“Un golpe senza carri armati”. La destra estrema sta modificando i paradigmi su cui è vissuta Israele dalla sua fondazione
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Non era la piazza del 1982, quando il movimento pacifista israeliano portò 400mila persone a protestare a Tel Aviv per l’istituzione di una commissione d’inchiesta a seguito del massacro di Sabra e Shatila in Libano. Una protesta anche contro Ariel Sharon e la destra israeliana. Eppure, gli ottantamila che sotto la pioggia hanno riempito lo scorso 14 gennaio la piazza accanto al teatro Habima e le strade adiacenti sono un segnale altrettanto importante. Sono il segno che i nodi, già presenti da anni nella politica e nella società israeliane, sono arrivati al pettine. C’è una destra, anche estrema, che sta modificando i paradigmi su cui è vissuta Israele sin dalla sua fondazione e soprattutto dopo il 1967.
Israele al voto e l’ascesa dell’estrema destra razzista e suprematista
Le parole di questi giorni e di queste settimane sono di una durezza imparagonabile. Più voci, nell’opposizione al sesto governo presieduto da Benjamin Netanyahu, hanno messo in guardia dal fascismo che prende il potere, e dall’ascesa di una “democrazia autoritaria”. In una rara discesa in campo, sono stati magistrati e giudici ad attaccare il governo che si è appena insediato. L’accusa è di voler attuare un “golpe senza carri armati”, come ha detto in più interviste televisive il giudice più stimato di tutta Israele, Aharon Barak, ex presidente della Corte Suprema. E il suo non è stato l’unico durissimo attacco alla riforma giudiziaria resa nota il 4 gennaio scorso dal nuovo ministro della Giustizia, il likudista Jariv Levin, che a sua volta non ha risparmiato accuse molto pesanti allo stesso Barak. Il giudice in pensione, 86 anni, è stato fatto persino oggetto di una protesta sotto casa sua da parte di attivisti di estrema destra.
Da un lato, dunque, c’è l’intero sistema giudiziario israeliano, una delle tradizionali roccaforti della struttura dello Stato, che ha scritto una lettera aperta firmata dai più importanti procuratori generali. Dall’altra, il governo più a destra della storia israeliana. Da un lato, c’è il sistema giudiziario che per decenni è stata considerata uno dei pilastri ashkenaziti. Dall’altro, il sionismo religioso la cui influenza su Netanyahu è sempre più evidente. Non è dunque un caso se uno dei discorsi più netti e apprezzati dalla piazza anti-Netanyahu, a Tel Aviv, sia stato quello pronunciato da un’altra esponente del sistema giudiziario, un’altra giudice ex presidente della Corte Suprema, Ayala Procaccia. La sintesi: quando i giudici scendono in campo, è perché la democrazia è a rischio.
La paura è chiara: è l’inizio della fine di Israele, o di una certa Israele, quella che ha vissuto sotto il titolo – controverso – di “unica democrazia del Medio oriente”. Ora a rischio, con la riforma Levin, è anzitutto la separazione dei poteri, l’autonomia dei giudici, la possibilità per la corte suprema di bloccare pezzi di legislazione ritenuti non aderenti alle leggi fondamentali (Israele non ha una costituzione).
La riforma giudiziaria non riguarda i palestinesi, come si è compreso anche dal fatto che la piazza di Tel Aviv ha espresso solo le anime politiche israeliane del paese. Assieme all’opposizione minoritaria e più a sinistra, nella protesta hanno trovato posto l’ex ministro della difesa Benny Gantz e l’ex ministra degli esteri Tzipi Livni, cioè l’espressione dello establishment politico centrista.
Sui palestinesi peserà di più ciò che sta avvenendo attorno all’assetto della difesa e della sicurezza nazionale. Il cambio della guardia alla guida delle forze armate ha fatto giungere i nodi al pettine. Lascia Aviv Kochavi, arriva Herzl “Herzi” Halevi. Lascia, cioè, il capo di Stato maggiore a cui è toccato gestire quattro anni in cui i militari sono stati il perno del sistema, mentre attorno a loro la politica e l’intera amministrazione dello Stato sono state scosse da cambiamenti continui. Quattro elezioni, quattro cambi alla guida del governo, e tre ministri della difesa. Ce n’è abbastanza per mettere a dura prova anche il più esperto dei generali israeliani, e Kochavi di esperienza ne ha più di altri. Sulla questione palestinese, soprattutto, visto che il suo curriculum comprende anche un ruolo per nulla secondario nell’operazione Defensive Shield del 2002, quando in piena seconda intifada le città della Cisgiordania settentrionale – Jenin e Nablus – furono al centro di una delle più controverse e sanguinose strategie militari messe in campo dagli israeliani per affrontare le fazioni armate palestinesi. Kochavi non solo non è stato indenne da critiche sulle operazioni dei militari in Cisgiordania, compresa l’uccisione a Jenin nel maggio del 2022 di Shireen Abu Akleh, la più importante giornalista palestinese. Le polemiche attorno a lui e all'establishment da lui diretto si sono concentrate anche su Gaza, sia per l’operazione del maggio-giugno 2021, sia per l’attacco dell’agosto 2022. Ricordiamo gli elementi più rilevanti. Nel 2021 furono sganciate bombe ad alto potenziale per colpire la rete di tunnel, con un livello di distruzione delle zone residenziali civili mai raggiunto prima. E nell’agosto del 2022 vi è stato un attacco concentrato su Gaza in tre giorni in cui sono stati ripresi, come durante la seconda intifada, gli assassini mirati da parte dell’aviazione israeliana, con cosiddetti “danni collaterali” pesantissimi. Amnesty International ha chiesto di aprire una inchiesta per comprendere se siano stati commessi crimini di guerra.
