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Il femminismo, il patriarcato e l’incapacità di alcuni intellettuali italiani di andare oltre se stessi

27 Febbraio 2021 8 min lettura

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Il femminismo, il patriarcato e l’incapacità di alcuni intellettuali italiani di andare oltre se stessi

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di Giulia Blasi

Per parafrasare malamente il Bardo, succedono più cose sui social quando sei distratto, Orazio, di quante ne possa sognare la tua filosofia: e quindi capita di vedersi segnalare una frase infelice, di non farci troppo caso, e di riguardarci qualche ora dopo e scoprire che quella frase è diventata l’argomento del giorno. È successo così anche con l’uscita secca di Massimo Recalcati su Facebook di qualche giorno fa, che citiamo testualmente così com’è apparsa, priva di qualsiasi contesto:

“Il femminismo ideologico è il riflesso speculare del peggiore maschilismo. Mr”

Un’affermazione già problematica di suo, per motivi che è semplice spiegare. Il maschilismo è un’espressione del sistema patriarcale, quello in cui viviamo immersi ogni giorno perché è la struttura su cui posa la nostra società. Un’ideologia di oppressione impastata nella nostra cultura quotidiana, che privilegia gli uomini a tutti i livelli e ha come ultimo risultato la morte di una donna in media ogni tre giorni, oltre a innumerevoli piccole e grandi violenze compiute e spesso, purtroppo, taciute e celate. Il maschilismo non ha una data di nascita, nemmeno vaga: è sempre esistito da quando la società umana si è strutturata intorno alla leadership maschile, e ha costruito la sua narrazione intorno all’idea che l’uomo sia per natura “più forte”, più adatto al comando, alla gestione, a dare forma al mondo e alla cosa pubblica, mentre la donna si realizzerebbe (sempre “per natura”) nella domesticità, nella cura, in una forma di potere esercitato unicamente a livello di manipolazione. Il femminismo, che Recalcati bolla in maniera generica come “ideologico”, è un movimento filosofico e politico creato dalle donne più di due secoli fa proprio per reagire all’oppressione creata dal sistema patriarcale e maschilista che annulla gli individui nel nome di una supposta “naturalezza” di alcune scelte e comportamenti, e che da allora si batte per la liberazione individuale e collettiva di ogni soggetto oppresso. Le femministe potranno essere talora veementi, di sicuro non vanno sempre d’accordo fra di loro, ma il femminismo non è responsabile delle violenze compiute sugli uomini. Violenze riconducibili nella stragrande maggioranza dei casi alla stessa matrice delle aggressioni maschiliste e agite per lo più dagli uomini stessi. Uno psicoanalista di chiara fama e uomo di cultura come Recalcati dovrebbe rifuggire da un paragone del genere, che non è solo improprio, ma puzza anche di suprema ignoranza delle istanze del movimento che cita.

Potremmo anche finirla qui, se non fosse che il pronunciamento di Recalcati ha un prima e un dopo, un prequel e un sequel. Ed è nel prequel che si annida il vero problema dietro quella frase stizzita, buttata lì senza approfondire, senza argomentare, anche perché – come abbiamo visto – argomentarla in maniera convincente sarebbe stato difficile, a meno di scegliere parole del tutto diverse. L’esternazione, insomma, avrebbe un’origine precisa, un casus belli: un articolo di Marina Terragni, pubblicato su Feminist Post (pubblicazione riconducibile all’ambito del femminismo radicale) in cui Terragni critica in maniera molto dura un’intervista rilasciata da Recalcati a Repubblica TV, in cui lo psicanalista riconduce la violenza contro le donne alla stessa matrice del razzismo. Terragni è, appunto, una femminista radicale appartenente a un’ala molto specifica del movimento, quella che pur nella critica strutturale al patriarcato è comunque riconducibile a una delle versioni italiane del “femminismo della differenza”. Questa corrente di pensiero attribuisce un valore molto alto al sesso biologico, soprattutto femminile, e si batte contro il riconoscimento delle identità di genere non binarie, oltre che contro la GPA e il sex work.

