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DDL Zan, un dibattito pubblico cinico e disonesto

7 Luglio 2021 9 min lettura

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DDL Zan, un dibattito pubblico cinico e disonesto

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di Yàdad De Guerre

Il dibattito pubblico intorno al disegno di legge S.2005 (d’ora in poi DDL Zan) sta dimostrando che, in Italia, chiunque può scoprirsi persona esperta sui temi legati al genere e alla sessualità. Per prendere parola sui grandi media e persino formulare le più disparate ipotesi giuridiche, è sufficiente avere ricoperto o ricoprire un ruolo di potere da qualche parte, poco importa dove. Proprio in virtù di questo ruolo, è poi sufficiente universalizzare la vaga idea che si ha del proprio sé nel mondo. Basta il principio di autorità per considerarsi, ed essere considerati, autorevoli su questioni che toccano non soltanto tutte le persone, ma in particolare quelle che, rispetto al genere e alla sessualità, subiscono le relazioni di potere e le asimmetrie presenti nella società. Come spiegarsi, altrimenti, la sovraesposizione compiaciuta di discorsi errati, di strategie retoriche banali ma stranamente efficaci, di editoriali meschinamente confusi, di note verbali passivo-aggressive?

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Nell’ultimo anno circa, da quando il DDL Zan è stato elaborato come testo base per la discussione alla Camera dei deputati, sono aumentate le prese di posizione poco informate, galvanizzate da un tema ritenuto nuovo. E poco importa se è dal 2007 – dunque da quattordici anni – che il Parlamento italiano discute l’estensione della legge Mancino all’«orientamento sessuale» e all’«identità di genere». Prendiamo, per esempio, l’audizione in Commissione giustizia del Senato di Antonia Arslan, docente di letteratura e scrittrice. Parole riprese, in altra forma, anche in un articolo scritto per Avvenire: «Be’, ringrazio di essere stata invitata in questa circostanza perché ritengo che questa […] proposta di legge sia importante, a suo modo, e però anche foriera di grandi problemi. Io, ehm, […] avendo letto solo qualche articolo di giornale, non me ne ero realmente interessata. Poi ho cominciato a capire che, come da un buon titolo di giornale, giuste erano le intenzioni, probabilmente, ma la legge è sbagliata. Il testo della legge è estremamente […] complicato e… estremamente, estremamente, foriero di qualche cosa che non è detto esplicitamente».

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Tra le poche a confessare fin da subito la sua inesperienza davanti a un simile DDL, Arslan ha il merito di aver fatto luce sulla strategia – ricercata da partiti politici e da diversi media – del deliberato inquinamento del dibattito. Arslan, cioè, ha dichiarato con serenità di fondare la propria opinione sull’indifferenza rispetto a questi temi, nonché sulla mera lettura di articoli di giornale. È riuscita a capire «qualche cosa che non è detto esplicitamente» in un testo ritenuto «estremamente» complicato e, grazie a queste illuminazioni, ha deciso di prendere la parola in Commissione giustizia al Senato perché cittadina «che legg[e] e che pens[a]», come specificato nell’articolo per Avvenire.

Lo stesso vale per il sociologo Luca Ricolfi, che in un articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 maggio 2021 – a pochi giorni dalla sua partecipazione al programma di Rete4 Quarta Repubblica – ha scritto: «Ho cercato di capire come funziona il DDL Zan e, poiché non sono un giurista né sono dotato di un’intelligenza prodigiosa, ho impiegato circa una settimana per ricostruire la ragnatela di norme che esso introduce, spesso modificando leggi precedenti e articoli del codice penale». Come Arslan, ma in modo più furbo, Ricolfi ha fatto sfoggio senza problemi della propria incapacità di lettura della materia in senso generale (come testimonia anche l’inciso, legato al legislatore: «questa figura mitica del discorso politico»). Anche lui, tuttavia, ribadendo quanto detto a Quarta Repubblica, è riuscito a trovare l’implicito eversivo in una legge ritenuta incomprensibile. Per Ricolfi, infatti, il vero obiettivo del DDL Zan sarebbe l’imposizione del «politicamente corretto», nientemeno che un «cavallo di Troia» volto a rieducare sia le bambine e i bambini nelle scuole, attraverso l’istituzione della Giornata contro l’omolesbobitransfobia, sia «i reprobi» – cioè, tradotto, coloro che compiono atti di discriminazione o violenza ai danni delle persone LGBTIQ+ – attraverso l’«attività non retribuita a favore della collettività».

