanno ammanettato e portato via diverse donne presenti. La giustificazione? Violazione delle norme anti-COVID. Norme non valide, evidentemente, per i tifosi dei Glasgow Rangers che pochi giorni prima avevano sfilato scortati dalla polizia. Calcio, sì. Veglia di protesta perché rischi di essere ammazzata per strada da un poliziotto, no.

Sono questi i problemi? Sono questi, e altri ancora, e tutti si tengono insieme. La società del capitale, che attacca cartellini del prezzo a ogni essere vivente, non si è mai preoccupata troppo di suddividere il carico domestico in un modo che fosse meno penalizzante per un genere solo, e non si sta occupando affatto – se non in maniera del tutto superficiale e inefficace, con bonus irrisori e nessuna riforma strutturale – di come la pandemia abbia reso questo carico insostenibile, costringendo le donne all’improvviso prive di aiuti esterni ad abbandonare il lavoro. I numeri non mentono: nel computo di chi ha perso il lavoro durante la pandemia del 2020, le donne sono il doppio degli uomini. Siamo ancora lì, a difendere il diritto di lavorare fuori casa, di essere persone e non funzioni: a chi lo fa notare viene risposto che “le donne dovrebbero educare i compagni a fare la loro parte”, perché questo saremmo, educatrici eterne, destinate a farci carico di esseri umani immaturi e incapaci di badare a sé stessi, ma misteriosamente anche in grado di reggere le sorti del mondo.

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A questi problemi sempreverdi se ne sono aggiunti altri, man mano che la lotta femminista è mutata, inglobando altre istanze: quella ambientalista, per esempio, dato che è dimostrato che le donne sono le prime vittime del cambiamento climatico. La critica radicale al capitalismo, un sistema economico e culturale costruito sulle disuguaglianze, è sempre più forte e vitale negli ambienti femministi e si intreccia naturalmente con la necessità di agire ad ampio spettro su ogni forma di disuguaglianza. L’idea che piazzare qualche donna (rigorosamente bianca, cis, borghese, laureata: come se il diritto all’istruzione fosse davvero garantito e le marginalità non esistessero, e la discriminazione fosse basata soltanto sul genere) in posti di potere basti per cambiare le cose “dall’interno” puzza di polvere come certe soffitte. Nei giorni in cui il Partito Democratico era in subbuglio per la mancata nomina di donne fra i ministri, in molte (anche all’interno del partito stesso) hanno fatto presente che prendersi i sottosegretariati promessi a compensazione sarebbe stato come addentare la bistecca dondolata davanti al naso dei cani per farli tacere. L’ennesimo atto di sudditanza alla logica della cooptazione, raccontato dalla stampa come un subbuglio correntizio, ogni donna ricollegata con diligenza al suo capocorrente effettivo o percepito: che non passi l’idea, per carità, che una donna agisca per moto spontaneo. Ed eccoci qua, al cospetto dell’ennesimo segretario maschio bianco etero cisgender borghese. Anche oggi il partito lo cambiamo dall’interno domani.

Il senso delle lotte femministe nel 2021 è tutto diverso e sempre uguale. Ha sempre a che vedere con la fatica di affermare la legittimità di una visione, qualunque essa sia, contro la falsa neutralità della dominanza maschile, e deve affrontare sempre gli stessi ostacoli: la violenza, il ridicolo, la delegittimazione. Sono lotte che a volte riescono a spiccare il volo, ma che troppo spesso sono costrette a tornare a terra, alla quotidianità: a una donna con una chiave stretta nel pugno, fra indice e medio, che cammina in fretta sperando di arrivare a casa sana e salva.

Foto anteprima per gentile concessione di Non una di meno

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