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Adozioni in Italia: per capire cosa non funziona dobbiamo ascoltare le persone adottate

28 Gennaio 2024 11 min lettura

Adozioni in Italia: per capire cosa non funziona dobbiamo ascoltare le persone adottate

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Quando si parla di adozioni in Italia si fa spesso riferimento al limbo in cui vengono lasciate le famiglie che intendono adottare, ai tempi di attesa molto lunghi e alle difficoltà che le coppie affrontano. Le famiglie che hanno adottato un minore straniero nel 2022, ad esempio, hanno dovuto aspettare circa 4 anni e mezzo. Un periodo che va dalla dichiarazione di disponibilità all’autorizzazione dell’arrivo del minore in Italia; sei mesi in più rispetto all’anno precedente. L’aumento è stato riscontrato soprattutto nel periodo che intercorre tra il conferimento dell’incarico e l’abbinamento del minore, che può durare anche oltre due anni. 

Come spiega però a Valigia Blu Monya Ferritti, presidente del Coordinamento CARE che supporta e promuove l’associazionismo familiare adottivo e affidatario, è la prospettiva a essere sbagliata: “Sembra che il tempo che separa una coppia che decide di adottare dall’adozione sia la cosa più importante”. Non lo è: a esserlo piuttosto “è il tempo che ci mette il bambino da quando è adottabile a quando trova una famiglia” e “il vero collo di bottiglia” per le famiglie non è la fase che precede l’adozione quanto “il post-adozione”, ancora troppo trascurato.

Come funzionano le adozioni in Italia

Le adozioni in Italia sono regolate dalla legge n.184 del 4 maggio 1983, che stabilisce requisiti, diritti e possibilità di chi vuole adottare e di chi può essere adottato. Sono considerate idonee ad adottare coppie sposate o in convivenza stabile da almeno 3 anni, durante i quali non è avvenuta una separazione, neppure “di fatto”. La differenza di età tra chi adotta e chi viene adottato deve essere compresa tra i 18 e i 45 anni, a meno che: la mancata adozione provochi un danno grave al minore; l’età di uno dei due coniugi superi i limiti prestabiliti, ma mai oltre i dieci anni; la coppia abbia già figli, di cui almeno uno minorenne; la coppia intenda adottare un fratello o una sorella di un minore già da loro adottato. Una persona minorenne può essere adottata se ne viene accertato lo stato di abbandono per mancanza di assistenza morale e materiale, a meno che questa non sia dovuta a cause di forza maggiore temporanee. I coniugi invece devono essere considerati “affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori”.

Anche le persone single possono adottare nel nostro paese, ma solo in casi particolari, e cioè se un minore che sia orfano di padre e di madre è disabile; se è stata accertata l’impossibilità di affidamento preadottivo, perché ad esempio non è stata trovata una coppia considerata adeguata a crescere il minore; se è legato alla persona che intende adottarlo da un legame di parentela fino al sesto grado o da un rapporto affettivo stabile, anche in seguito a un lungo periodo di affidamento. La legge del 1983 ammette anche l’adozione del figlio del coniuge.

Chi vuole adottare può fare richiesta di adozione nazionale e/o internazionale, attraverso procedure diverse. In entrambi i casi le coppie presentano una dichiarazione di disponibilità all’adozione al tribunale dei minorenni del territorio di residenza, che a sua volta incaricherà i servizi socioassistenziali di verificare l’idoneità dei richiedenti. Se nel caso delle adozioni nazionali, però, il ruolo principale è svolto dal tribunale, più complessa è la rete attorno a quelle internazionali. Nel 1993 infatti la Convenzione dell’Aja ha introdotto una serie di regole nel rispetto del minore. Tra queste, ogni paese firmatario ha il compito di designare un’autorità centrale per la gestione e il rispetto della Convenzione, in Italia rappresentata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI). A sua volta, la CAI ha individuato degli Enti Autorizzati, a cui le famiglie devono rivolgersi per farsi accompagnare nel percorso e per seguire la procedura nel paese straniero.