Secondo l’autodefinita «comparazione filologicamente puntuale», ancorché confusa nei nomi e nelle legislature, Ricolfi ha sostenuto che «le due vecchie proposte Scalfarotto-Zan [la C.245 del 2013] e soprattutto Zan-Annibali [la C.868 del 2018; in verità a prima firma Scalfarotto], sono del tutto esenti dalle critiche che oggi vengono rivolte al DDL Zan». Il sociologo omette che una prima proposta di legge sull’istituzione della «Giornata contro l’omofobia» risale al 2009, cioè addirittura undici anni fa, e che l’«attività non retribuita a favore della collettività» non è una novità del DDL Zan né in senso generale né rispetto alla, da lui citata, proposta di legge C.245, così come depositata nella precedente legislatura dal deputato Ivan Scalfarotto e prima che fosse emendata ormai otto anni fa.

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L’improvvisata analisi giuridica di Ricolfi, però, ha fatto breccia in determinati ambienti e persino negli interventi, scritti o orali, della giornalista ed ex componente della direzione nazionale del PD Marina Terragni, anche lei ospite di Quarta Repubblica nella puntata del 17 maggio 2021. Resa disponibile politicamente da Terragni anche sulle colonne de La Stampa, la linea tracciata da Ricolfi ormai due mesi fa è diventata la proposta emendativa di Italia Viva. Il tutto all’interno di un gioco scellerato fondato sul marchio di partito (grazie ai nomi di Scalfarotto e di Lucia Annibali) e che – volutamente – non tiene in considerazione la scarsa tenuta giuridica della proposta C.868 del 2018, già ricalcata sulla nefasta evoluzione della C.245 del 2013. Infatti, come rilevava Antonio Rotelli, già presidente di Avvocatura per i diritti LGBTI - Rete Lenford, in Commissione giustizia alla Camera nel maggio 2020: «Sempre in ossequio al rispetto del principio di determinatezza della norma penale, sarebbe invece preferibile non fare ricorso alle parole “omofobia” e “transfobia”, che si rinvengono nella solo proposta di legge n. 868 Scalfarotto, perché se nel linguaggio comune sono chiari i concetti recati da questi lemmi, essi pongono un problema di determinatezza della norma penale e soprattutto fanno riferimento a elementi psicologici dell’agente, il cui accertamento pone notevoli problemi, a differenza di “orientamento sessuale” e “identità di genere” che fanno riferimento a caratteristiche personali delle vittime».

Al contrario di Arslan e Ricolfi, Terragni non si è proposta mai come voce inconsapevole, tardiva o estranea ai tentativi di contrasto dell’omolesbobitransfobia. In un recentissimo articolo per la piattaforma Feminist Post, per esempio, ha addirittura affermato che «[a]lcune di noi studiano da molti anni la questione dell’identità di genere e l’impatto delle legislazioni gender friendly sulla società nel suo complesso e su donne, bambine e bambini in particolare. […] In breve, ne sappiamo moltissimo, ne sappiamo più di tutti». Convinta che bastino le tattiche fondate sulle esagerazioni, sulle provocazioni e sull’inanellamento di aneddoti più o meno veri e più o meno slegati tra loro, Terragni scriveva già un anno fa – e, dunque, prima che il DDL Zan fosse elaborato e presentato alla Camera – che il concetto di identità di genere non è il proprio definirsi in base al genere (come uomo, come donna, come persona non binaria…), così come chiunque lo intende ormai da decenni, bensì una vera e propria agenda politica, da aggiornare rispetto alle esigenze del momento. Per chi ne sa moltissimo, «più di tutti», è invece un qualcosa che «ha a che vedere anche con altre questioni, come l’utero in affitto» oppure con «i circoli Arcigay che chiedono la cacciata da Arci di Arcilesbica accusata di transfobia». È persino «il perno dell’ombrello transumano» sotto il quale trova posto nientedimeno che «l’ibridazione tra le specie» (no, davvero).

Già nel pezzo di Terragni del 12 giugno 2020, ripreso integralmente anche da International Family News (progetto dell’International Organization for the Family, cioè l’organizzazione anti-LGBTIQ+ e antiabortista che organizza il World Congress of Families), il concetto di identità di genere veniva indicato, a testo base mancante, come «l’architrave» di un DDL contro l’omolesbobitransfobia, poiché «funzionerebbe da cavallo di Troia» per una riforma della legge n. 164/1982 sulla rettifica degli atti anagrafici.

