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Rinunciare allo storytelling sarebbe un regalo ai potenti

9 Novembre 2015 4 min lettura

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Rinunciare allo storytelling sarebbe un regalo ai potenti

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Premessa. Avrei voluto commentare il post di Fabio Chiusi sullo storytelling punto su punto, ma mi sono imposto una piccola forma di disciplina interna che per ora, e a fatica, sto riuscendo a rispettare: nel dibattito pubblico o sei arbitro o sei giocatore. E allora, finché sono giocatore o molto vicino ai giocatori, sospendo le mie valutazioni. Siccome nell’articolo di Fabio ci sono un paio di riferimenti diretti al mio lavoro con l’agenzia Proforma (il riferimento alle slide su tutti), cercherò di non commentare quei passaggi ma di concentrarmi su tutto il resto.

A questo proposito entro subito in uno dei temi del post di Fabio: gli “stuoli di propagandisti da social network” che tentano di raccontare storie a favore del committente di turno mentre sono evidentemente ‘embedded’ fanno più danni che altro, perché il trucco è visibile: in quei casi essere più realisti del re penalizza sia il re sia i suoi cantori. Questo però non è storytelling; questa è propaganda (nell’accezione contemporanea, e dunque negativa, del termine) e neanche di grande qualità.

Voglio partire da quattro frasi del post di Fabio per provare a dire la mia:

“Lo storytelling come motore di cambiamento e manipolazione del consenso è un tentativo di escludere scientificamente la noia dal discorso politico e pubblico”

Condivido questo concetto, e per questo rilancio: se il mittente di un’azione di storytelling fosse un’organizzazione che combatte il cambiamento climatico, o che promuove la neutralità della Rete, bisognerebbe essere ancora contro lo storytelling? Io preferisco essere contro i ‘cattivi’ (definizione soggettiva, chiaramente) e contro tutte le forme di conflitto d’interessi tra politica e media, perché secondo me il problema non sta nella qualità delle storie fornite dalla maggioranza e dalle opposizioni, ma nell’ampiezza del megafono della maggioranza, che troppo spesso (e spesso in modo anti-democratico) è più grande rispetto a quello delle opposizioni.

“La storia viene prima del contenuto”

Provo a riportare le lancette del tempo indietro di cinque anni, probabilmente in uno dei pochissimi momenti in cui in Italia è sembrato che la politica potesse fare un salto in avanti sul fronte della “connessione sentimentale con il popolo”: il referendum del 2011. Cinque anni fa ha vinto una (bella) storia: era di opposizione, disponeva di mezzi economici scarsissimi, non aveva sufficiente spazio su principali media nazionali. Eppure ha vinto.

È successo perché i cittadini hanno utilizzato i social media per comunicare e per informarsi reciprocamente aggirando il buio scientifico di buona parte dei giornali e delle televisioni sotto il governo Berlusconi, realizzando la più matura forma di disintermediazione che l’Italia “digitale” ricordi, ma soprattutto perché la combinazione dei temi (nucleare più acqua più legittimo impedimento) ha creato un “popolo” eterogeneo ma fortemente unito in quella battaglia. Il referendum del 2011 ci dice due cose: il contenuto viene sempre prima della storia, anche se a volte piace pensare il contrario; lo storytelling è un’arma che in alcune fasi della storia può servire più alle opposizioni che alla maggioranza.

Il contrasto del potere richiede creatività, coraggio e probabilmente una buona dose di allegria (il No al referendum cileno indetto nel 1968 da Pinochet sulla sua presidenza è un altro esempio di questa mia convinzione). Come dice John Oliver (citato proprio da Fabio Chiusi nel suo lavoro divulgativo sulla Net Neutrality qui su Valigia Blu) “se vuoi fare qualcosa di male, nascondilo dentro qualcosa di noioso”: l’allegria, uno degli strumenti principe dello storytelling, è di fatto una potenziale arma di opposizione, come quindi potrebbe esserlo lo storytelling nel suo complesso.

Dichiararsi contro lo storytelling tout court rischia di scippare l’opposizione di uno dei pochi mezzi per squarciare il racconto delle maggioranze. Dice Christian Salmon che “la guerra delle narrative è una guerra asimmetrica”, e la frase può significare due cose, entrambe vere: la maggioranza può schiacciare la minoranza a colpi di storie, le minoranze possono sgambettare e far cadere la maggioranza, sempre a colpi di storie. Il successo mediatico e simbolico della scelta del "Rivoltoso Sconosciuto", capace di "fermare" i carrarmati in Piazza Tienanmen a Pechino il 5 giugno 1989 può essere considerata una valida dimostrazione del fatto che non tutte le storie hanno necessariamente un finale segnato.

“Ci si indigna più per un tweet su Pasolini che per una modifica all’architettura costituzionale”

Qui ho due obiezioni. Forse ciò che dice Fabio accade all’interno di una nicchia di dibattito online, mentre nel resto d’Italia è più probabile che ci si indigni né per Pasolini né per l’architettura costituzionale. Online ci si indigna più per Pasolini che per l’architettura costituzionale perché, banalmente (e solo apparentemente), sono richieste minori competenze e conoscenze specifiche per potersi indignare su Pasolini: in fondo sono opinioni, ognuno di sente libero di dire la sua.

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Per generare indignazione sull’architettura costituzionale, ammesso che la sola indignazione serva a qualcosa e ammesso che ci si debba indignare (ma qui entro in conflitto di interessi e quindi mi taccio), serve ancora una volta lo storytelling e serve allo stesso modo alla maggioranza e all’opposizione, unite in modo speculare dallo stesso obiettivo: spiegare ai cittadini cosa cambierà alla propria vita, da domani e nei prossimi anni, con le modifiche dell’architettura costituzionale.

“Ormai la parola “storytelling” è finita (evidente contrappasso) all’interno di una precisa ideologia dello storytelling”

Vero: la parola storytelling è diventata una specie di totem ideologico. E questo totem ideologico dimostra, paradossalmente, il potere dello storytelling: se il significato della parola sta conoscendo un progressivo slittamento verso un’accezione negativa (che potrebbe essere riassunta in: lo storytelling è la manipolazione da parte della maggioranza nei confronti di un popolo incapace di difendersi) è anche grazie alla capacità degli “oppositori” di raccontare una storia che per il momento risulta più convincente.

La scelta di intitolare “Contro lo storytelling” un articolo che raccoglie anche contributi di pensatori che come Bernays che, negli anni ’20, sosteneva (a mio avviso correttamente) che queste tecniche di comunicazione risultano positive laddove servissero ai cittadini per informarsi meglio altro non è, a mio avviso, che un tentativo ben articolato di storytelling contro lo storytelling. Ma è pur sempre storytelling.

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