Le modifiche alla legge

Modificata e aggiornata negli anni, la legge sulle adozioni in Italia è stata al centro di un nuovo dibattito lo scorso anno con una proposta di legge sottoscritta da 15 deputati di Fratelli d’Italia. Il testo ha lo scopo di alleggerire i requisiti delle coppie e ridurre i tempi del processo di adozione, andando però in una direzione diversa se non del tutto contraria rispetto a quello che dice chi lavora nel settore. “Se la legge ha delle lacune, ce le ha nel suo non essere aggiornata alla realtà dell’adozione di oggi, ma non tanto nei tempi quanto nelle caratteristiche e necessità che hanno i minori in stato di abbandono”, dice Monya Ferritti.

Più che ridurre le tempistiche, sarebbe allora invece importante dare maggiore spazio alla formazione, al processo di consapevolezza delle famiglie e alla fase della post-adozione, anche dato il contesto attuale. Rispetto al passato, infatti, i minori stranieri adottabili oggi sono soprattutto quelli definiti con special needs, nella cui categoria rientrano coloro che hanno più di 7 anni; che sono disabili o in cui è stato individuato un trauma o un problema comportamentale; che hanno fratelli e/o sorelle. 

Si tratta di situazioni complesse, soprattutto in presenza di più fattori contemporaneamente, per cui secondo Ferritti è difficile che “una coppia possa maturare la capacità per questo tipo di accoglienza” già nei tempi previsti dalla legge e che la nuova proposta vorrebbe ulteriormente ridurre. Anche le modalità e la qualità della formazione andrebbero riviste. Per quanto l’obiettivo sia quello di uniformarla, ad oggi infatti non esiste una procedura univoca: “Ogni regione in Italia fa da sé e spesso anche all’interno di una stessa regione esistono procedure diverse”, ha spiegato Ferritti, che considera i percorsi di formazione al momento disponibili come “una base, ma non sufficiente”.

Un altro nodo di cui si è parlato di recente in Italia è quello che riguarda i contatti con la famiglia d’origine. In Inghilterra e Galles, ad esempio, i genitori biologici possono mantenere i contatti col proprio figlio tramite lettere, foto e a volte incontri, attraverso l’ente responsabile della procedura di adozione. Anche in Francia esiste la possibilità di mantenere i rapporti con la famiglia d’origine, attraverso la cosiddetta “adozione semplice” o “aperta”. La legge italiana al momento non prevede questa possibilità, ma qualcosa sta cambiando: attraverso una sentenza depositata a settembre 2023 la Corte di Cassazione ha aperto infatti a questa opportunità, stabilendo che “per le relazioni di natura socio-affettiva non si può ritenere, in termini assoluti, che la loro cessazione realizzi in ogni caso l’interesse del minore”, e che l’attuale disciplina delle adozioni non impedisce in realtà al giudice di valutare piuttosto il contrario. 

Mantenere i contatti con la propria famiglia biologica, qualora ciò non rappresenti un rischio all’incolumità e al benessere del minore, ha un ruolo importante nella costruzione della propria identità e nella conoscenza della storia personale, familiare e medica, e può attutire il trauma della separazione - tutti pezzi mancanti per chi non può entrare in contatto con le proprie origini. Allo stesso tempo, secondo Monya Ferritti, “se un tribunale individua l’importanza di preservare certi rapporti, va fatto un importante lavoro di formazione e accompagnamento per le famiglie che adottano, perché la gestione degli aspetti emotivi del bambino non è semplice”.

I limiti e le criticità delle adozioni internazionali

Non è solo l’aspetto legale su cui associazioni e persone adottate riflettono da tempo, e non solo in Italia: è il sistema in sé oggi a essere sotto i riflettori, in particolare quello delle adozioni internazionali.

Per anni nel nostro paese le adozioni internazionali sono state molto più diffuse di quelle nazionali, e tra il 2004 e il 2014 l’Italia, insieme alla Francia e alla Spagna, era il paese europeo con il più alto numero di minori provenienti da fuori Europa. Oggi non è più così e negli ultimi anni è stato registrato un forte calo, e varie sono le ragioni. Un primo limite è costituito dall’elevato costo delle procedure. Adottare un bambino dall’estero infatti può voler dire dover pagare anche decine di migliaia di euro, una spesa che porta alcune famiglie a richiedere anche prestiti bancari: per quanto sia previsto un rimborso sulla base dell’ISEE, dover affrontare questo tipo di costi per accogliere un minore non può che incidere sulle scelte economiche e personali di una famiglia.