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Entrambi gli interventi hanno meriti e demeriti, ma Recalcati sembra rinunciare del tutto alla dialettica e si butta direttamente sulla delegittimazione, senza fare nomi ma sapendo di poter contare su copiose pacche sulle spalle da parte di chi segue la pagina. Purtroppo per lui, la natura apodittica della frase gli attira anche parecchie critiche, che sono seguite da una risposta ancora più stizzita, ma non meno vaga.

“Chi gestisce questa pagina mi ha per l’ennesima volta segnalato l’uso di insulti nella discussione. Abbiamo dovuto bannare diverse persone che trovo veramente incoerente frequentino questo luogo. Non ci mancheranno. Ci sono altri siti dove questa pratica non solo è tollerata ma viene serenamente condivisa. Qui no. Devo ai miei lettori una spiegazione sull’espressione femminismo ideologico che, in modo stupefacente per me, è stato difeso da molti commenti. Il femminismo in se’ non è affatto ideologico ma è un movimento di civiltà in difesa delle donne e della democrazia al quale non è mai mancato il mio sostegno. Diviene ideologico quando assume involontariamente gli stessi atteggiamenti violenti e discriminanti che critica nel maschilismo. Gli esempi, purtroppo, sono all’ordine del giorno. E questa pagina ne è stata una testimone involontaria. Buona serata vostro Massimo Recalcati”

Una spiegazione che non spiega niente: cosa sarà mai questo “femminismo ideologico”? A quale ambito, quale corrente di pensiero dei vari femminismi sarà riconducibile, e perché? In quale modo agirebbe “gli stessi atteggiamenti violenti e discriminanti che critica nel maschilismo”, e quali sarebbero gli esempi “all’ordine del giorno”? Una cosa è certa: Recalcati usa “ideologia” solo in senso negativo, e in un post successivo – sempre molto criptico, mai esplicito, più una frecciata che un ragionamento – sembra addirittura collegare quello che lui percepisce come “femminismo ideologico” agli orrori del nazismo, citando un testo di Laura Boella su Hannah Arendt. A essere maliziosi, sembrerebbe quasi un modo molto convoluto di dire “nazifemminista”, ma fermiamoci prima di eccedere in congetture che porterebbero ad attribuire al professore un lessico non all’altezza delle sue qualifiche.

La critica di Terragni – tutt’altro che a prova di bomba, ma non è rilevante qui – è dura ma strutturata, e va a colpire in un punto molto specifico della Weltanschauung di Recalcati, vale a dire il suo continuo riferirsi alla donna come al “luogo dell’alterità”, dando per scontato che lo sguardo che regola il mondo sia quello maschile.
Una diagnosi che letta nel contesto della violenza e della società patriarcale è senz’altro corretta: la donna viene percepita da sempre come “altro” dall’uomo, quindi deviazione, modifica, stranezza, in un gioco di rimandi che si fa sempre più disumanizzante, fino a negare la natura stessa di persona delle donne. Non a caso, nei gruppi incel (ne ha scritto di recente Claudia Torrisi proprio su Valigia Blu) le donne sono definite “femoid”, contrazione di “female humanoid”, umanoidi femmina. Recalcati, tuttavia, non si dimostra particolarmente critico rispetto a questa percezione, anzi: la rafforza, reiterandola più volte, nella convinzione evidente che la soluzione non sia nel depotenziamento di questa distanza simbolica (del tutto illusoria), ma nella sua accettazione. Cito da un altro suo intervento sul tema, apparso su La Repubblica il 25 novembre 2014, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne:

La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini.

