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Facile dire fake news. Guida alla disinformazione

22 Febbraio 2017 9 min lettura

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Facile dire fake news. Guida alla disinformazione

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Fake news è uno dei termini più discussi da alcuni mesi a questa parte in un dibattito che ha coinvolto giornalisti, politici, rappresentanti delle istituzioni e di organismi di garanzia. Quasi come una sindrome, la discussione è esplosa soprattutto dopo la Brexit in Gran Bretagna e la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti. I risultati del referendum britannico e delle votazioni statunitensi sarebbero stati in qualche modo l’effetto della diffusione di bufale e di informazioni false, veicolate dai media (in particolare i social, secondo le opinioni più diffuse), in grado di poter orientare le scelte degli elettori, incapaci di saper distinguere tra notizie vere e false. Principale fonte di inquinamento dell’opinione pubblica, le fake news sarebbero diventate addirittura la minaccia delle democrazie, ma come ha detto Cass Sunstein in una recente intervista, “non ci sono dati che permettono di dire che le informazioni false abbiano avuto un effetto massiccio sul risultato delle elezioni”.

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Nel dibattito in corso, sotto questa categoria sono finite cose molto diverse tra di loro: errori giornalistici, bufale, teorie complottiste, contenuti satirici decontestualizzati e utilizzati come fonti giornalistiche, la diffusione di notizie non verificate, la propaganda politica, le informazioni false lanciate da siti messi on line per generare profitti dal click-baiting.

In altre parole, come scrive Philip Di Salvo su Wired, “quello delle fake news è diventato un contenitore vuoto in cui buttare diversi ambiti e altrettanti problemi che, affiancati, finiscono per ammassarsi senza portare a un risultato di senso”. In questo modo è stata appiattita la complessità di una questione molto più sfaccettata, che va oltre la semplice natura delle notizie (vere o false) e chiama in causa la qualità del giornalismo (online e offline) e l’intero ecosistema informativo.

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In un recente articolo su First Draft, Claire Wardle propone di fare un passo in avanti, di andare oltre il semplice utilizzo, quasi fosse un mantra, della parola “fake news”, inutile per descrivere la complessità dei diversi tipi di misinformazione (la condivisione involontaria di informazioni false) e disinformazione (la deliberata creazione e condivisione di informazioni note per essere false), e di capire e spiegare come funziona quello che lei definisce "ecosistema della disinformazione".

In questo senso, Wardle suggerisce di concentrarsi su 3 punti dell’ecosistema dell’informazione, in modo da poter conoscere meglio un ambiente informativo sempre più complesso:

  • Conoscere la grammatica delle fake news, distinguendo tra le diverse tipologie dei contenuti creati e condivisi.
  • Conoscere le motivazioni di chi crea questi contenuti.
  • Conoscere le modalità attraverso le quali tali contenuti vengono disseminati.
  • I sette modi di fare disinformazione

    Claire Wardle individua sette diversi modi di fare disinformazione per arrivare a conoscere una sorta di grammatica delle fake news, che aiuti le persone a sapersi orientare rispetto alla varietà e complessità dei contenuti che circolano.

    Si tratta della rielaborazione di sei tipologie di disinformazione che l'autrice aveva visto circolare durante la campagna elettorale negli Stati Uniti.

    Contesto ingannevole

    Quando il contenuto reale è accompagnato da informazioni contestuali false. Un esempio, da questo punto di vista, è quello della prima campagna pubblicitaria di Donald Trump, che pretendeva di mostrare le immagini di migranti che superavano il confine tra Messico e Stati Uniti, mentre il filmato utilizzato si riferiva a migranti che stavano attraversando la frontiera del Marocco a Melilla in Nord Africa. Si trattava, dunque, di un contenuto vero utilizzato in un contesto sbagliato.