Nel frattempo, le procedure si sono fatte più incerte e complicate. Alcuni paesi d’origine, ad esempio, hanno scelto di chiudere alle adozioni internazionali, spesso sospendendo anche le pratiche già in atto. Tra questi ci sono la Polonia, l’Etiopia, la Russia, l’Ucraina e la Cina, e in molti casi si tratta di scelte politiche: “I paesi si interrogano sul significato di essere luogo d’origine di adozione internazionale”, dice Ferritti, “e se vogliono essere politicamente ed economicamente forti, avere un certo numero di bambini che vanno in adozione internazionale è un elemento” che non può non avere un peso. Anche le nuove regole in vigore in Italia hanno giocato un ruolo importante in questo senso. 

Fino all’istituzione degli Enti Autorizzati, le coppie a cui era stata riconosciuta l’idoneità potevano muoversi autonomamente e scegliere come, dove e soprattutto chi adottare: così è nato un vero e proprio “mercato”, che per molti anni ha reso le adozioni internazionali la scelta preferita dalle famiglie che volevano adottare. Oggi le cose sono molto cambiate: con un maggior numero di minori stranieri adottabili con i cosiddetti special needs, “nessuno può più pensare che adottare all’estero sia una ‘via più rapida’ per avere il figlio desiderato, così come lo si immagina o lo si desidera”, ha detto il vicepresidente della Commissione Adozioni Internazionali Vincenzo Starita.

Nel frattempo, sempre più indagini e contestazioni dal basso in tutto il mondo hanno portato alla luce irregolarità nel sistema e la necessità di riflettere sul legame tra adozioni interrazziali e colonialismo. In Armenia, ad esempio, si sta indagando su un presunto traffico di minori, mentre il Nepal venne accusato di frode nei processi di adozione. Anche le principali destinazioni delle adozioni internazionali sono state costrette a fare i conti con un passato di procedure illegali e abusi di potere: è il caso della Svezia, dei Paesi Bassi, dell’Australia e della Danimarca. In Francia uno studio del 2023 ha portato alla luce numerosi soprusi e irregolarità nel sistema delle adozioni dal 1979. Tra questi, sono emersi il “traffico di minori” in Cile, Paraguay e Perù, i casi di “corruzione” in Cambogia, i “rapimenti” e l’abbandono forzato “di neonati da parte di madri molto giovani” per rispondere alle richieste “di genitori adottivi francesi” in Madagascar.

Raccontando la sua esperienza di persona nata in Cina e adottata in America, Kimberly Rooney 高小荣 ha parlato dell’impronta colonialista delle adozioni internazionali: “L’adozione, specialmente quella interrazziale e internazionale, è profondamente politica, intrecciata com’è con le storie di guerra, imperialismo, schiavitù e genocidio” e “questa narrazione del salvatore bianco […] e della necessaria gratitudine delle persone adottate è radicata nella supremazia bianca”. Le conseguenze di ciò sono tutte sulle spalle delle persone adottate: l’assimilazione forzata a un contesto estraneo e spesso razzista, la scissione identitaria, la mancanza di contatto con le proprie radici, la descrizione dell’adozione come unica forma di salvezza e garanzia di un futuro migliore e della famiglia adottiva come salvatrice e depositaria di questa opportunità costituiscono per molti un trauma profondo.

Le narrazioni fuorvianti dell’adozione

Anche in Italia, seppure a rilento, si sta iniziando a riflettere sul modo in cui concepiamo e parliamo di adozioni, e questo grazie soprattutto al lavoro e all’esperienza di chi ne è protagonista. È il caso ad esempio di Legami Adottivi, un’organizzazione di volontariato le cui fondatrici hanno scelto di partire dalla loro storia di donne adottate per aprire spazi di confronto e crescita su accoglienza, antirazzismo e inclusione. O della scrittrice Espérance Hakuzwimana, che ha parlato del rapporto tra adozioni internazionali, neocolonialismo e classismo, e dell’importanza di spostare l’attenzione dai genitori adottivi alla storia della persona adottata.

