Post Fuori da qui

Il ruolo e la posizione dell’Iran nel conflitto Israele-Hamas

16 Novembre 2023 11 min lettura

Il ruolo e la posizione dell’Iran nel conflitto Israele-Hamas

Iscriviti alla nostra Newsletter

11 min lettura

"Non lo so, (dall’Iran) hanno sempre detto che non hanno nulla a che fare con quanto sta accadendo, ma dicono pubblicamente che c'è il rischio che questo conflitto si estenda. La posizione dell'Iran è sempre molto misteriosa". A dirlo in questi giorni è il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, a proposito della posizione sfuggente della Repubblica Islamica sul ruolo che effettivamente svolge dall’inizio del sanguinoso conflitto tra Israele e Hamas, seguito al terribile attacco terroristico di quest’ultimo il 7 ottobre. Parlando con il giornalista statunitense Fareed Zakaria, Guterres ha spiegato fra l’altro di aver invitato Teheran a fare pressione su Hamas perché liberi senza condizioni gli ostaggi israeliani, ma anche sulla milizia libanese Hezbollah perché ponga fine alle sue pericolose azioni sul confine settentrionale di Israele, con decine tra morti e feriti da entrambe le parti nell’ultimo mese. “Ho chiesto all’Iran di dire a Hezbollah che non può creare una situazione nella quale il Libano sia completamente inghiottito da questo conflitto”. Se l’ala militare del partito sciita lanciasse infatti un attacco massiccio contro Israele l’impatto sarebbe tale che il paese dei cedri “non sopravviverebbe”. 

Le parole di Guterres danno la misura dell’ambiguità che ha caratterizzato l’approccio della Repubblica Islamica alla guerra in corso tra Israele e Hamas a Gaza. Vista la forte influenza che Teheran svolge sulle due milizie di Hamas e Hezbollah, e il massiccio sostegno finanziario e militare garantito loro per decenni, è legittimo chiedersi che effetti avrebbe un eventuale intervento più diretto dell’Iran nel conflitto. Al momento però a Teheran sembra prevalere un atteggiamento di calcolata cautela, combinata con affermazioni pubbliche che, al di là dei consueti e roboanti accenti anti-USA e anti-Israele, invitano entrambi a fermare la spirale bellica per evitare, appunto, non meglio precisati allargamenti del conflitto. Un invito che, benché sui media venga generalmente letto come una “minaccia”, sarebbe forse più proprio definire un “avvertimento” che giunge alle parti in guerra da un’altra parte che ancora, almeno formalmente, in guerra non lo è. 

Hamas e Hezbollah, sentinelle e pedine di una linea di “difesa avanzata” 

Prima di entrare nel merito della tragica crisi attuale, è il caso di ricordare alcuni incontrovertibili fatti. In primo luogo, nei suoi 44 anni di vita la Repubblica Islamica non ha mai iniziato e condotto una guerra aperta se non dopo essere stata attaccata, come fece nel 1980 l’Iraq di Saddam Hussein nel 1980. Piuttosto, ha svolto una politica estera e di difesa molto assertiva attraverso un folto stuolo di milizie variamente foraggiate, da Hezbollah, in Libano, ad Hamas e Jihad Islamica, a Gaza, da varie milizie irachene agli Houthi, in Yemen.

Ognuno di questi gruppi ha sempre avuto una propria agenda legata all’identità nazionale – quella religiosa è secondaria, considerato che Hamas è sunnita e non sciita – ma il sostegno materiale di Teheran – in termini finanziari, di addestramento e di fornitura di armi - ne ha anche fatto gli strumenti di manovra di quella politica di difesa “avanzata” con cui la Repubblica Islamica si è garantita un cordone di sicurezza per prevenire attacchi sul proprio territorio. Obiettivo in realtà non sempre raggiunto, visti i numerosi omicidi mirati di suoi scienziati negli anni e i diversi attacchi e sabotaggi, in particolare contro le sue strutture nucleari, dietro ai quali si è sempre sospettata la mano di Israele - una potenza militare nucleare mai dichiarata. Senza contare la guerra a basso regime che da parte di Israele continua contro le milizie filoiraniane in Siria - resa anche possibile dal tacito assenso di Mosca, di cui Teheran è pur alleata sia nel comune sostegno al presidente siriano Bashar Al Assad, sia nelle forniture militari iraniane alla Russia nella guerra contro l’Ucraina. A questo si aggiunge il perenne stato di tensione tra le milizie filoiraniane, operanti sia in Siria che in Iraq, e i presidi militari statunitensi in quei paesi, tensione rinfocolata anch’essa dalla guerra a Gaza: una cinquantina solo in Siria le azioni contro le forze USA da metà ottobre, come certificato dal Pentagono, che risponde con attacchi aerei sulle postazioni dei miliziani. 