    Contenuto ingannatore

    Quando il contenuto viene spacciato come proveniente da fonti realmente esistenti e invece sono false. Durante la campagna elettorale negli Usa, Eric Trump e la portavoce Kellyanne Conway hanno entrambi retwittato una notizia proveniente dalla versione fake del sito ABC.

    via cjr.org

    Se si guarda con attenzione l'url del sito, ci si accorge che è abc.com.co, non il dominio ufficiale di ABC News. Anche il New York Times e Daily Mail sono stati recentemente copiati. Wardle scrive che c’è un sito, Clone Zone, che permette di fare queste operazioni con facilità.

    Contenuto falso

    Quando il contenuto è completamente falso, costruito per trarre in inganno, trarre profitto, procurare danno contro qualcuno. Un esempio è il sito di adolescenti macedoni che, durante la campagna elettorale, aveva creato articoli di informazioni false esclusivamente per fare soldi con il traffico generato dai clic, come ricostruito da Buzzfeed.

    Informazioni false vengono diffuse anche tramite immagini e video. Durante la campagna elettorale americana, ad esempio, hanno girato molto, in modo non corretto, delle immagini che potevano sembrare talmente autentiche da non essere messe in discussione, che invitavano gli elettori a rimanere a casa perché avrebbero potuto votare via sms.

    via cjr.org

    Contenuto manipolato

    Quando le immagini e i video vengono deliberatamente manipolati per trarre in inganno. Un paio di settimane prima delle elezioni Usa, ha girato una foto che mostra un funzionario di polizia arrestare alcuni votanti in un seggio elettorale.

    via cjr.org

    Una semplice ricerca ha permesso di verificare che la foto originale, risalente alle primarie in Arizona nel mese di marzo, era stata modificata e che i due uomini erano stati aggiunti.

    Uso manipolatorio della satira

    Quando non c'è intenzione di procurare danno, ma il contenuto satirico viene utilizzato per trarre in inganno. Quando Chuck Todd, riporta Wardle, ha intervistato Rudy Giuliani durante la trasmissione Meet the Press, lo ha incalzato su un tweet da lui presumibilmente inviato dopo il primo dibattito tra Trump e Clinton, in cui diceva: “Questo dibattito non è stato il migliore di Donald Trump, ma ce ne sono ancora altri due”.

    via cjr.org

    Quando Giuliani ha chiarito di non aver mai twittato quelle parole, Todd è stato costretto a spiegare ai telespettatori che si trattava di un tweet proveniente da un account satirico dell’ex sindaco di New York.

    Perché vengono creati questi tipi di contenuti?

    Non è sufficiente limitarsi a conoscere le tipologie dei contenuti falsi e ingannevoli. Per riuscire a disarticolare il meccanismo dietro la diffusione di queste informazioni, scrive Claire Wardle, va conosciuto il motivo per cui vengono create. A tal proposito, Wardle ha elaborato uno schema che incrocia i 7 modi di fare disinformazione con 8 possibili motivazioni, che possono spiegare perché tali contenuti vengono prodotti.

    Alcune delle otto motivazioni sono prese in prestito da Eliot Higgins, fondatore di Bellingcat, che spiegando cosa guida le fake news aveva parlato di “4 Ps”: propaganda, profitto (produrre informazioni false allo scopo di ingannare per motivi economici, facendo soldi con il traffico generato dai clic), influenza politica (cioè se i giornali approfondiscono le notizie e affrontano le più importanti questioni quotidiane o se si fanno dettare l’agenda dalla politica), interesse particolare (in caso di siti o fonti che si occupano di temi caldi, come i migranti o le comunità LGBT, ad esempio, andrebbe verificato se il particolare interesse per le questioni trattate sacrifichi l’accuratezza della linea editoriale). A queste, Wardle ne aggiunge altre quattro: faziosità, cattivo giornalismo, fare la parodia, provocare o prendere in giro.

