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Il bimbo lasciato al Mangiagalli e l’ennesima occasione mancata per rispettare il diritto di scelta

12 Aprile 2023 8 min lettura

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Il bimbo lasciato al Mangiagalli e l’ennesima occasione mancata per rispettare il diritto di scelta

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Per una volta proviamo a non affrontare un argomento partendo dai numeri, soprattutto quando sono vaghi e non servono molto a illustrare un fenomeno. Non sappiamo davvero quanti siano i parti in anonimato: c’è un numero, 400 all’anno, che rimbalza di articolo in articolo da oltre un decennio, ma è solo una stima, perché non esiste un’anagrafe dei neonati non riconosciuti alla nascita, né – giustamente – delle persone che li hanno messi al mondo e hanno scelto di non allevarli. L’anonimato dovrebbe servire a quello: a essere anonime. Non registrate, non rintracciabili.

Della “Culla per la vita” collocata alla Mangiagalli di Milano, una delle tante donate e installate dal Movimento per la Vita (organizzazione che si oppone alla libera scelta delle donne nell’ambito riproduttivo e della maternità: non è un dettaglio secondario) sappiamo che dalla sua inaugurazione nel 2007 ha accolto tre bambini, ma non è sul numero secco che si misura la validità di un’iniziativa, soprattutto quando questi numeri sono tutt’altro che verificabili. Nel caso che ha fatto esplodere le polemiche di questi giorni, il punto non è certo quanti siano i bambini affidati alle cure della comunità con la versione moderna della ruota degli esposti, che tanti Innocenti, Sperandio e Diotallevi ha dato al mondo, ma quanti e quali siano gli ostacoli all’autodeterminazione delle donne e delle persone gestanti, nonché al diritto dei bambini di crescere in un ambiente sicuro e protetto, se non proprio di venire al mondo nelle condizioni migliori possibili. Il problema è il rapporto che abbiamo con la volontà delle donne, che ci pare a turno trascurabile, scavalcabile o direttamente qualcosa che va soppresso perché pericoloso per l’ordine costituito.

Di certo non staremmo parlando della questione se alla base di tutto non ci fosse un abuso, e da quell’abuso non si fosse scatenato un uragano di paternalismo che ha generato mille altre discussioni parallele finché si è perso di vista cosa era successo davvero. Inizia tutto con una storia che non doveva arrivare ai media nazionali, quella di un neonato trovato dentro la famosa culla della Mangiagalli con un bigliettino che contiene il suo nome e un’indicazione commovente: la sua mamma non può prendersi cura di lui, ma chiede di coccolarlo. Il bimbo sta bene, è curato e in salute. Le varie testate che ne parlano riportano vari dettagli, nonché gli appelli del personale sanitario perché la mamma “ci ripensi” e “faccia marcia indietro”.

Questo è un abuso, una violazione delle norme che consentono alle donne di partorire in anonimato e non riconoscere il neonato. Niente di quella storia doveva essere rivelata, soprattutto non il nome del bambino, che rende la donna che l’ha fatto nascere potenzialmente identificabile e va, quindi, contro la sua volontà. Il dettaglio straziante del nome scritto sul biglietto, insieme a quella richiesta di coccole che spezzano il cuore solo a pensarci, viene interpretata dai sanitari come un invito a scavalcare quella volontà, piuttosto che a tenerne conto e rispettarla.

Gli ha dato un nome, e qui i numeri non ci aiutano, ci vuole l’umanità: dare un nome è un atto intimo, stabilisce una relazione. Qui ci si divide fra chi pensa che se arrivi a separarti da qualcuno che per te è già tuo figlio significa che hai fatto una scelta, che ci hai pensato, e quella è la soluzione migliore; e quelli che invece pensano di sapere meglio di te quale sia la scelta più giusta, e che comunque ritengono che la tua volontà debba essere messa in discussione. Ci si è messo pure Ezio Greggio, che da vera superpotenza mediatica qual è ha lanciato un appello perché la “mamma vera” del bambino ci ripensi.

