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I giornalisti uccisi nel conflitto Israele-Hamas

20 Ottobre 2023 9 min lettura

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I giornalisti uccisi nel conflitto Israele-Hamas

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Almeno 97 giornalisti uccisi dall'inizio del conflitto a Gaza

Aggiornamento 19 aprile 2024: Dall'inizio del conflitto tra Israele e Hamas, sono 97 i giornalisti uccisi a Gaza, nella maggior parte palestinesi, stando alle segnalazioni raccolte dal Committee to Protect Journalists (CPJ). “I giornalisti svolgono un ruolo essenziale in una guerra. Sono gli occhi e le orecchie di cui abbiamo bisogno per documentare ciò che sta accadendo, e ogni giornalista ucciso, ogni giornalista arrestato diminuisce significativamente la nostra capacità di comprendere ciò che sta accadendo a Gaza “, ha dichiarato Jodie Ginsberg, amministratrice delegata del CPJ. “Questo è il peggior conflitto per i giornalisti che il Committee to Protect Journalists abbia mai documentato, e la situazione sta semplicemente peggiorando”. 

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno detto alle agenzie di stampa Reuters e Agence France Press, lo scorso ottobre, che non potevano garantire la sicurezza dei loro giornalisti che operavano nella Striscia di Gaza, dopo che queste avevano chiesto garanzie che i loro giornalisti non sarebbero stati presi di mira dagli attacchi israeliani, secondo un rapporto della Reuters.

I giornalisti a Gaza affrontano rischi particolarmente elevati nel tentativo di coprire il conflitto durante l'assalto di terra israeliano, tra cui devastanti attacchi aerei israeliani, comunicazioni interrotte, carenze di rifornimenti e ampie interruzioni di corrente.

Il CPJ ha impegnato 300.000 dollari in finanziamenti immediati per i giornalisti palestinesi. I fondi saranno erogati attraverso organizzazioni locali e regionali, in particolare il Sindacato dei giornalisti palestinesi (PJS), l'Arab Reporters for Investigative Journalism (ARIJ) e l'ONG palestinese Filastiniyat, che forniranno assistenza e garantiranno la sostituzione delle attrezzature, i ripari d'emergenza, il cibo e le forniture mediche necessarie.

Diciassette palestinesi, tre israeliani, un libanese: sono ventuno i giornalisti rimasti uccisi da quando Hamas ha sfondato la barriera di sicurezza di Gaza, uccidendo 1.400 persone, lo scorso 7 ottobre, e poi Israele ha dichiarato guerra contro Hamas e iniziato attacchi massicci su Gaza, causando oltre 3.500 morti. Altri otto sono rimasti feriti, tre risultano scomparsi o detenuti.

È il costo pesante di chi sta cercando di documentare e raccontare il drammatico conflitto a Gaza. Più di un giornalista al giorno, stando solo alle segnalazioni raccolte dal Committee to Protect Journalists (CPJ).

“I giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in tempi di crisi e non devono essere presi di mira dalle parti in conflitto”, ha commentato Sherif Mansour, responsabile per il Medio Oriente e Nord Africa del CPJ. “I giornalisti di tutta la regione stanno facendo grandi sacrifici per coprire questo straziante conflitto. Tutte le parti devono prendere provvedimenti per garantire la loro sicurezza”.

La settimana appena trascorsa – fa sapere CPJ – è stata la più letale mai registrata per i giornalisti che coprono Israele e Palestina. Solo nel giorno dell'attacco di Hamas, almeno undici giornalisti sono stati uccisi, feriti, detenuti o sono scomparsi. E purtroppo siamo solo all’inizio.

Le prime sono state Ayelet Arnin, giornalista ventiduenne dell'emittente pubblica israeliana, e Shai Regev, 25 anni, del giornale Ma'ariv, uccise mentre stavano coprendo il festival musicale nel deserto israeliano. Yaniv Zohar, fotografo del giornale Israel Hayom, e la sua famiglia, sono stati uccisi nel kibbutz dove vivevano vicino al confine con Gaza. Amir Tibon, giornalista di Haaretz che vive nello stesso kibbutz, si è salvato rimanendo nascosto in una stanza per dieci ore. Due giornalisti palestinesi, Mohammad Al-Salhi, dell'agenzia di stampa della Fourth Authority, e Ibrahim Lafi, di Ain Media, sono stati uccisi sul lato di Gaza del confine. Mohammad Jarghoun, di Smart Media, è stato colpito e ucciso mentre copriva i combattimenti nel sud di Gaza. Haitham Abdelwahid, anche lui di Ain Media, è scomparso. Altri tre giornalisti sono stati detenuti dalle forze israeliane o feriti. Mentre Roee Idan, fotoreporter di Ynet, che viveva in un altro kibbutz al confine con Gaza, potrebbe essere stato rapito da Hamas. 