Kochavi lascia, ma non lascia in silenzio. Mette cioè sul piatto della discussione il vero nodo del contendere con l’estrema destra israeliana. E cioè chi controllerà le forze armate e di sicurezza in Cisgiordania. Il nuovo governo di estrema destra ha un altro dossier complesso, oltre alla riforma della giustizia. Ha infatti il dossier che riguarda la difesa, la sicurezza nazionale, l’amministrazione civile/militare del Territorio Palestinese Occupato, la presenza dei coloni in Palestina e il loro raggio d’azione politico e armato. È dunque un dossier a dir poco delicatissimo, che comprende anche il rapporto con un settore ben preciso della popolazione di Israele, quell’oltre 20% che è palestinese con passaporto israeliano. È un cambio di paradigma quello che sta affrontando Israele: dallo status quo ormai permanente rappresentato dall’occupazione della Palestina, al processo sempre più rapido di annessione di Cisgiordania e Gerusalemme est. Annessione fondata su un sistema duale, riguardo ai diritti civili: da una parte gli israeliani titolari di tutti i diritti di cittadinanza, dall’altra i palestinesi sotto occupazione e senza diritti civili.
Il cambio di paradigma è richiesto soprattutto, ma non solo, dai due partiti sionisti religiosi di estrema destra, Potere Ebraico di Itamar Ben-Gvir, il più mediatizzato dei nuovi ministri del governo Netanyahu, e il più potente Bezalel Smotrich, il leader del Partito Sionista Religioso, designato ministro delle Finanze. Ben-Gvir ha già descritto a gran voce come vuol cambiare la sicurezza nazionale, ora che siede alla testa del ministero preposto: restringere i limiti della protesta di piazza, anche da parte degli israeliani di fede ebraica; considerare traditore chi dissente; rendere non più intoccabile il diritto di cittadinanza; annullare l’identità palestinese a partire da un simbolo imprescindibile come la bandiera della Palestina. Meno evidente, ma altrettanto (se non più) pericoloso, il potere che Smotrich tenta di avocare a sé stesso. A pensare in termini europei, sembra difficile credere in una possibile e determinante influenza di Smotrich – ministro delle Finanze – sul dossier difesa/sicurezza. E invece potrebbe essere proprio l’astro già consolidato del sionismo religioso a divenire il deus ex machina del nuovo paradigma israeliano.
Spiegano bene due esperti come Amos Hare e Yaniv Kubovich, su Haaretz, i passi necessari per rendere definitivo nella forma ciò che già, negli anni più recenti, abbiamo visto compiersi in Cisgiordania. Questi gli elementi: “la rimozione del Coordinamento delle attività di governo nei Territori [Palestinesi Occupati] e delle unità dell’Amministrazione civile dall’autorità del ministero della Difesa, rendendoli subalterni al ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, mentre nel contempo si assume il controllo della designazione di alti funzionari in queste agenzie”. E non è finita: il tentativo è quello di “mettere le unità della polizia di frontiera in Cisgiordania sotto il ministro per la Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e di designare il rabbino militare capo delle forze armate in coordinamento con il partito ultraortodosso dello Shas”. In più, si cercherebbe anche di rendere forma ciò che già succede nella sostanza in Cisgiordania: “la possibile modifica delle regole di ingaggio nei Territori, e l’adozione di passi per garantire l’autorità assoluta per soldati e poliziotti nell’uso della forza” contro i palestinesi.
Aviv Kochavi ha espresso tutto il suo disaccordo con una linea che rompe la catena di comando sinora espressa dalla struttura militare, e che fa entrare i politici nel piatto. Il suo disaccordo conferma, implicitamente, quello che si dice da tempo: che, cioè, ci sia un esercito a Tel Aviv, e che in Cisgiordania ce ne sia un altro, su cui i coloni hanno un peso sempre più forte. E i coloni, nel nuovo governo Netanyahu, sono diventati ministri.
Il successore di Kochavi, il nuovo capo di Stato maggiore che ha appena giurato il 16 gennaio, cosa farà? Herzi Halevi è stato designato nel settembre 2022 dal precedente governo, nella fattispecie dal ministro della difesa Benni Gantz. La sua storia personale assomma buona parte della storia del sionismo, ben prima di Israele: è nato a Gerusalemme, ha avuto una educazione ortodossa, vive in una colonia vicino a Modi’n, è stato comandate dell’unità speciale Sayeret Matkal, che opera in Palestina. Sua madre era la nipote di Rav Ha Kook, primo capo rabbino nell’immigrazione sionista, e suo nonno aveva fatto parte del gruppo paramilitare estremista dell’Irgun.
Immagine in anteprima via haaretz.com