Insomma, se Teheran non partecipa direttamente ai conflitti aperti, lo fa in modo indiretto manovrando le milizie alleate, in genere coordinate dalla forza Al Qods delle Guardie della Rivoluzione, e spesso con finalità tattiche e di avvertimento. Questo si ripete più frequentemente nelle fasi di maggiore tensione con gli Usa, Israele e anche – prima della tregua in Yemen e del riavvicinamento con Riad, sponsorizzato nel marzo scorso dalla Cina – con l’Arabia Saudita e altri paesi arabi del Golfo. 

Le “minacce” dell’Iran contro un’incontrollata estensione del conflitto 

Ma torniamo all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e alla guerra sferrata da Israele su Gaza che ne è seguita. L’ipotesi che l’Iran avesse avuto un ruolo diretto nell’azione, benché leggibile nelle esultanti dichiarazioni di alcuni esponenti di vertice del sistema e corroborata da vari media internazionali (in particolare il Wall Street Journal), è stata ben presto confutata non solo da più autorevoli voci ufficiali iraniane, ma anche dalle forze armate israeliane e dall’intelligence statunitense.

Insomma, benché sia un generoso foraggiatore di Hamas e non sia rimasto dispiaciuto dal violento attacco sferrato contro Israele, l’Iran sarebbe stato colto di sorpresa dai fatti del 7 ottobre. Lo confermava in particolare l’account ufficiale Twitter-X di Khamenei del 10 ottobre: “Lodiamo l’intelligenza e gli sforzi degli intelligenti e brillanti ideatori dell’operazione #AlAqsaStorm e la gioventù palestinese. Siamo orgogliosi di loro. Ma quelli che senza senso dicono che i recenti epici eventi sono stati messi in atto da attori non palestinesi hanno fatto male i conti”. Eppure, il 7 ottobre, un tweet dello stesso Khamenei, che mostrava un video della fuga dei giovani israeliani che partecipavano al rave attaccato da Hamas, commentava trionfalmente l’operazione: “A Dio piacendo, il cancro dell’usurpatore regime sionista sarà eradicato dalle genti palestinesi e dalla forze della Resistenza in tutta la regione”. 

Nei giorni successivi all’attacco anche fonti dell’esercito israeliano e dell’intelligence statunitense escludevano un diretto coinvolgimento iraniano: legittimo sospettare che questa posizione temporaneamente assolutoria servisse proprio a spegnere qualunque brace di un incendio in grado di estendersi anche ad altri contendenti. Ma Israele non ha mancato di ribadire con le maniere forti i suoi avvertimenti a Teheran e ai suoi alleati in Siria, bombardando simultaneamente i due aeroporti siriani di Damasco e di Aleppo sia il 12 che il 22 ottobre, e provocando vittime e feriti. 

Escluso, dunque, almeno al momento, un coinvolgimento diretto di Teheran nell’operazione di Hamas, Teheran sembra ora pubblicamente impegnata sul piano diplomatico, benché sempre “minacciando” conseguenze “se” il conflitto a Gaza non si dovesse fermare. Quasi che, in questo duplice registro del discorso, trovassero forse un provvisorio equilibrio due anime diverse, all’interno della dirigenza della Repubblica Islamica. 