La soluzione che Recalcati sembra proporre e riproporre al problema della violenza maschile contro le donne è, al meglio, un invito ad amare “la differenza”, perché, e cito due frasi: “Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna” e “Nessun uomo sa cosa sia una donna”. Al peggio, la visione del professore si estende a un tentativo di psicanalizzare a tappeto le vittime di violenza, diagnosticando in loro un “rifiuto della femminilità”, come se le loro storie fossero tutte uguali.
Lo sguardo è sempre quello dell’uomo, centrale alla visione, punto di vista universale da cui si diparte la percezione della donna come simbolo, astrazione, “libertà”, secondo un binarismo di genere rigidissimo che non è, per colmo di ironia, per nulla distante da quello propugnato dalle femministe radicali, che negli ultimi anni si sono spesso schierate contro la cosiddetta “queer politics”. Se si parlassero faccia a faccia, Recalcati e Terragni scoprirebbero di avere parecchio in comune, a cominciare proprio dalla resistenza all’impropriamente detta “teoria gender”, liquidata così da Recalcati nel 2015 durante un’intervista al festival PopSophia di Pesaro (La citazione è ripresa da Non sono sessista, ma… di Lorenzo Gasparrini - Tlon, 2019):

“Certamente il gender tende a negare le differenze sessuali, e questo è sbagliato da un punto di vista antropologico.”

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Le argomentazioni valgono quello che valgono finché tutti i punti di vista non vengono dichiarati, quindi ecco il mio: come femminista intersezionale (vale a dire, appartenente a una corrente di pensiero che inserisce l’oppressione della donna all’interno di un quadro più ampio di oppressione strutturale, e prova a lavorare contemporaneamente su più piani), il beef Recalcati-Terragni mi sembra lo scontro fra Godzilla e Gamera o altri mostri mitologici, che combattono all’ultimo sangue su un terreno ormai passato, lontano dalla nostra realtà. Le persone trans e genderqueer esistono, vivono e lottano insieme a noi; le donne non sono “altro”, ma persone che si esprimono in maniere molto diverse all’interno di una cultura; gli uomini non sono il punto di neutralità dell’umano, ma esseri che esprimono una cultura di genere. Sarebbe stato facile disinteressarsi dell’intera querelle, se quello che ne emerge non fosse una certa stizza da parte del primo nel vedersi criticato dalla seconda, che evidentemente non intende riconoscere come interlocutrice; e nel tentativo di delegittimarla finisce per attaccare tutto un mondo che con fatica e impegno cerca di inserirsi nel dibattito culturale e politico del paese. Voci spesso molto giovani, che si vedono costrette a parare attacchi coordinati e shitstorm lanciate da chi ha deciso di identificare nelle femministe “il male” della società. In questa foga di autodifesa Recalcati dimostra una grande fragilità, la fragilità di un’intera categoria di intellettuali fra i cinquanta e i settant’anni, maschi, bianchi, eterosessuali, la classe dominante da secoli, se non direttamente millenni. Dominante, e incapace di mettersi in discussione a livello culturale, prima ancora che personale.

Su un punto Terragni ha senz’altro ragione: il problema di Recalcati, come di tanti altri stimati intellettuali italiani, è proprio il fatto di pensarsi centro di gravità permanente del mondo, da sempre, in tutti i sensi. Non è un caso, credo, che proprio Recalcati fosse fra i nomi del famoso cartellone 2020 tutto al maschile del Festival dell’Eros e della Bellezza di Verona, la manifestazione in cui gli uomini parlano dell’erotismo e le donne sono l’erotismo. E temo non sia un caso nemmeno che le diverse collane editoriali che dirige pubblichino a maggioranza autori di genere maschile, in un continuo perpetuarsi dell’idea che il pensiero sia un’attività da cui le donne sono per lo più escluse. Quella della generazione di Recalcati è una visione che non ha mai incontrato resistenze significative fino a pochi anni fa: chiunque le si opponesse lo faceva sempre e comunque da una posizione di marginalità, che fosse donna, queer, minoranza o tutt’e tre le cose. Marina Terragni non è una voce nuova, né rappresentante di un’avanguardia di pensiero: eppure alla sua critica Recalcati risponde con fastidio, senza entrare nel merito o nei contenuti, con un’alterigia che puzza di lesa maestà. È facile immaginarsi come consideri (se le considera) le pensatrici più giovani, soprattutto se si collocano al di fuori della logica binaria e venata di romanticismo con cui sembra guardare alla figura femminile. Queste femministe ideologiche! Che fastidio.

Foto anteprima Liz Lemon sotto licenza CC0 1.0

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