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I piani di Netanyahu su Gaza tra nakba e allargamento regionale

5 Gennaio 2024 5 min lettura

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I piani di Netanyahu su Gaza tra nakba e allargamento regionale

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C’è un protagonista occulto, nelle più recenti settimane della guerra israeliana su Gaza. È il tempo, il “fattore tempo”. E riguarda in particolare proprio il governo di Tel Aviv. Può sembrare paradossale, in una guerra su Gaza fatta soprattutto di bombardamenti estesi, indiscriminati, seguiti da una invasione di terra altrettanto distruttiva. Può sembrare paradossale, cioè, che una guerra che fa dello spazio distrutto il centro della sua strategia abbia proprio nel “fattore tempo” il suo punto di debolezza. 

Eppure così è. Il governo di emergenza guidato da Benjamin Netanyahu si è costituito attorno alla guerra su Gaza, da condurre per “cancellare Hamas”. Dopo tre mesi di bombardamenti a tappeto, il risultato certo è la distruzione di quartieri residenziali, ospedali, scuole, università, panifici, depositi di acqua, strade: tutto ciò che serve per vivere alla popolazione civile di Gaza. Il numero delle vittime – oltre 22mila i palestinesi uccisi in tre mesi, senza contare le migliaia ancora sotto le macerie, gli oltre 50mila feriti, e i quasi due milioni di sfollati – è la conferma reale di una strategia militare che si è concentrata sulla popolazione civile, come stigmatizzato da tutte le agenzie dell’ONU presenti nella Striscia di Gaza. 

Decisamente incerto è, invece, il risultato che riguarda esclusivamente gli obiettivi militari, i tunnel, i combattenti delle Brigate al Qassam e delle formazioni armate legate alle altre fazioni palestinesi. Le forze armate israeliane parlano di ottomila combattenti uccisi, un numero che in molti tra gli analisti considerano sovrastimato, se inserito nel totale dei palestinesi uccisi a Gaza: degli oltre 22mila uccisi, il 70% è composto da donne e bambini. 

Israele, in sostanza, non è riuscita a cancellare Hamas – e soprattutto la sua ala armata dalla Striscia: le perdite tra i soldati ne sono la conferma. E sono perdite che si avvicinano  al doppio di quelle subite durante la guerra che nell’estate del 2006 oppose Israele e Libano. I numeri ufficiali forniti dai militari israeliani descrivono una situazione difficile, non solo per i 175 soldati uccisi in combattimento dall’inizio, il 27 ottobre, dell’invasione di terra,  il 17% dei quali per fuoco amico. È l’altissimo numero di feriti, mille dall’inizio dell’invasione di terra, compresi molti invalidi, a dare il senso di una guerra che – dicono ora i vertici israeliani - sarà lunga. Mesi, forse anni.

Il tempo, però, dice cose diverse. Dice che la finestra temporale – appunto - di cui dispone Israele per arrivare a un ‘risultato’ è molto stretta. Non solo per questioni interne, dopo la decisione – troppo rinviata – della Corte suprema che il primo gennaio ha bocciato con un voto a maggioranza il cuore della riforma giudiziaria (o golpe giudiziario, come l’hanno sempre definito le opposizioni che per nove mesi hanno occupato piazze e strade di tutto il paese). Nonostante il sostegno, il silenzio-assenso di gran parte dei paesi occidentali, le opinioni pubbliche occidentali mostrano un sempre più evidente disagio di fronte ai seppur pochi, pochissimi video, alle rare foto scioccanti che arrivano da dentro Gaza, dal lavoro dei giornalisti palestinesi dentro Gaza. Le richieste di fermare la guerra, di arrivare a un cessate il fuoco sono tracimate dalle opinioni pubbliche ai decisori, fino a coinvolgere la stragrande maggioranza dei paesi rappresentati nelle Nazioni Unite. L’ormai stantio gioco del veto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU non è neanche riuscito a coprire il sostanziale isolamento di Israele, seppur sostenuto dal suo grande alleato, l’amministrazione statunitense a guida democratica.