Il presidente iraniano Raisi incontra Mohammad Bin Salman a Riad e rilancia il referendum alternativo ai due Stati

Partiamo dalle ultime dichiarazioni ufficiali, quelle rese dal presidente iraniano Ibrahim Raisi nel summit straordinario della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, convocato nei giorni scorsi a Riad da Mohammad Bin Salman, primo ministro e principe erede saudita. Un summit da cui sono emerse significative divergenze di vedute tra i 57 paesi coinvolti, ma che ha trovato una linea unitaria nel chiedere un cessate il fuoco immediato, l’embargo sulle esportazioni di armi e munizioni a Israele, il completamento delle indagini della Corte penale internazionale sui suoi crimini di guerra e la fine del blocco della Striscia per far giungere gli aiuti umanitari. Nella dichiarazione finale si afferma inoltre, fra l’altro, che la guerra su Gaza non può essere considerata di “autodifesa”, e si chiede al Consiglio di sicurezza dell’ONU di adottare una risoluzione «vincolante per fermare l’attacco”.

Raisi – che a Riad ha avuto uno storico incontro con il principe erede Mohammad Bin Salman dopo anni di tensioni in cui i vertici iraniani e sauditi non avevano mai avuto un faccia a faccia – si è unito a una decina di paesi della Lega Araba che chiedevano una linea più dura contro Israele - la rottura delle relazioni diplomatiche e il blocco delle esportazioni di cibo e petrolioma tale posizione è stata respinta dagli Emirati, dal Bahrein e dal Marocco, già firmatari degli accordi di Abramo con Israele, e anche dai sauditi, che prima della guerra non solo avevano ritrovato la già citata intesa con Teheran, ma stavano negoziando anche con Israele. 

In quella sede, comunque Raisi ha potuto tenere un discorso significativo, di cui offre un dettagliato resoconto in inglese il Tehran Times sotto il titolo: “Dieci urgenti soluzioni per la guerra a Gaza”. Al di là dei toni duri contro “i più atroci crimini nella storia dell’umanità”, compiuti da Israele a Gaza, dell’attacco agli USA per “aver incoraggiato il regime sionista a portare avanti operazioni criminali contro la popolazione indifesa e il significativo riferimento alla decisione iraniana di “abbracciare caldamente le nazioni islamiche su una linea di buon vicinato e unità regionale”, le dieci soluzioni indicate da Raisi si traducono fra l’altro in: ritiro di Israele da Gaza; fine dei rapporti politici ed economici con Israele; riconoscimento dell’esercito israeliano come organizzazione terroristica (chiaro riferimento a quanto già fatto dagli USA, e richiesto da molti alla UE, per i Pasdaran iraniani);  una Corte internazionale per i crimini di Israele e degli Usa; l’istituzione di una Giornata del genocidio nell’anniversario dell'esplosione all’ospedale al-Ahli.

Infine, la richiesta più controversa: “Armare la gente di Gaza, se continuano gli implacabili crimini di Israele e il sostegno di Washington alle sue azioni”. Una versione più articolata di quest’ultimo punto la si può trovare nell’edizione in persiano di Kayhan, il quotidiano più conservatore in Iran e il cui direttore, Hossein Shariatmadari, è stato nominato da Khamenei. Se questa guerra “ingiusta e impari per il sostegno USA” a Israele dovesse continuare – vi si legge - è nostro dovere armare le forze palestinesi e l’asse di resistenza. Noi baciamo le mani di Hamas e le forze della resistenza”. “Noi – aggiungeva Raisi - siamo sempre per un unico governo indipendente della Palestina”, per il quale palestinesi, musulmani, ebrei e cristiani abbiamo tutti diritto di voto. 

Quella del referendum aperto a tutti gli abitanti della “Palestina”, musulmani o ebrei o cristiani che siano, è da tempo la proposta che l’Iran contrappone alla soluzione dei due Stati. "La Repubblica Islamica dell'Iran – ha confermato il ministro degli Esteri, Hossein Amir Abdollahian - ritiene che la soluzione principale e permanente per la Palestina sia quella di indire un referendum in conformità con il diritto internazionale per determinare il destino con la partecipazione di tutti i veri palestinesi dentro e fuori questa terra”. Il punto implicito della proposta di un referendum per un solo stato indipendente in Palestina, già presentata anche al Segretariato Generale delle Nazioni Unite e la cui visione politica è qui significativamente descritta da un parlamentare iraniano, sta nei numeri: secondo recenti stime, alla fine del 2022 in Israele e in Cisgiordania  vivevano oltre sette milioni di israeliani, mentre sette milioni di palestinesi stavano tra Cisgiordania, Striscia di Gaza, Israele e Gerusalemme Est. Ma per l’Iran, al voto dovrebbero partecipare anche i palestinesi rifugiati in altri paesi (circa due milioni in Giordania, 250 mila in Libano), cosa che comporterebbe una netta superiorità numerica dei votanti palestinesi. Evidente la non agibilità politica della proposta: una posizione di bandiera, dunque, con la quale Teheran cerca una visibilità sul piano internazionale e davanti al malcontento e alla rabbia espressa in queste settimane dalle piazze arabe filo-palestinesi.  

