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Guerra Israele-Hamas: la posizione dell’Egitto, il rischio di escalation in Libano e il lavoro della diplomazia per scongiurare l’estensione del conflitto

23 Ottobre 2023 11 min lettura

Guerra Israele-Hamas: la posizione dell’Egitto, il rischio di escalation in Libano e il lavoro della diplomazia per scongiurare l’estensione del conflitto

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Sono trascorse appena due settimane da quando Hamas ha condotto un’incursione armata in territorio israeliano causando la morte indiscriminata di circa 1.400 israeliani, con rastrellamenti condotti casa per casa, e la cattura di almeno 200 ostaggi. L’esercito, colto impreparato secondo la prospettiva di diversi osservatori ed analisti, è riuscito a respingere l’attacco dopo tre giorni, ma ha immediatamente allestito una controffensiva che, finora, nel momento in cui scriviamo, ha ucciso in maniera altrettanto indiscriminata oltre 5mila civili palestinesi, secondo le autorità sanitarie di Gaza, controllate da Hamas, colpendo ospedali, luoghi di culto e vie di fuga verso il sud della Striscia. 

Tuttavia, quello che sembrava inizialmente profilarsi come l’ennesimo capitolo dello scontro tra esercito israeliano e fazioni di Gaza legate a Hamas, rischia di minare i già fragili equilibri dell’intera regione e di coinvolgere altri attori che sono legati alla questione palestinese per ragioni strategiche, geografiche e storiche.

Sorpreso e sotto shock per l’attacco del 7 ottobre, il governo del premier israeliano Netanyahu ha risposto annunciando una campagna militare che ha come obiettivo la distruzione di Hamas e la sua scomparsa dalla Striscia di Gaza. Israele ha il legittimo diritto di difendersi in base a quanto previsto dall’art. 51 dello statuto dell’ONU. Le modalità attraverso cui può meglio raggiungere i propri obiettivi securitari, però, possono essere dibattute. Il governo Netanyahu ha evitato di fare alcuna distinzione tra i membri dell’apparato militare di Hamas (circa 30.000) e i funzionari civili dell’amministrazione di Gaza, inclusi coloro che beneficiano del sistema assistenziale messo in piedi da Hamas (circa 90.000 persone). Le autorità israeliane, compreso il presidente della Repubblica, Isaac Herzog, hanno anche dichiarato che tutti i palestinesi a Gaza non possono essere separati da Hamas. Il governo israeliano che, pur non avendo più una presenza nella Striscia continua a controllarla, ha così immediatamente bloccato la fornitura di acqua, elettricità, carburante, cibo e medicinali, costringendo gli abitanti a bere acqua contaminata o ad utilizzare i camioncini dei gelati come celle frigorifere mobili per i defunti. Il 13 ottobre le forze armate israeliane hanno poi lanciato dei volantini su Gaza in cui si ordinava ai cittadini di evacuare l’intera area nord della Striscia e di convergere verso sud, al confine con l’Egitto.

Prima dell’inizio dei bombardamenti israeliani, la parte nord della Striscia di Gaza era abitata da 1,1 milioni di persone, corrispondente a circa la metà dei 2,3 milioni di palestinesi residenti nell’intero territorio. Le stime diffuse dalle organizzazioni internazionali e riportate dagli organi di stampa riferiscono che circa 700.000 palestinesi si siano spostati a sud della Striscia per sfuggire ai raid aerei. A nord, interi quartieri sono stati rasi al suolo. Nel sud, lì dove i palestinesi avrebbero dovuto rifugiarsi stando all’ordine di evacuazione israeliano, i bombardamenti continuano, impedendo la creazione di corridoi umanitari e l’accesso di medicine e beni di prima necessità all’interno della Striscia.  

L’ordine israeliano ai cittadini della Striscia, in previsione di un possibile attacco di terra, ha fatto temere ai palestinesi di trovarsi di fronte a un’altra nakba, un termine che nell’immaginario dei palestinesi, e non solo, rievoca dolore e abbandono della propria terra d’origine, così come avvenuto nel 1948 e nel 1967. Un esodo di massa potrebbe cristallizzare l’occupazione armata di un territorio che, con il tempo, potrebbe diventare permanente, consentendo così ad Israele di accaparrarsi un’altra fetta di Palestina, pronta per essere colonizzata. 