Lasciamo da parte per un momento la distinzione fra “mamma vera” e gli altri tipi di mamma, che quindi non possono che essere “mamma falsa”, perché non è il primo dei nostri problemi. La questione, come sempre, è più ampia: ha a che vedere con l’idea che le donne siano esseri ontologicamente incompiuti, incapaci di prendere decisioni autonome, e che il loro giudizio debba essere sempre soggetto a una valutazione esterna, più alta, adulta. Succede in ogni ambito, ma soprattutto quando in gioco ci sono il corpo, l’intimità e la maternità: esiste un’autorità superiore, radicata nell’immaginario collettivo, che si incarna di volta in volta in persone di famiglia, comunità allargata, media nazionali e politici di ogni ordine e grado, e che ti spiega come devi comportarti, quali scelte fare e a cosa dovresti adeguarti. Un paternalismo onnipresente, praticamente immutato nei secoli, identificato con spietata chiarezza da Simone De Beauvoir quando scrisse che le donne erano “il secondo sesso”, l’Altro che si deve rapportare con l’Uno, quel maschile che si pone al centro del mondo credendosi qualità universale e che serve da misura di ogni cosa.

Anche la maternità ha subito nei secoli questo trattamento: è stata standardizzata, ridotta e inscatolata in una retorica soffocante che l’ha elevata a momento di massima realizzazione dell’essere umano femmina, derubricando difficoltà, sofferenze ed errori a dettagli trascurabili e ostacoli momentanei. La donna che ha affidato suo figlio alle cure della comunità, quindi, sarebbe una donna che sbaglia, perché rifiuta quella realizzazione suprema. La sua decisione viene ascritta in automatico a presunte difficoltà economiche, che nell’immaginario comune sono l’unico motivo possibile per non avere figli oppure, in questo caso, per decidere di rinunciare a crescerli. Alla “mamma vera” viene offerto aiuto economico, come da onorata tradizione dei Movimenti per la Vita, che da sempre tentano di dissuadere le donne dall’interrompere una gravidanza offrendo soldi, piccoli contributi monetari da privati. Queste tattiche si affiancano alla colpevolizzazione e alla disinformazione circa i metodi e le conseguenze dell’IVG, e sono considerate mezzi leciti allo scopo di manipolare le donne e impedire loro di esercitare il loro diritto ad autodeterminarsi (che nel nostro ordinamento è più simile a una concessione che a un diritto vero e proprio). L’aborto, una decisione di grande responsabilità personale, viene ostacolato come se mettere al mondo un figlio indesiderato non fosse di gran lunga l’opzione peggiore fra le due.

Le donne, dicevamo, sono considerate esseri incompleti, irresponsabili, capricciosi, e le norme che le riguardano spesso riflettono questa concezione. La legge sulla procreazione medicalmente assistita varata nel 2004, per esempio, proibisce il parto in anonimato alle donne che hanno concepito tramite PMA, allo scopo di “responsabilizzare” chi fa ricorso a questa pratica. Si tratta di una probabilità trascurabile: il percorso della PMA è difficile e faticoso, dal punto di vista psicologico e fisico, e le donne che lo intraprendono non lo fanno certo per noia o curiosità o senza averne piena coscienza. La logica della norma, però, è punitiva: l’hai voluto e te lo tieni. Così impari ad andare contro il volere della natura e di Dio: non dimentichiamoci in prima fila fra i promotori dell’astensione al referendum abrogativo della legge 40 c’era proprio la Chiesa Cattolica.

Il pensiero binario sulla maternità, e in generale la filiazione, fatica ad accettare che possano esistere modi di essere genitore che non siano quelli che passano dal legame diretto di sangue. Il richiamo di Ezio Greggio alla “vera madre” del bimbo lasciato in affido viene da lì, dall’idea che la madre sia quella che partorisce e non quella che cura, ma soprattutto dall’idea che la maternità (e per estensione la genitorialità) non possa essere condivisa, ma debba per forza essere in capo a una persona sola, la donna, che all’atto della nascita deve decidere se proseguire nel percorso o rinunciarvi per sempre. 