    Si tratta di un lavoro in itinere. Una volta che si inizia a far esplodere queste categorie e a metterle a confronto tra di loro, è possibile osservare la presenza di diversi modelli distinti per tipologie di contenuti creati per obiettivi specifici

    I meccanismi di disseminazione dei contenuti

    A favorire la disseminazione dei contenuti concorrono più elementi. I social network, spiega Wardle, hanno favorito l’atomizzazione delle notizie. In questo modo, essi creano le condizioni per cui “atomi” di propaganda sono diretti in modo mirato a utenti che sono più propensi ad accettare e condividere un particolare messaggio. Una volta che questi hanno condiviso un contenuto ingannevole o falso, altre persone, fidandosi della propria rete di contatti, potranno vederlo e condividerlo a loro volta. Questi “atomi” si diffondono come una scheggia attraverso l’ecosistema informativo alimentati da reti di fiducia tra persone in contatto uno-a-uno tra di loro.

    Sono almeno quattro i canali di diffusione dei contenuti. Una parte è condivisa involontariamente sui social da persone che senza verificare approfonditamente rilanciano o ritwittano informazioni inaccurate o false. Poi ci sono i contenuti amplificati dai giornalisti, che devono diffondere informazioni che emergono dal web e dai social in tempo reale.

    A questi si aggiungono quelli veicolati da gruppi vagamente collegati tra di loro che tentano di influenzare l’opinione pubblica e altri che sono prodotti da campagne sofisticate di disinformazione attraverso reti di Bot e fabbriche di troll. A tal proposito viene fatto l’esempio di un gruppo di adolescenti americani, sostenitori di Trump, che si sono connessi on line per cercare di influenzare in qualche modo le elezioni francesi di aprile 2017, attraverso la creazione di meme facilmente memorizzabili e di immediata comprensione.

    Questi gruppi, spiega Claire Wardle, sfruttano il fatto che siamo meno critici nei confronti delle immagini che guardiamo scorrere ogni giorno o di quelle informazioni che supportano le nostre credenze. Di fronte a un meccanismo di diffusione di informazioni e messaggi così coordinato (come l’esempio degli adolescenti statunitensi prima citato), il nostro cervello avrebbe una facilità maggiore di essere ingannato. Esausti da un continuo flusso informativo, il nostro cervello seguirebbe scorciatoie per definire cosa è credibile e cosa lo è meno. “Quando vediamo più messaggi sullo stesso argomento, finiamo per credere a quelli ai quali siamo più esposti”, prosegue la ricercatrice. “Deve essere vero, diciamo. L’ho visto così tante volte!”

    Come il sovraccarico informativo esaurisce il nostro cervello, così siamo influenzabili, conclude Wardle.

    Cosa possiamo fare?

    Tutti noi ogni volta che accettiamo in maniera passiva le informazioni, condividendo un post, un’immagine, un video, senza prima aver verificato, contribuiamo ad aumentare il rumore e la confusione.

    Noi tutti svolgiamo un ruolo fondamentale in questo ecosistema. (...) Dobbiamo assumerci la responsabilità di controllare in maniera indipendente cosa vediamo online.

    Leggi anche >> Cosa possiamo fare per migliorare l’ambiente digitale in cui viviamo

    Sul punto, Wardle cita quanto detto da Craig Silverman, media editor di Buzzfeed, durante un’intervista a una trasmissione radiofonica, sulla necessità di uno “scetticismo emotivo”. Si tratterebbe cioè di insegnare ad andare oltre le reazioni istintive: “se siete troppo arrabbiati o compiaciuti (perché il vostro punto di vista è stato confermato) per il contenuto di un articolo, ricontrollate”. Un invito, insomma, a prendere del tempo e a non condividere in maniera automatica.

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    A queste riflessioni si aggiungono alcuni consigli di Margareth Sullivan sul Washington Post:

    1) Consulta e confronta più fonti di informazione
    2) Non condividere senza verificare
    3) Se diffondi un contenuto falso, cerca di correggere velocemente
    4) Cerca di avere un atteggiamento scettico verso l’informazione
    5) Usa il pensiero critico

    Infografiche a cura di Marco Tonus

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