In verità, Terragni si colloca nel solco tracciato da molte voci cattoliche, come quella di Luisa Capitanio Santolini, ex deputata dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC) ed ex presidente del Forum delle Associazioni Familiari, una realtà antiabortista e pro-family che fa parte della rete messa su dall’ormai defunto Carlo Casini (il fondatore dei Centri Aiuto alla Vita e del Movimento per la Vita). Nel 2007, infatti, a neanche un mese dall’inizio della discussione in Commissione giustizia alla Camera dei deputati, Capitanio Santolini si oppose, da parlamentare, all’estensione della legge Mancino per «orientamento sessuale» e «identità di genere» secondo argomentazioni simili a quelle della giornalista milanese, tutte fondate sulla differenza sessuale e sull’«incontestabile dato biologico della distinzione tra uomo e donna».

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A distanza di quattordici anni dal 2007, cioè dall’anno che può essere considerato come uno spartiacque, anche in negativo, per la storia dei diritti LGBTIQ+ in Italia (quello dei DiCo e dei CUS, del Family Day, dell’avvio del primo ricorso alle aule di giustizia per vedersi riconosciuto il diritto al matrimonio egualitario), è impressionante ascoltare e leggere persone che si definiscono di sinistra combattere concetti teorici, ormai accolti nel linguaggio di vari paesi e di praticamente tutte le istituzioni internazionali, attraverso il ricorso al lessico della dietrologia spicciola: «qualche cosa che non è detto esplicitamente», un «cavallo di Troia», una modalità «surrettizia». Dipingendo come estremista un Partito Democratico assai moderato, che mai è riuscito a far sua la proposta politica del matrimonio egualitario, questi tentativi populisti – sia detto chiaramente: populisti – si reggono su un preciso capro espiatorio: i movimenti LGBTIQ+, se non proprio le persone LGBTIQ+.

Gli ultimi anni hanno visto la nascita di movimenti ferocemente anti-LGBTIQ+ che sulla parola «genere» hanno costruito deformazioni e mostrificazioni. Da ormai diversi anni, sono stati pubblicati studi sul funzionamento di questi movimenti, sia a livello nazionale (penso, in particolare, ai lavori di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo, di Leonardo Bianchi, di Claudia Torrisi) sia a livello transnazionale (penso ai lavori curati da David Paternotte e Roman Kuhar o a quelli di Neil Datta). Anche io ho dato il mio contributo nel tempo, con un blog chiamato Playing the Gender Card. Quando, nel 2015, iniziai a raccontare quei movimenti che, sulla scorta de L’ipotesi neocattolica di Prearo, oggi potremmo chiamare «neocattolici», afferrai la costruzione della cosiddetta «ideologia gender» – e la fortuna di un tale paradigma mostrificante in Italia – come un’articolazione diversa del reato di plagio, dichiarato incostituzionale nel 1981. Infatti, l’idea della manipolazione psicologica, tale per cui si esercita un potere che riduce in totale stato di soggezione, è uno dei cuori delle accuse mosse dalle voci «anti-gender». Come, per esempio, dimostra il rifiuto di adoperare concetti quali «genere» o «identità di genere» perché ritenuti cavalli di Troia dentro cui sono sapientemente nascoste agende politiche criminose.

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Il reato incostituzionale è il motivo per cui conclusi il dossier intitolato Di chi parliamo quando parlano di gender con un focus sulla figura di Agostino Sanfratello, uno degli accusatori di Aldo Braibanti, il partigiano omosessuale che fu condannato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Raccontato da Gabriele Ferluga in un suo testo e, recentemente, in un documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, il processo a Braibanti fu l’unico conclusosi con una condanna per plagio nell’Italia repubblicana, prima che il reato – di origine fascista – fosse ritenuto fuori dal perimetro costituzionale.

Ancora oggi, mi sembra ci sia un nesso profondo e inesplorato tra la rimozione collettiva della condanna di un intellettuale omosessuale per un reato fascista, incostituzionale, e l’ossessione omolesbobitransfobica di un paese che non è in grado di fare leggi a tutela delle persone LGBTIQ+, che ignora il rispetto dei diritti umani, che rilegge il significato dei diritti fondamentali e che da anni ripete ciclicamente gli stessi dibattiti, aumentandone la violenza, senza mai riuscire a mettere al centro le persone e i movimenti LGBTIQ+. Il ricorso alle idee di «politicamente corretto» e di «imposizione» di un pensiero minoritario ritenuto manipolatorio oppure alle immagini del «cavallo di Troia» non sono così distanti dal tentativo di articolare altrimenti il reato di plagio e la condanna di Braibanti. Alla base, mi sembra si dica: sì, sarà pure incostituzionale il plagio, però ora non è che voi persone LGBTIQ+ abbiate smesso, davvero, di plagiare le menti.

Immagine in anteprima: Silar, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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