Una terza via, in cui chi partorisce e chi alleva condividano lo spazio di affettività e presenza nella vita del figlio anche quando la prima è incapacitata a farlo da sola, non è prevista dal nostro ordinamento. In altri paesi (come gli Stati Uniti) esiste l’istituto dell’adozione aperta, che consente a chi ha un figlio ma non sente di poterlo allevare di renderlo adottabile pur conservando un legame affettivo. Un modo di essere famiglia che è meno traumatico rispetto alla cesura drastica della rinuncia alla maternità, e che viene praticato in maniera informale anche nel nostro paese: non è infrequente sentire di figli di madri adolescenti o fragili cresciuti dai nonni o dagli zii. 

In Sardegna esistono i fillus de anima, raccontati da Michela Murgia nel suo romanzo Accabadora: figli cresciuti da famiglie non di sangue per un accordo interno alla comunità che permette di condividere la genitorialità. Anche Sabrina Efionayi, nel podcast Storia del mio nome e nel romanzo Addio, a domani (pubblicato da Einaudi), racconta la sua storia di bambina con due madri: Gladys, che l’ha partorita ma non poteva tenerla con sé, e Antonietta, che l’ha accolta su richiesta di Gladys ed è diventata la sua madre affettiva.

Non sappiamo quali difficoltà stia attraversando la donna che ha lasciato suo figlio alla Mangiagalli, ma sappiamo che esistono molti motivi per ritenere di non poter essere madre. La salute mentale, per esempio, al di là della depressione post-partum che insorge anche in quelle dotate delle reti sociali più solide, figuriamoci in quelle che se la devono cavare da sole, o che possono contare solo sul compagno (o sulla compagna). Una donna affetta da un disturbo mentale potrebbe ritenere – non a torto - che il posto più sicuro per il suo bambino sia lontano da lei. Oppure, una donna potrebbe essere troppo giovane per sentirsi in grado di crescere un figlio, e tuttavia già capace di prendere una decisione responsabile come quella di metterlo in mani sicure. Con il retropensiero non si fa niente, ma le cronache sono piene di bambini morti in seguito agli abusi di madri che non li volevano, e che avrebbero fatto benissimo ad affidarli alla comunità.

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Quando invece le difficoltà sono davvero di ordine economico, è qui che il discorso si fa davvero acrobatico. Anche nel caso del neonato di Milano, la risposta è sempre verticale sul singolo: la donna in difficoltà deve arrivare al gesto estremo, prima di vedersi offrire la sicurezza che avrebbe potuto portarla a tenere con sé il bambino. E per una che lo affida alle cure della Mangiagalli ce ne sono milioni in povertà, relativa o assoluta. Siamo il paese con il tasso di occupazione femminile più basso in tutta l’Unione Europea, e ancora siamo riluttanti a investire sulle strutture che eviterebbero alle donne di finire catapultate fuori dal mondo del lavoro in seguito a una gravidanza. Abbiamo leggi sull’adozione obsolete e pachidermiche. Abbiamo la sanità di intere regioni in mano a centri di potere e di influenza cattolica. E tutto questo viene celato alla vista, in attesa del bel gesto che faccia dire a tutti, ah, che meraviglia, il lieto fine, grazie a tutti ma soprattutto grazie a Ezio Greggio. Alla risposta strutturale preferiamo la carità episodica.

Nessuno dovrebbe essere così disperato da doversi separare dalla sua creatura. Se lo fa, ha le sue ragioni. Quelle ragioni, quali che siano, vanno rispettate. Le scelte delle donne vanno rispettate, anche quando noi pensiamo che faremmo altrimenti.

Immagine in anteprima via Avvenire

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