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Processo ad Assange: una delle accuse si basa su un crimine che non è stato commesso

2 Ottobre 2020 7 min lettura

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Processo ad Assange: una delle accuse si basa su un crimine che non è stato commesso

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Aggiornamento 2 ottobre 2020, ore 13:00:

Nell'articolo è stata aggiunta questa frase: "E in seguito ha aggiunto 17 capi d'accusa per spionaggio nel maggio 2019". Di questo avevamo parlato in un articolo del 2019.

In questi giorni è in corso a Londra il procedimento giudiziario per decidere se il fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, sarà estradato negli Stati Uniti, dove è accusato di 18 capi d’imputazione, tra cui cospirazione e violazione della legge sullo spionaggio. Se processato negli Stati Uniti, Assange rischierebbe una condanna fino a 175 anni di carcere. Il tribunale inglese ha ascoltato tutti i testimoni sul caso, i giudici comunicheranno la loro decisione il 4 gennaio 2021, informa il giornalista di Shadowproof, Kevin Gosztola, che sta seguendo le udienze.

Nel 2013 l'amministrazione Obama era giunta alla conclusione che non avrebbe mai potuto accusare Julian Assange di crimini relativi alla pubblicazione di documenti classificati senza criminalizzare il giornalismo investigativo. Quei documenti mostravano, tra le altre cose, prove di crimini di guerra statunitensi in Iraq e Afghanistan. Se dovessimo considerare Assange un criminale per aver pubblicato su WikiLeaks informazioni riservate, il New York Times sarebbe altrettanto colpevole.

Cinque anni dopo, nel 2018, l'amministrazione Trump ha comunque incriminato Assange. Ma, invece di accusarlo di spionaggio per aver pubblicato informazioni classificate, lo ha accusato di un crimine informatico. Solo in seguito ha aggiunto 17 capi d'accusa per spionaggio nel maggio 2019.

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Secondo uno dei capi d'accusa, Assange avrebbe cospirato con la sua fonte, l'analista dell'intelligence dell'esercito americano Chelsea Manning, per violare la password di un computer della sua base militare. Secondo l'accusa, "lo scopo principale della cospirazione era quello di facilitare l'acquisizione e la trasmissione di informazioni riservate da parte di Manning".

È importante precisare, però, che Manning in quel momento godeva già di un accesso autorizzato a tutti i documenti che avrebbe poi passato a WikiLeaks, inclusi i cablogrammi del Dipartimento di Stato.

Come spiega il giornalista Micah Lee, in un articolo pubblicato su The Intercept, l'intero caso contro Assange si basa su una breve discussione, tra un "editore" (Assange/WikiLeaks) e una "fonte" (Manning), sulla possibilità di crackare una password governativa. Ma l'unico crimine informatico di cui si parla, ossia la violazione della password, non è mai accaduto.

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E come ha confermato una nuova testimonianza durante l'ultima settimana del procedimento di estradizione, il presunto hacking non solo non è mai avvenuto, ma non si sarebbe mai potuto realizzare con le informazioni di cui disponeva Assange. Ecco perché l'accusa contro il fondatore di WikiLeaks risulta incredibilmente debole.

I fatti per cui Assange è sotto accusa e i rischi per il giornalismo investigativo

Secondo l'atto d'accusa, intorno all'8 marzo 2010, quando Manning aveva già scaricato tutto il materiale che poi sarebbe stato pubblicato da WikiLeaks (tranne i cablogrammi del Dipartimento di Stato, a cui però aveva già un accesso autorizzato), l'informatore avrebbe fornito ad Assange parte di un "hash della password" per accedere a un account governativo. Durante quello scambio Assange avrebbe accettato di aiutare Manning.

Ma come sottolinea il sito investigativo Shadowproof, durante l'udienza della corte marziale di Manning nel giugno 2013, David Shaver, un agente speciale dell'Unità investigativa sui crimini informatici dell'esercito, aveva già testimoniato che Manning aveva fornito ad Assange solo una parte dell'hash della password e che, solo con quella parte, non era possibile recuperare la password originale. Durante le udienze di questa settimana per il procedimento di estradizione, Patrick Eller, ex Command Digital Forensics Examiner presso il Criminal Investigation Command dell'esercito americano, ha confermato la testimonianza di Shaver del 2013 secondo cui Manning non avrebbe fornito ad Assange informazioni sufficienti per decifrare la password. Ha sottolineato: "L'unica serie di documenti citati nell'accusa che Manning ha inviato dopo il presunto tentativo di violazione della password erano i cablogrammi del Dipartimento di Stato", ma in quel momento Manning godeva già di un "accesso autorizzato a questi documenti".