Nei giorni successivi all’attacco di Hamas sono stati uccisi altri dieci giornalisti, alcuni di loro freelance e quindi senza coperture né garanzie. È questo il caso di Assaad Shamlakh, ucciso nella sua abitazione l’8 ottobre. Il giorno dopo, tre giornalisti - Seed al-Taweel, Mohammed Sobh e Hisham Alnwajha - sono rimasti uccisi mentre stavano coprendo gli attacchi aerei israeliani su un’area di Gaza che ospita una serie di testate giornalistiche. L'11 ottobre è toccato a Mohamed Fayez Abu Matar, altro giornalista freelance. Il 12 ottobre, anche Ahmed Shehab, della radio Sowt Al-Asra, è stato ucciso mentre era a casa.

Il 13 ottobre un’enorme esplosione ha ucciso Issam Abdallah, un videogiornalista della Reuters, colpito mentre stava documentando dal vivo uno scambio a fuoco tra le forze israeliane e le milizie di Hezbollah nel sud del Libano, appena oltre il confine con Israele. Vicino a lui c’erano almeno altri sei giornalisti di Reuters, Al Jazeera e Agence France-Presse, rimasti feriti. Uno dei colleghi di Abdallah e altri testimoni hanno detto che i missili sono partiti dalla direzione di Israele. Al Jazeera ha affermato che il loro veicolo è stato bombardato e consumato dalle fiamme nonostante la loro squadra si trovasse in un luogo designato insieme ad altri team internazionali e i loro giornalisti fossero identificabili in modo inequivocabile come personale della stampa. “Siamo profondamente preoccupati dal fatto che un gruppo di giornalisti chiaramente identificabili sia stato ucciso e ferito mentre svolgeva il proprio lavoro”, ha commentato Phil Chetwynd, global news director di AFP

“Ovviamente, non vorremmo mai colpire, uccidere o sparare nessun giornalista che sta facendo il suo lavoro”, ha dichiarato Gilad Erdan, l'inviato di Israele alle Nazioni Unite. “Ma siamo in uno stato di guerra. E sono cose che potrebbero accadere”. Alessandra Galloni, direttore responsabile di Reuters, ha chiesto indagini “rapide, approfondite e trasparenti”. Al funerale di Abdallah, i colleghi hanno posato le telecamere sul feretro.

Sempre il 13 ottobre è stata confermata la morte di Husam Mubarak, giornalista della radio Al Aqsa, affiliata ad Hamas, e della giornalista freelance Salam Mema, giornalista freelance, a capo del Women Journalists Committee presso l'Assemblea dei media palestinesi. Il suo corpo è stato trovato tra le macerie della sua abitazione a nord della Striscia di Gaza, colpita da un attacco aereo israeliano il 10 ottobre, secondo quanto riportato dal Sindacato dei giornalisti palestinesi e dall'agenzia di stampa ufficiale dell'Autorità palestinese, WAFA.

Tra il 14 e il 19 ottobre sono stati uccisi altri sei giornalisti: Yousef Maher Dawas, collaboratore di Palestine Chronicle e scrittore di We Are Not Numbers (WANN), un progetto no-profit palestinese guidato da giovani; Abdulhadi Habib, collaboratore delle agenzie di stampa Al-Manara e HQ, ucciso insieme alla sua famiglia da un attacco missilistico che ha colpito il quartiere di Zeitoun, a sud di Gaza City; Mohammad Balousha, giornalista e responsabile amministrativo e finanziario di Palestine Today; Issam Bhar, Sameeh Al-Nady e Khalil Abu Aathra, giornalisti Al-Aqsa TV, affiliata a Hamas.

Le minacce ai giornalisti della regione non sono nuove. Nel 2007 un gruppo islamista a Gaza aveva rapito e trattenuto per mesi un giornalista della BBC. Negli ultimi anni, le forze israeliane hanno bombardato edifici che ospitavano gli uffici dei media, compresi quelli di Associated Press e Al Jazeera, a Gaza. Nel maggio del 2022, la giornalista palestinese-statunitense di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, è stata colpita alla testa mentre faceva il suo lavoro in Cisgiordania. L'esercito israeliano inizialmente ha affermato che Abu Akleh era stata uccisa in un fuoco incrociato con i palestinesi, ma numerose indagini indipendenti hanno concluso che le forze israeliane erano probabilmente responsabili. L'ultimo post di Issam Abdallah su Instagram riportava una foto proprio di Shireen Abu Akleh.

