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La responsabilità della memoria

27 Gennaio 2024 7 min lettura

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La responsabilità della memoria

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I morti sono morti, le vittime sono uguali davanti alla loro condizione. Dimitri D’Andrea e Renata Badii, interrogandosi sul senso della memoria e sulla comparabilità tra genocidi, con le conseguenti gerarchie delle vittime a volte proposte, scrivevano in Sterminio e stermini. Shoah e violenze di massa nel Novecento (il Mulino, 2010) che è “possibile” e “necessario pensare la gerarchia del male come compatibile con l’uguale dignità delle vittime”. Scrivevano, al fine di fare questa doppia azione, che per valutare i genocidi bisognasse considerare la coerenza tra obiettivi e mezzi per realizzarli. Più il nesso è forte, maggiore è l’intensità genocidaria. “Affermare che tutte le vittime innocenti meritano uguale rispetto non significa rimuovere la questione della diversa grandezza della colpa dei responsabili politici, significa neutralizzarla rispetto al piano della dignità delle vittime”.

Questo tipo di riflessione può essere utile per ragionare sul Giorno della memoria, in particolare alla luce del processo per genocidio a Gaza in corso presso la Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, dopo il caso presentato dal Sudafrica contro Israele.

Il 27 gennaio, da più parti, è stato contestato come una forma di imbalsamazione ritualistica del ricordo della Shoah. Divenuto un passaggio consolatorio – e non perturbante come dovrebbe essere – per le coscienze europee, svolge anche un ruolo nell’istituzionalizzazione delle estreme destre come non antisemite. È ormai chiaro che non antisemite non vuol dire più antifasciste, se tanto Le Pen, quanto la AFD o La Russa possono impunemente dirsi tali. Fascisti e postfascisti usano strumentalmente la vicinanza ad Israele e il contrasto all’antisemitismo per far dimenticare il proprio passato e per legittimare il razzismo verso altre minoranze. Cionondimeno, Soros rimane il loro nemico preferito.

Oggi, oltre a quel tipo di valutazione, si vede l’esplosione di un altro genere di critica che mette in relazione Shoah e Israele. Masha Gessen ha ricevuto diverse critiche per il suo intervento sul New Yorker, “All’ombra dell’Olocausto”. Nel testo avanzava la possibilità di criticare il fascismo israeliano, sulla scorta di nobili esempi, tra cui la lettera di Arendt firmata da Einstein contro Begin nel 1948. Inoltre, Gessen criticava giustamente la torsione che la memoria ha avuto in paesi come la Germania, dove in nome della propria responsabilità si bastonano le varie forme del dissenso contro occupazione e apartheid in Israele-Palestina. Avanzava poi un paragone tra Gaza e un ghetto sotto l’occupazione nazista.

All’ombra dell’Olocausto non è accusabile di essere antisemita e mette in fila fatti noti a chi segue la questione dell’uso strumentale dell’antisemitismo. Tuttavia, se una critica gli può essere mossa, è di non presentare un’analisi approfondita delle affinità tra Germania nazista e Israele, fermandosi alle comparazioni. Ma, soprattutto, ci si chiede perché il paragone tra il male a Gaza e altri mali debba avere come referente la Shoah. La storia non sembra infatti difettare di esperienze di estrema violenza.

Una risposta potrebbe essere che il paragone deriva dal fatto che se Israele esiste in virtù della Shoah, e ogni critica è ricondotta a quell’evento, o alla potenzialità di una sua ripetizione, il nesso si impone da sé. Inoltre, e conseguentemente, se gli ebrei fanno della memoria un elemento centrale della loro vita pubblica, come possono non aver imparato che non si disumanizza una popolazione, non la si ammazza indiscriminatamente, non le si nega il diritto all’autodeterminazione?

Sulla scorta di questi ragionamenti, a fronte dello sterminio dei palestinesi fatto da altri ebrei ci si chiede a che serva ricordare lo sterminio degli ebrei.

In parte è naturale farlo. Collegare Shoah e azioni di Israele è quanto fa, in segno speculare, la destra israeliana, e alcuni esponenti delle comunità ebraiche nella diaspora. Il trauma della violenza antisemita del passato viene spesso usato per difendere qualunque scelta dei governi israeliani nel presente. Non a caso, uno dei principi che ispiravano alcuni esponenti del sionismo ruotava intorno all’idea che non ci si sarebbe più fatti ammazzare, che alle prossime minacce o violenze si sarebbe risposto con la forza. Never again può essere declinato anche come un’assunzione della responsabilità dell’autodifesa contro l’esterno. “Gli ebrei vi piacciono solo se son morti, mai se vogliono vivere”.

