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India, la legge sulla cittadinanza è un attacco alla democrazia: le proteste infiammano il paese e le donne sono in prima linea

29 Dicembre 2019 4 min lettura

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India, la legge sulla cittadinanza è un attacco alla democrazia: le proteste infiammano il paese e le donne sono in prima linea

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"Perchè in molti si domandano come mai ci sono così tante donne che partecipano alle proteste? Le donne protestano da sempre, protestano da una vita! Ve ne siete accorti ora?" A parlare così, come riporta Al Jazeera, è Salma Kahn, 20 anni specializzanda alla Jamia Millia Islamia University nella capitale indiana. Salma è una delle studentesse che ha partecipato alle manifestazioni del 16 dicembre scorso nel campus universitario.

Le proteste contro la controversa legge sull'emendamento alla cittadinanza (CAA), che esclude i musulmani dal registro nazionale dei cittadini (NRC), non si fermano ormai da tre settimane. Alcune delle immagini che hanno colpito maggiormente sono proprio quelle delle donne in prima linea, mentre ballano e cantano sfidando il potere, mentre sfilano tenendo in mano cartelli satirici, o mentre proteggono i loro compagni dalla brutalità della polizia, o distribuiscono rose agli agenti e si radunano numerose in luoghi pubblici in tutto il paese.

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Le giovani studentesse che come Salma stanno protestando in questi giorni lo fanno per far sentire la loro voce contro la volontà delle famiglie, che inizialmente si erano opposte anche ai loro studi.

"I miei genitori avrebbero preferito spendere soldi per il mio matrimonio piuttosto che per la mia istruzione", dice Salma, che quattro anni fa ha finalmente convinto la sua famiglia a permetterle di sostenere il test di ammissione all'Università.

Il numero di donne che frequenta l'Università in India è aumentato negli ultimi anni fino ad arrivare al 47,6 per cento degli studenti attualmente iscritti, ma ancora oggi l'aspettativa sociale è che le donne stiano lì a guardare passivamente quando si tratta di proteste politiche.

Swati Sinha, 24 anni, una studentessa di Lucknow che ha partecipato a tutte le marce di protesta a Nuova Delhi dal 12 dicembre, il giorno dopo l'approvazione della legge sulla cittadinanza, racconta che i genitori vorrebbero che lei si sposasse presto: "Ma prima di tutto, dobbiamo lottare perché valga la pena avere una famiglia in questo paese. Ora o mai più ".

La determinazione e l'impegno di giovani donne come Salma e Swati sono cresciuti sempre più negli ultimi anni. Il movimento anti-stupro del 2012 in India è riuscito ad ottenere un sostegno di massa e a suscitare la consapevolezza di molti studenti adolescenti. Da allora, la partecipazione delle donne alle manifestazioni è cresciuta proprio grazie l'aiuto di movimenti guidati dalle donne stesse.

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Molte di loro si rifanno al collettivo di donne indiana, Pinjra Tod (Rompi la gabbia), formato da studentesse ed ex studentesse universitarie, che lottano per regolamenti meno repressivi negli alloggi universitari destinati alle donne. Con la scusa della sicurezza infatti nei college viene imposto il coprifuoco intorno alle 17.30, restringendo la loro libertà di frequentare luoghi pubblici. La campagna organizzata dal collettivo con le studentesse che hanno occupato le strade di notte per protesta si è diffusa rapidamente in tante università ed è stata un successo.

"Molti media oggi parlano di prima volta per noi che stiamo manifestando - dice Salma - ma dove erano quando in questi anni abbiamo protestato contro il coprifuoco, contro la violenza sessuale, per il #metoo? Notano solo le proteste guidate da uomini? Le studentesse che stanno protestando oggi sono ben addestrate perché lo fanno da anni".  Un certo numero di donne è a capo di una infrastruttura segreta a supporto delle proteste nei campus universitari: si occupano del cibo, dei microfoni, dei cartelli, e delle liste con i contatti dei dottori e degli avvocati e delle stazioni di polizia per aiuti di emergenza. Lavorano 24 ore su 24 per diffondere messaggi sui luoghi di protesta e sulle azioni della polizia, raccolgono fondi.