La posizione dell'Egitto

L’idea che i profughi palestinesi debbano trovare rifugio in Egitto in attesa della conclusione della campagna militare israeliana offre l’occasione per analizzare il punto di vista egiziano sulla crisi in corso. Il presidente al-Sisi e il ministro degli Esteri Shoukry hanno già manifestato la loro contrarietà alla possibilità di ospitare potenzialmente oltre un milione di profughi palestinesi in fuga dalla Striscia di Gaza.

Il suggerimento avanzato dall’ex viceministro degli Esteri israeliano, Danny Ayalon, di trasferire i palestinesi in città-tendopoli da allestire in mezzo al deserto del Sinai non solo è condannabile dal punto di vista etico e umano, ma è di difficilissima applicazione. Il Sinai è in uno stato di guerra a bassa intensità da circa 10 anni e l’esercito egiziano, nonostante l’aiuto e la collaborazione delle forze armate israeliane, non l’ha mai controllato del tutto. Gruppi estremisti affiliati a Daesh continuano a colpire i posti di blocco dell’esercito e le infrastrutture militari, rendendo l’area altamente insicura e pericolosa per chiunque vi metta piede. L’area è poi sottoposta a restrizioni continue della libertà di movimento, nonché ad un blocco dell’informazione che impedisce a tutti i giornalisti di potervi accedere.

Sarebbe un azzardo pensare di ospitare i profughi palestinesi in queste zone, oltre che un controsenso rispetto alle politiche di evacuazione e distruzione di interi villaggi adottate dalle forze armate egiziane negli ultimi anni. Ma il rischio più preoccupante per al-Sisi e il suo esecutivo è che l’intera area possa trasformarsi in futuro in un avamposto per lanciare attacchi contro Israele, mettendo a dura prova la tenuta del trattato di pace del 1979. 

Il ministro degli Esteri egiziano Shoukry ha risposto provocatoriamente alle critiche sollevate in Europa per le reticenze del suo governo di fronte a questo scenario. “Volete che prendiamo 1 milione di persone? Bene, le manderò in Europa. Vi interessano così tanto i diritti umani che potete prenderli voi”, avrebbe detto a una controparte europea. L’Egitto fatica a fornire adeguata assistenza ai 9 milioni di migranti e rifugiati presenti sul suo territorio ed è legittimo chiedersi se il paese abbia le risorse e le capacità gestionali per fronteggiare l’arrivo di un numero enorme di palestinesi in fuga dalla guerra.

Questo dubbio è tanto più vero se si considera la grave crisi economica che ha colpito l’Egitto negli ultimi anni e che ha causato una svalutazione della sterlina egiziana senza precedenti e un cambio con il dollaro che è balzato dalle 7 sterline del 2013 alle 30 sterline del 2023. Il debito estero ammonta a 163 miliardi di euro, mentre il rapporto debito/Pil ha sfiorato il 93% nel 2023. I mega-progetti infrastrutturali promossi dal presidente e dal governo, come la nuova capitale amministrativa e il progetto Toshka per ampliare la superficie coltivabile del paese, hanno aumentato enormemente la spesa pubblica per investimenti giudicati “dubbi” e le risorse necessarie per il completamento di questi progetti sembrano, quindi, superare i possibili benefici per l’intera collettività. 

E a proposito di risorse, il 18 ottobre il governo egiziano ha deciso di riaprire il valico di Rafah per permettere il passaggio degli aiuti umanitari. La chiusura era avvenuta dopo l’inizio dei raid israeliani e sono stati necessari diversi colloqui prima di poterlo riaprire. Questo risultato è stato favorito anche dalla mediazione del presidente statunitense Joe Biden, il quale nei giorni scorsi si è recato a Tel Aviv dopo il tour diplomatico del Segretario di Stato, Blinken. Per giorni, diversi camion sono rimasti incolonnati nei pressi del confine in attesa che il governo egiziano aprisse il passaggio e, soprattutto, che il lancio dei missili da parte israeliana cessasse.

L’accordo, che sarà supervisionato dalla Mezzaluna Rossa egiziana e palestinese, prevede però il transito di non più di 20 camion al giorno: un numero che in alcun modo potrà soddisfare i bisogni dei circa 2,3 milioni di palestinesi residenti nella Striscia e per cui l’ONU chiede l’invio di almeno 100 camion al giorno. I primi 20 convogli umanitari hanno raggiunto Gaza il 21 ottobre, portando acqua, cibo e medicinali, mentre il giorno successivo solo 14 hanno varcato il confine di Rafah.