La finestra temporale si è ulteriormente ristretta dopo la richiesta alla Corte Internazionale di Giustizia, presentata dal Sudafrica e sostenuta via via da altri paesi, di imporre a Israele la sospensione dei bombardamenti sulla base della convenzione sul genocidio, a cui aderisce anche Israele. Il dibattimento, previsto per l’11 e il 12 gennaio, accorcia ancor di più il filo del tempo.

Sono, questi appena elencati, elementi rilevanti per far comprendere quanto il tempo sia il fattore principale nel dispiegarsi di questa guerra dai tratti atroci. Sono, però, elementi non sufficienti. A fare la differenza è la questione dell’espulsione dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania: la nakba, ormai divenuta parte del pensiero mainstream israeliano, via via sempre di più dopo il 7 ottobre. Il passare dei giorni rende meno applicabile la strategia della nakba, sulla quale molti dei ministri e dei decisori israeliani hanno perso qualsiasi tabù nel definirla pubblicamente. Non è più un blitz, una espulsione che si compie in pochi giorni. Non è più il 1948. È una strategia che è ormai esposta, proprio perché molti degli esponenti della maggioranza al governo in Israele l’hanno espressa con estrema chiarezza. Ed è dunque una strategia contro la quale è necessario esprimersi, anche da parte di paesi – gli occidentali – che avrebbero tutto sommato accettato una ‘ridislocazione temporanea’ dei palestinesi nei paesi confinanti. La strategia dell’espulsione era chiara sin dal primo giorno dell’intervento militare israeliano su Gaza. Era però chiara solo a guardare la guerra attraverso la lente araba, in primis giordana ed egiziana. Non certo attraverso la lente europea e statunitense. 

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Ora, però, il disegno è chiaro ed esposto, e una presa di posizione diventa ineludibile. Su Gaza e, altrettanto, sulla Cisgiordania. Per questo, negli ultimi giorni, si accumulano le dichiarazioni (formali…) da parte di tutti, su tutti i fronti, contro l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina. 

Per il governo Netanyahu, a questo punto, guadagnare tempo è altrettanto fondamentale quanto ottenere un qualsiasi risultato. Su Gaza, dove l’obiettivo si modifica quasi ogni giorno, dalla cancellazione di Hamas alla liberazione degli ostaggi, dall’occupazione di Gaza alla ricerca di qualcun altro che possa gestire le macerie di Gaza. E, oltre la Striscia, sulla regione. L’uccisione del numero due del politburo di Hamas, Saleh al Arouri, sposta il focus israeliano dal sud, dove la guerra continua, al fronte nord, dove l’escalation è una delle opzioni possibili. L’uccisione di Saleh al Arouri, nel cuore della Beirut sud dove Hezbollah ha il controllo del territorio, non è solo quella vittoria di cui Netanyahu ha bisogno, pur non avendo Israele rivendicato l’uccisione, come sua consuetudine storica. È lo spostamento del focus altrettanto necessaria a Netanyahu (più che al suo governo): l’obiettivo non è più (solo) la cancellazione di Hamas, l’obiettivo centrale diventa l’Iran con i suoi alleati (Hamas, Hezbollah, le milizie sciite irachene, e gli houthi in Yemen, il cosiddetto ‘asse della resistenza’). Di Gaza si parla di meno. Ora l’attenzione è tutta sul fermare l’escalation, che Hezbollah e Iran hanno già mostrato di non volere. Ma tant’è: l’Occidente è preoccupato ora che le fiamme si estendano alla regione, colpiscano i commerci e l’approvvigionamento di tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il tempo, così, ha una dilazione, necessaria perché una maggioranza instabile, quella al governo a Tel Aviv, rimanga in sella. Netanyahu lo dice chiaro, all’inviato speciale dell’amministrazione Biden, Amos Hochstein. Israele vuole un cambiamento sostanziale sul fronte settentrionale, e dunque lo spostamento di Hezbollah dal confine con Israele a nord, oltre il fiume Litani. Lo sguardo si sposta di 180 gradi, in tempo per guadagnare altro tempo.

Immagine in anteprima via flickr.com

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