Eller ha espresso esplicitamente i propri dubbi rispetto all'accusa di cospirazione e ha testimoniato che altri soldati della base militare in cui si trovava Manning cercavano regolarmente di violare le password degli amministratori sui computer per installare programmi che non erano autorizzati. "Mentre Manning discuteva delle password nella chat con Assange, stava parlando degli stessi argomenti con i suoi colleghi", ha dichiarato ai giudici. Secondo Eller, l'interesse dell'analista militare a decifrare la password potrebbe non aver avuto nulla a che vedere con i documenti riservati che questa password proteggeva (e a cui Manning aveva già accesso).

Dopo la citata conversazione in chat con Manning nel marzo 2010, Assange non ha mai decifrato la password.

Per quanto assurdo possa sembrare, è su questo che si basa l'intera causa per crimini informatici del governo americano contro Julian Assange: una breve discussione tra un "editore" e la sua "fonte" sul cracking di una password, che non è mai accaduto e mai sarebbe potuto accadere con le informazioni in loro possesso.

L'accusa, quindi, non riguarda un crimine informatico realmente avvenuto, motivo per cui potrebbe stabilire un precedente legale pericolosissimo che permetterebbe di accusare gli editori di cospirazione con le loro fonti, qualcosa che finora il governo degli Stati Uniti non ha mai fatto, per rispetto al Primo Emendamento.

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Come scrive Lee su The Intercept: "I giornalisti hanno una relazione con le loro fonti. Queste relazioni non sono cospirazioni criminali. Anche se una fonte finisce per infrangere una legge per fornire al giornalista informazioni riservate, il giornalista non ha commesso un reato ricevendole e pubblicandole. Che voi consideriate o meno Assange un giornalista non è importante. Il New York Times ha appena pubblicato rivelazioni rivoluzionarie sugli ultimi due decenni di tasse di Donald Trump che mostrano un'oscena elusione fiscale, frodi massicce e centinaia di milioni di dollari di debito. Trump non vorrebbe altro che poter accusare lo stesso New York Times e i singoli giornalisti che hanno raccontato quella storia di crimini per aver cospirato con le loro fonti. Questo è il motivo per cui la creazione di un precedente nel caso di Assange è così importante: se Assange perde, il Dipartimento di Giustizia avrà stabilito nuove tattiche legali con cui perseguire gli editori per aver cospirato con le loro fonti."

Cosa è emerso in tribunale: i presunti piani americani per rapire o avvelenare Assange

Durante le udienze dell'ultima settimana, sono emersi anche nuovi dettagli sull'operato della società di sicurezza privata spagnola, UC Global, che avrebbe spiato per conto della CIA Julian Assange e tutte le persone con cui si è riunito mentre si trovava nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra.

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La società, che forniva servizi di sicurezza all'ambasciata, avrebbe consegnato ai servizi segreti americani audio e video delle riunioni che Assange ha tenuto con i suoi avvocati e sostenitori all'interno dell'ambasciata, violando le leggi sulla privacy e sul segreto professionale. Il suo fondatore e direttore, David Morales, è attualmente sotto indagine in Spagna.

I dettagli dell'operazione di spionaggio contro Assange sono stati presentati al tribunale mercoledì da un ex dipendente della società di sicurezza e da un ex collaboratore informatico, che hanno testimoniato sotto anonimato per paura di ripercussioni.

 

Secondo le testimonianze, mentre la sua società si occupava di sorvegliarlo 24 ore su 24 con videocamere e microfoni nascosti, Morales avrebbe discusso con fonti dell'intelligence statunitense persino la possibilità di rapire o avvelenare il fondatore di WikiLeaks.

Uno dei testimoni era stato incaricato nel dicembre 2017 di installare nuove telecamere presso l'ambasciata che, a differenza delle precedenti, avrebbero anche registrato l'audio. In seguito, il direttore della società gli avrebbe dato istruzioni per trasmettere le riprese in live streaming, “in modo che i nostri amici negli Stati Uniti”, come li chiamava Morales, potessero accedere in tempo reale all'ambasciata.

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Il tecnico in seguito a questa richiesta, considerata insolita, avrebbe risposto che non era una cosa tecnicamente realizzabile. Morales gli avrebbe quindi inviato documenti con istruzioni dettagliate su come farlo. Il testimone avrebbe rifiutato dicendo che era un'operazione palesemente illegale.

Lo stesso testimone ha inoltre dichiarato che in un'occasione, nel 2017, Morales avrebbe detto che i suoi contatti americani avevano pensato anche a "misure più estreme". Gli americani avrebbero addirittura suggerito l'idea di lasciare la porta dell'ambasciata aperta per permettere a delle persone di entrare dall'esterno e rapire o avvelenare Assange.

(Immagine via Wikimedia)

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