Quando diversi studenti sono stati picchiati dalla polizia il 15 dicembre all'Università di Jamia, le studentesse dell'ostello del campus per ragazze di Jammu e Kashmir hanno fornito il primo soccorso a circa 150 manifestanti. Nell'agosto di quest'anno, la regione contesa è stata divisa in due territori dal governo indiano. Il blackout di Internet e delle comunicazioni continuano in Kashmir, ormai da oltre 140 giorni. È il blocco di Internet più lungo mai imposto da una democrazia.

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"Siamo cresciuti con la brutalità della polizia e dell'esercito per tutta la vita. - dice Bushra Khanum, 21 anni, uno studente post-laurea del secondo anno che vive nel college - Sappiamo come trattare i sintomi da gas lacrimogeni, le ustioni della pelle e le ferite da manganello".

Al Jazeera riporta anche la testimonianza di una dottoranda di 24 anni, Najima Begum, che ha dovuto lottare contro i genitori per poter studiare. Najima è cresciuta in Manipur, dove come il Kashmir, vige il controverso Armed Forces Special Powers Act che consente alle forze di sicurezza di arrestare persone, perquisire qualsiasi locale e sparare a chiunque godendo di totale impunità legale. Da anni sono segnalate violazioni dei diritti umani tra cui omicidi, sparizioni e violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza. New Delhi è stata per Najima la sua via di fuga, ma avendo vissuto da vicino così tanta violenza ha sempre cercato di evitare qualsiasi impegno politico. Ma questa volta non ha potuto fare a meno di partecipare.

Najima è una ricercatrice in biotecnologia e i suoi possibili effetti sui poveri. Parte del suo lavoro sul campo prevede visite all'insediamento di Rohingya vicino a Kalindi Kunj, a soli 5 km dal campus universitario. Dice che da quando è stata approvata la CAA, c'è un senso di sconforto tra le ragazze che vivono nell'insediamento.

"Un paio di loro hanno aspettato negli ultimi due anni a presentare domanda di ammissione, ma come rifugiati, non hanno le carte in regola per farlo perché non sono cittadine indiane".

Secondo gli ultimi dati del ministero degli Interni, ci sono più di 14.000 Rohingya a maggioranza musulmana registrata dall'UNHCR in India che sono fuggiti dalla persecuzione religiosa in Myanmar. Tuttavia, le agenzie di sicurezza stimano che il numero di Rohingya che vivono illegalmente in India sia di 40.000.

"Con il Citizenship Act, ora sarebbe impossibile per molte di loro ottenere un'istruzione universitaria a causa della loro religione. Molte potrebbero fare la fine delle loro famiglie deportate", dice, riferendosi a una famiglia di cinque persone deportate, rimandate in Myanmar a gennaio.

Najima ha aderito alle proteste perché "capisce il significato dell'istruzione superiore nella vita di una donna".

“Non abbiamo paura del governo o del primo ministro. Siamo pronte a prendere un proiettile nel petto. Sappiamo come lottare per i nostri diritti". ha detto Nadia Khan, una casalinga di 35 anni, alla Reuters.

Yadav, 20 anni, è indù, ma ha sentito il dovere di unirsi alla protesta: tutti gli indiani, dice, dovrebbero opporsi con forza a questa legge. "Quello che sta succedendo non riguarda una sola comunità. Quello che stanno facendo oggi ai musulmani potrebbe succedere a chiunque domani".

Il giornalista e scrittore, Samanth Subramanian, in un commento su The Atlantic, scrive che i manifestanti stanno cercando di salvare un'India liberale e impedire al fanatismo e all'intolleranza di diventare la legge del paese. Una folla sempre più numerosa, da ormai tre settimane, invade le strade di diversi stati, nonostante le brutalità della polizia, che ha arrestato molte persone, tra cui minorenni, senza permettere ai loro avvocati di rappresentarli. Una reazione da parte dei cittadini trasversale, che coinvolge un'ampia parte dell'opinione pubblica e che di certo il presidente Modi non si aspettava.

"Per la prima volta - scrive Matteo Miavaldi su Il Manifesto -  l’eccezionale macchina della propaganda modiana – capace, tra le altre, di far digerire alla popolazione una drammatica demonetizzazione nel 2016 senza quasi incorrere in proteste – si trova in estrema difficoltà. La strategia del divide et impera, con cui il Bjp è sempre riuscito a fiaccare i moti popolari, questa volta sembra non scalfire un blocco di opposizione estremamente ampio: studenti, dalit, comunisti, progressisti, accademici – tra cui spicca lo storico e biografo del Mahatma Gandhi, Ramchandra Guha, arrestato e rilasciato dopo poche ore giovedì – hindu, musulmani, cristiani, anziani, giovani".