Tuttavia, rimane il problema principale di come questi convogli possano fornire assistenza ad un territorio continuamente sottoposto ai raid aerei israeliani. La strada di collegamento tra la Striscia e l’Egitto ha subito ingenti danni a seguito dei bombardamenti e non ci sono ancora le garanzie minime di sicurezza che una tale crisi umanitaria impone. Le aree di Rafah e Khan Younis continuano a essere prese di mira dai missili israeliani, mentre il 22 ottobre l’esercito israeliano ha ammesso di aver colpito accidentalmente una torretta di vigilanza delle forze egiziane che monitorano il confine con Israele, ferendo nove persone. L’Egitto ha più volte condannato la prosecuzione dei bombardamenti israeliani nel sud della Striscia per bocca del suo ministro degli Esteri, mentre al-Sisi ha invitato i cittadini a manifestare pubblicamente la loro contrarietà all’operazione bellica in atto. 

Il lavoro della diplomazia

Da giorni, la diplomazia è al lavoro per cercare di ricomporre la fragile tela di interessi convergenti e contrapposti dei molteplici attori coinvolti. L’Egitto si è offerto di fare da mediatore ospitando presso la nuova capitale amministrativa il primo summit per la pace, a cui hanno preso parte leader e delegati provenienti da 24 paesi, tra cui Giordania, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, ANP, Italia, Germania, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Russia, Turchia, Cina, Canada e Giappone. All’incontro hanno partecipato anche i massimi rappresentanti della Lega Araba e dell’Unione Africana, il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e il rappresentante UE per la politica estera, Josep Borrell. Stride, tuttavia, l’assenza di stakeholder come Stati Uniti, Libano e Iran, oltre ai rappresentanti di Israele e Hamas.  

L’incontro, tenutosi al Cairo il 21 ottobre, ha affrontato gli sviluppi della guerra in corso, ma non ha prodotto alcun documento condiviso in grado di esprimere una visione comune tra la condanna alla reazione di Israele, manifestata dai leader dei paesi arabi e musulmani, e la necessità di proteggere i civili, che racchiude la posizione dei paesi occidentali. Non c’è dubbio che la priorità più urgente sia quella di raggiungere un accordo per un cessate il fuoco che interrompa la distruzione di chiese, moschee, scuole, ospedali e altri luoghi dove i palestinesi si sono rifugiati. Solo in questo modo gli aiuti umanitari potranno giungere a destinazione e lenire, seppur in minima parte, il dolore di persone che non hanno più una casa, una famiglia o una terra. 

Mentre l’Egitto cerca una soluzione diplomatica, si moltiplicano le voci su un attacco terrestre israeliano nella Striscia di Gaza. Se le capacità belliche israeliane sono indubbiamente superiori a quelle dei gruppi armati palestinesi, è altrettanto vero che uno scontro armato con mezzi e uomini sul terreno farà verosimilmente lievitare il numero delle vittime su entrambi i fronti. Il pericolo più grande, però, è che a un aumento dell’escalation militare nella Striscia di Gaza corrisponda un maggior coinvolgimento di Hezbollah. La prima avvisaglia di un possibile allargamento del conflitto si è verificata l’8 ottobre, quando dal sud del Libano sono partiti dei colpi diretti verso una base militare israeliana a Shebaa Farms, senza causare vittime o feriti. Nei successivi giorni, sono stati registrati altri incidenti e lo scambio reciproco di colpi di artiglieria ha provocato la morte di tre miliziani di Hezbollah e di un soldato israeliano, nonché l’uccisione del giornalista della Reuters, Issam Abdallah, nel sud del Libano, e il ferimento di altri due colleghi di AFP

Sebbene il rischio di un’escalation militare anche a nord di Israele sia reale e non vada sottovalutato, finora lo scontro si è mantenuto all’interno di quelle norme non scritte e prassi militari che costituiscono “le linee rosse” da non superare per evitare l’apertura di un fronte bellico tra Israele e Libano. Queste linee rosse sembrano fondarsi sul principio della deterrenza reciproca e sulla certezza che uno scontro armato tra Hezbollah e IDF (l’esercito israeliano) comporterebbe costi enormi con scarsi benefici per entrambi i contendenti. Per quanto le forze armate israeliane godano di un vantaggio tecnologico notevole, Hezbollah ha più volte enfatizzato le sue capacità militari e l’efficacia del proprio arsenale bellico che, stando a quanto scritto da Heiko Wimmen, analista dell’International Crisis Group, può fare affidamento su diverse migliaia di droni e almeno 150.000 missili in grado di colpire qualsiasi infrastruttura strategica in Israele. Il ricordo dell’ultima guerra tra Israele e Libano, scoppiata nell’estate del 2006 e che ha causato oltre mille vittime libanesi e più di cento in Israele, è ancora vivido ed entrambi i paesi temono che lo scoppio di un nuovo conflitto armato possa avere bilanci ben peggiori di quelli registrati 17 anni fa.  