Il contesto particolarmente ostile ha fatto sì che rimanessero sul posto solo fotografi e giornalisti freelance locali che hanno supplito all’assenza di reporter di altri paesi e hanno lavorato anche per i media internazionali, affrontando anche profonde difficoltà logistiche. “La natura del loro lavoro richiede che siano in prima linea, spesso senza buone attrezzature, con scarse garanzie di sicurezza o una redazione dedicata dietro di loro”, spiega Mansour. 

Come Mohammed Mhawish, che ha raccontato la sua esperienza a Brian Stelter di Vanity Fair. O come la giornalista Plestia Alaqad che, dopo aver condiviso per giorni sui social più informazioni possibili su evacuazioni, interruzioni di corrente e bambini separati dalle loro famiglie, ha pubblicato una foto del suo casco azzurro, con sopra la scritta “Press”, e ha affermato di non essere in grado di evacuare Gaza, di essere senza connessione e di dover fare affidamento alla rete Internet di un ospedale. Dopo alcuni giorni di silenzio è riuscita a raccontare che “La situazione sta solo diventando più difficile... per quanto riguarda l'elettricità, la situazione dell'acqua, la situazione alimentare, la situazione medica. Sto facendo del mio meglio per rimanere a terra e coprire ciò che sta accadendo”.

Il caso di Plestia Alaqad non è isolato. Il New York Times ha raccontato le storie di altri giornalisti freelance locali che per far fronte alla carenza di energia e connessione, si sono sistemati in un ospedale. Nel momento in cui Israele ha detto a milioni di persone di fuggire dal nord di Gaza e dirigersi verso sud, le condizioni per documentare quanto accade sono diventate ancora più proibitive.

In Israele, le problematiche sono differenti. Quando Hamas ha sfondato la barriera di sicurezza e iniziato l’assalto, i giornalisti, anche internazionali, sono scesi per strada per documentare quanto accadeva, affrontando anche la minaccia degli missili di Hamas. “È così difficile andare avanti come al solito, quando tutto quello che vuoi fare è rannicchiarti e urlare”, ha detto a Voice of America Linda Dayan, di Haaretz

Clarissa Ward della CNN ha trasmesso in diretta mentre era a terra, in un fosso; il suo collega Nic Robertson si è riparato dalle esplosioni stendendosi sull'asfalto dell'aeroporto di Tel Aviv; Richard Engel della NBC si è nascosto dentro una siepe

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A questo si sono aggiunte altri tipi di minacce all’interno di Israele, riporta un articolo di Columbia Journalism Review. Un veicolo contrassegnato con la scritta “TV” della squadra del servizio arabo della BBC è stato fermato a Tel Aviv dalla polizia israeliana. I giornalisti sono stati fermati e interrogati, mentre uno è stato presumibilmente aggredito mentre cercava di filmare il tutto. Lo scorso fine settimana, alcuni manifestanti di destra hanno assediato la casa di Israel Frey, un giornalista ultra-ortodosso e di sinistra, che aveva pubblicato un video in cui pregava per le vittime delle recenti violenze a Gaza. Secondo quanto riferito, i manifestanti hanno sparato razzi contro l'edificio di Frey e hanno cercato di irrompere nella sua abitazione. Quando la polizia è venuta a portarlo in salvo, Frey ha affermato che gli agenti gli hanno sputato addosso e lo hanno accusato di complicità con Hamas. Circostanza negata dai funzionari della polizia.

Intanto, riferisce Haaretz, il ministro delle Comunicazioni israeliano, Shlomo Karhi – che recentemente aveva proposto una riforma dei media che erano state ritenute una minaccia alla libertà di stampa –  sta ora spingendo per misure ancora più restrittive e dare alla polizia la libertà di sequestrare proprietà, o addirittura arrestare, chiunque diffonda informazioni ritenute dannose per la nazione o utili alla propaganda nemica. Secondo Karhi l’obiettivo è ostacolare il lavoro di Al Jazeera. Al momento non è chiaro se le proposte saranno ritenute legalmente valide ma, osserva CJR, il fatto che i funzionari vi abbiano pensato è un altro segno dell’assedio alla libertà di stampa.

Immagine in anteprima via Instagram

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