Nell'Uttar Pradesh, uno stato di oltre 200 milioni di persone, è stato imposto un divieto generale di assemblea pubblica e Internet è stato bloccato, nel tentativo di impedire così le manifestazioni. E invece le proteste ci sono state lo stesso, ovunque. Venticinque persone sarebbero morte negli scontri con le forze dell'ordine e diverse sono rimaste ferite. Lo Stato ha confiscato le proprietà senza nemmeno un giusto processo, gli agenti hanno fatto irruzione nelle case, distruggendo ogni cosa.

"Però le proteste - scrive Subramanian - sono diventate il punto più alto da anni della democrazia indiana". La legge che le ha scatenate è stata presentata dal presidente Modi come un atto di benevolenza, ma di fatto decreta chi ha il diritto di appartenere all'India e chi no. Un obiettivo che il partito di Modi, il Bharatiya Janata Party (BJP), non ha mai nascosto: trasformare l'India da uno stato secolare in una nazione indù. "In pratica, ciò si è tradotto in un palese disprezzo per 182 milioni di musulmani, la più grande minoranza religiosa del paese. Questa legge sulla cittadinanza, che sancisce la discriminazione, ha dato a quell'odio carne e ossa... Il fanatismo del BJP mette in pericolo la Costituzione indiana". Gli indiani sono davanti a una sfida: devono decidere cosa vogliono che sia il loro paese.

Quando Modi è stato eletto nel 2014 era ben nota, sottolinea sempre Subramania, la sua reputazione di nazionalista indù di destra. Ben si sapeva del suo fallimento nel fermare (se non li ha addirittura sostenuti) gli orribili pogrom anti-musulmani nel 2002, quando ricopriva la carica di chief minister del Gujarat. Con lui al governo le violenze contro i musulmani sono aumentate, la storia, la cultura è stata manipolata, distorta in nome del fondamentalismo indù. Nonostante la crisi economica e sociale, Modi a maggio è stato rieletto, con un mandato ancora più ampio. Da quel momento ha revocato la status del Kashmir, ha spento Internet, arrestato diversi oppositori politici. All'opinione pubblica sembrava che tutto ciò non interessasse. Ma poi sono arrivate le proteste di dicembre. Numerose, partecipate, eterogenee, sono la speranza che si possa contrastare l'avanzata del fondamentalismo indù. "L'esperienza di questi anni, ovviamente, ci dice che tutte queste proteste potrebbero non portare a nulla - conclude lo scrittore - Modi ha una maggioranza parlamentare per altri quattro anni e mezzo e il suo partito potrebbe essere in grado di convincere abbastanza elettori a mantenerlo al potere. Ma alla fine di questo orribile decennio, è travolgente essere tra questi manifestanti, o guardarli o leggere su di loro". La democrazia sotto attacco reagisce e resiste.

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Anche per Arundhati Roy, una delle più famose scrittrici  e attiviste indiane, queste proteste sono un segno di grande speranza. Roy si è unita alle proteste in New Delhi mercoledì e ha esortato gli indiani a proteggersi a vicenda, a difendersi da qualsiasi oppressione da parte della polizia e delle forze di sicurezza.

foto via Al Jazeera

"Sono fiduciosa - ha detto la scrittrice durante un'intervista ad Al Jazeera - perché questo movimento comprende intellettualmente e comprende emotivamente e appassionatamente l'orrore di questo programma del suprematismo Hindu che Modi, il BJP, il RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh, un'organizzazione suprematista indù) vendono da così tanti anni". "Hanno solo questa come unica risposta a ogni problema: economico, sociale, educativo, qualunque esso sia. L'idea è di aumentare l'odio. E improvvisamente i giovani stanno dicendo: scusate, ma non ce la beviamo. E questo mi rende fiduciosa".

Come Sidharth Bhatia, il direttore e fondatore del sito di notizie indiano indipendente, The Wire ha scritto: "Arriva un momento nella storia di una nazione in cui il silenzio non è più un'opzione. Quando neutralità, ambiguità, discrezione sono atti di bramosia. Laddove alzarsi in piedi e persino protestare diventa un dovere morale, perché è coinvolto molto più dell'interesse personale, o addirittura del principio - questo è un punto di inflessione in cui sono in gioco l'anima e l'esistenza stessa dell'India".

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