La validità della deterrenza reciproca e il timore ad essa correlata di innescare un conflitto dalle conseguenze impreviste, se non addirittura catastrofiche, non sono però una garanzia per il mantenimento della “pace”. Hezbollah ha stretto solidi legami sia con Hamas che con il Jihad Islamico Palestinese, ha fornito loro addestramento e risorse, ma anche sostegno diplomatico. Visti dalla prospettiva di Hezbollah, Hamas e gli altri gruppi che l’organizzazione libanese sostiene nella Striscia sono risorse di cui difficilmente potrà fare a meno senza reagire. L’idea israeliana di distruggere Hamas, prescindendo dalla sua realizzazione sul campo e, soprattutto, dalla sua efficacia, è quindi una di quelle linee rosse che, se superate, rischiano di far saltare il fragile equilibrio tra Libano e Israele. La seconda linea rossa posta da Hezbollah è quella di una nuova nakba, un esodo forzato dei palestinesi di Gaza verso l’Egitto. 

In questo scenario, il futuro della causa palestinese e un rilancio della proposta dei due Stati per due popoli è passato in secondo piano anche nel recente vertice organizzato dall’Egitto, nonostante le intenzioni egiziane e gli auspici di molti leader arabi presenti al summit. Non si sono registrati progressi su questo dossier, innanzitutto perché al tavolo delle trattative mancavano i due principali attori del conflitto. In secondo luogo, perché dalla stipulazione degli accordi di Abramo – una serie di accordi bilaterali che Israele ha firmato nel 2020 con Emirati Arabi e Bahrein, e a cui si sono poi aggiunti Marocco e Sudan – il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli altri paesi della regione si è allontanato dal paradigma della solidarietà araba verso la causa palestinese. Tale paradigma sostiene che il riconoscimento di Israele da parte di altri paesi arabi debba prima passare per la creazione di uno Stato palestinese i cui confini sono quelli precedenti alla guerra del 1967, così come stabilito dalla risoluzione ONU n° 242 dello stesso anno. Gli accordi di Abramo, però, hanno dimostrato come alcuni paesi arabi e musulmani siano oggi più inclini a scindere le due questioni, facendo crescere il timore tra i palestinesi che la liberazione dei territori occupati e la nascita di uno Stato non costituiscano più delle priorità per i paesi della regione. 

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Negli ultimi mesi, l’amministrazione Biden ha tentato di coinvolgere anche l’Arabia Saudita, la cui firma sugli accordi rappresenterebbe un punto chiave nella ridefinizione dei rapporti tra i paesi dell’area e, agli occhi di Washington, un punto a favore nella sua strategia per contenere l’Iran, da un lato, e per mandare un segnale della sua presenza ad altri attori influenti dell’area, come Russia e, soprattutto, Cina. Secondo fonti di AFP e France 24, la risposta israeliana all’attacco del 7 ottobre avrebbe però spinto l’Arabia Saudita a sospendere i colloqui finalizzati a una normalizzazione dei rapporti con Israele, sebbene il consigliere statunitense per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, sostenga che non ci sia una sospensione formale del dialogo. 

Con la prospettiva di un attacco israeliano su vasta scala all’orizzonte, il rischio che si scivoli pericolosamente dalla crisi umanitaria – peraltro già macchiata da evidenti crimini di guerra – al disastro umanitario non può essere sottovalutato e gli sforzi diplomatici andrebbero orientati per evitare un simile scenario. Mantenere aperto il dialogo è, dunque, l’unica via percorribile per liberare gli ostaggi israeliani, salvare gli abitanti della Striscia e scongiurare il rischio di una regionalizzazione del conflitto dalle conseguenze impreviste e imprevedibili.

Immagine in anteprima: Aiuti umanitari a Rafah via ochaopt.org

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