Il Coordinamento CARE invece ha stilato un documento di linee guida e consigli per i media, per contrastare le narrazioni fuorvianti più diffuse. Tra queste ad esempio vi è il ruolo che assume l’adozione nei fatti di cronaca: “Quando una persona adottata, anche adulta, finisce sui giornali, la prima cosa che viene detta è che è stata adottata, come un’etichetta che ti resta appiccicata addosso. Questo nel lettore insinua l’idea che si trattasse di un legame non vero, di serie B, o che la causa del fatto di cronaca risiede nella genetica e in tutto lo stigma che l’adozione si porta dietro”, ha spiegato Monya Ferritti, che è anche autrice del saggio Il corpo estraneo e dell’omonimo blog, su cui spesso analizza il modo in cui i media parlano di adozione.

Un’altra tendenza molto diffusa è la cosiddetta “corsa all’adozione”, che si ripresenta solitamente in caso di conflitti, catastrofi naturali o situazioni di emergenza. Con la guerra in Ucraina e nella Striscia di Gaza, ad esempio, si è iniziato a parlare della possibilità di adottare “orfani” o “minori abbandonati”, non tenendo però abbastanza in considerazione la difficoltà di verificare queste condizioni in uno stato di emergenza, e sottovalutando gli aspetti traumatici di un conflitto e di un eventuale e improvviso sradicamento dei minori in un paese straniero. 

Di “corsa all’adozione” si parla anche in relazione alle notizie di neonati abbandonati in Italia. È quello che è successo ad esempio con la bambina lasciata in una culla termica di una parrocchia di Bari a dicembre 2023: è stato infatti riportato che molte famiglie avrebbero dato disponibilità alla sua adozione rivolgendosi al Policlinico di Bari dove la neonata era stata trasferita, semplificando però anche qui quelle che sono le necessarie procedure per poter fare richiesta di adozione, e che esistono proprio per la tutela del minore. Un altro recente caso di cui i media hanno parlato a lungo è quello che ha coinvolto Enea, il neonato lasciato nella “Culla per la vita” alla Clinica Mangiagalli di Milano e di cui è stato raccontato ogni dettaglio personale a disposizione. Così Monya Ferritti ha commentato queste vicende: “La storia di questi neonati viene data in pasto all’opinione pubblica prima ancora che sia loro”.

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Il futuro delle adozioni

Per immaginare un futuro delle adozioni è necessario che si riporti allora al centro del discorso la tutela del minore, ma per farlo il sistema va aggiornato da un punto di vista sia legislativo sia concettuale e di significato. La semplificazione dei processi per l’adozione da parte delle persone single, l’apertura alle coppie non eterosessuali, gli investimenti per aumentare il personale nei tribunali e nei servizi socioassistenziali, i percorsi di formazione più approfonditi per le famiglie e una maggiore attenzione alla fase post-adozione sono tra le proposte che molte associazioni e persone adottate hanno avanzato negli anni per offrire nuove e valide opportunità a minori in situazioni di bisogno. Allo stesso tempo, anche ripensare all’impatto delle adozioni internazionali e interrazziali diventa fondamentale in questo senso. Nel Regno Unito, ad esempio, si cerca per quanto possibile di abbinare minori adottabili e famiglie appartenenti a una stessa etnia, per ridurre le possibilità che un bambino si ritrovi in un contesto razzista.

Nel caso delle adozioni nazionali, secondo Ferritti invece, il problema andrebbe affrontato già a monte: “Se le risorse venissero davvero destinate alla protezione dell’infanzia, si aiuterebbero le famiglie d’origine in difficoltà”. Secondo la presidente del CARE, infatti, “Avremmo bisogno di risorse economiche e di personale per aiutare le famiglie a non perdere i loro figli, attraverso percorsi di genitorialità consapevole”, e offrendo “molto più supporto a chi è in difficoltà economica, lavorativa e abitativa”. Perché, ha spiegato Ferritti, “se come paese vuoi davvero proteggere i tuoi figli, la prima cosa da fare è lavorare sui genitori”.

Immagine in anteprima via easy-law.com

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