La Repubblica Islamica sempre più divisa tra due anime e due generazioni 

Il doppio registro dei suoi messaggi esterni rivela non solo la duplicità degli umori che ha sempre contraddistinto la dirigenza della Repubblica Islamica – divisa tra un’anima pragmatica e dialogante e un’altra più bellicistica e intransigente – ma anche, come evidenzia il direttore dell'Institute for Global Studies, Nicola Pedde, una “crescente divergenza di orientamento tra la dirigenza di prima generazione e l’apparato politico-istituzionale della seconda”.  “È da tempo palese – prosegue Pedde una crescente divergenza di vedute tra la prima generazione del potere iraniano, di espressione teocratica e ormai minoritaria, e la seconda generazione di estrazione militare, caratterizzata da posizioni politico-ideologiche per molti versi opposte”.

La prima, pragmatica e cauta, difficilmente a suo avviso avrebbe intrapreso un’azione come quella del 7 ottobre per i suoi possibili effetti anche sulla sicurezza nazionale e regionale. La seconda, ancora non in grado di soppiantare la prima nei processi decisionali di vertice, più aggressiva e con diverse valutazioni strategiche. Una fondamentale discriminante tra queste due anime è quella relativa alle conseguenze sul piano interno di un’eventuale estensione del conflitto con un diretto coinvolgimento di Teheran. Se infatti la vecchia guardia potrebbe temere un ritorno di quel dissenso politico e civile che nei mesi scorsi si è raccolto nel movimento Donna Vita Libertà, la nuova generazione – che si identifica nel potere militare ed economico dei Guardiani della Rivoluzione – potrebbe non essere troppo preoccupato da questa conseguenza, vista l’efficacia già dimostrata dall’insieme dell’apparato repressivo, in cui gli stessi Pasdaran giocano un ruolo cruciale.

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Ma un allargamento del conflitto regionale potrebbe aprire incognite pericolose per la tenuta e forse la sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica. Potrebbe infatti dare il via libera a un’offensiva molto più ampia di Israele sia contro le milizie filo-iraniane sia all’interno del territorio iraniano; ridurre la capacità di influenza di Teheran sui paesi vicini; esporre l’Iran a nuovi rischi di offensiva militare, considerato il nuovo dispiegamento di forze Usa nel Mediterraneo; interrompere il processo di distensione con i paesi arabi del Golfo recentemente avviato, con l’intento di creare alleanze infra-regionali in contrapposizione con gli accordi di Abramo, intessuti da Israele in funzione anti-iraniana e con l’intento (fallito) di mettere in ombra la questione palestinese. Se questi scenari si verificassero, l’apparente ordine faticosamente raggiunto della Repubblica Islamica sul piano interno, al prezzo di una pesantissima e cruenta repressione, potrebbe venire minata anche la capacità degli apparati iraniani di intercettare infiltrazioni dall’esterno, in grado magari di assecondare il malcontento di alcune minoranze etniche e religiose e  di innescare i possibili prodromi di una guerra civile, non dissimile da quella che ha devastato la Siria dal 2011. 

Per ora appare, dunque, nell’interesse della Repubblica Islamica un contenimento del conflitto tra Israele e Hamas entro i confini attuali, una sua provvisoria risoluzione con un cessate il fuoco che metta in salvo i civili e possa continuare a garantire, come in passato, la possibilità per l’Iran di sostenere ideologicamente la causa palestinese e di continuare a finanziare e addestrare, nella Striscia come altrove, le milizie amiche. Un approccio conservativo e non avventuristico, sebbene fondato proprio sul permanere di un più o meno latente stato di tensione tra i contendenti nella regione. Vedremo se questo approccio, paradossalmente prudenziale, saprà o potrà ancora una volta prevalere.  

Immagine in anteprima: frame video Hindustan Times via YouTube

Segnala un errore