Il sionismo è anche questo. Volere uno Stato-nazione è anche questo: dato che nessuno ci ha protetto, ora ci proteggiamo da soli. E magari attacchiamo anche. La logica dello Stato-nazione costringe a un certo grado di violenza. La solidificazione di un popolo in uno Stato porta a istituzionalizzare la violenza rendendola legittima. E monopolizzandola.

Il cosiddetto “nazismo” delle vittime

In alcuni contesti, e in particolare durante il Giorno della memoria, si tende a ribaltare il nazismo contro gli ebrei in nazismo degli ebrei israeliani. La storia di questa scorciatoia intellettuale è lunga. Si pensi, ad esempio, alla missiva privata di Calvino a Fortini in cui scrisse che in Israele le vittime si erano fatte carnefici. Edgar Morin, in un intervento tradotto da Repubblica, en passant, ha scritto la stessa cosa, pur se all’interno di un ragionamento complessivamente condivisibile.

Per vari ordini di ragione questa mossa è infame. Sgomberiamo il campo dalla prima obiezione, che recita così: “Ma l’accusa di nazismo è rivolta agli israeliani, non agli ebrei!”. Si dà infatti il caso che la maggioranza che opprime i palestinesi in Israele-Palestina sia qualificata come ebraica. Ebrei e israeliani sono insiemi distinti ma, in alcune conformazioni, sovrapponibili.

Non conta qui valutare se gli ebrei siano un popolo o meno – non esistono i popoli in generale, essendo sempre astrazioni selettive determinate ex post e solidificatesi attraverso rituali e istituzioni pubbliche. Conta ricordare che quella ebraica è un’identità che non riguarda solo l’appartenenza religiosa, ma anche altri elementi. Posto che non esistono mai identità dotate della qualità dell’univocità, l’identità ebraica è specificamente complessa rispetto agli elementi che solitamente si usano per definirla, trovandosi a cavallo tra religione e cultura, essendo stata geograficamente dispersa e linguisticamente eterogenea.

Una seconda obiezione potrebbe essere: “Ma è il governo di Israele a essere nazista non gli israeliani”. Ma, legittimamente, si potrebbe arrivare a dire che non fu la Germania nella sua totalità complessiva a essere nazista. Sono maggioranze, sono le istituzioni, sono i governi, sono i soggetti che esercitano la violenza legittima a essere imputabili. E però quindi si pone il tema del rapporto tra le varie componenti di una società, così come delle varie forme di partecipazione, consenso e complicità. Questa obiezione ha più valore.

Tuttavia la questione rimane. Anche qualificando il governo, e volendo buona parte della società israeliana, come fascista – termine, eventualmente, più appropriato, e, per quanto mi riguarda, condivisibile a patto che si usi lo stesso metro con le nostre società europee infestate dalle destre radicali –, il problema del confine tra la responsabilità individuale e collettiva rimane. Ma gli ebrei contro l’occupazione nella diaspora e in Israele non sono dissenzienti verso un’identità, un’essenza intrinsecamente maligna, ma verso una specifica conformazione istituzionale-politica, storica, data. Non si oppongono a degli ebrei carnefici in fedeltà alla vecchia identità di vittime. Scelgono politicamente che fare. Questo è ciò che conta, non le metafisiche delle identità collettive.

Così come c’è una questione temporale e logica: ci si potrebbe chiedere infatti in che modo sei milioni di morti potrebbero essere ritenuti responsabili per l’attuale massacro a Gaza, i pogrom in Cisgiordania e i decenni di occupazione ai danni palestinesi. O se ci siano vantaggi a stabilire se esistano popoli sempre innocenti, o sempre colpevoli. Sembrerebbe piuttosto che la traiettoria storica non riguardi popoli ma, eventualmente, altri aggregati. E, soprattutto, che non abbia nessuna teleologia.

Inoltre, se sei milioni di ebrei sono stati massacrati in Europa, non sarebbe forse il caso di chiedersi quale dovrebbe essere il soggetto che dovrebbe interrogarsi il 27 gennaio – e magari più frequentemente anche in altre date, o, addirittura, quotidianamente? La Shoah è un problema europeo: ricordarla non è un tributo agli ebrei.

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Certo, anche qui, si potrebbe dire: ma che responsabilità hanno gli europei contemporanei di quanto avvenuto nel passato? Posto lo stesso tema distintivo, tra responsabilità individuale e collettiva, si potrebbero avanzare alcune differenze. Le istituzioni europee non si sono completamente de-fascistizzate da un lato – su questo si guardi, per un Giorno della memoria senza Schindler’s list, il grande film di Jean Marie Straub Solo violenza può dove violenza regna –, il razzismo non è stato estirpato (al contrario) e, dall’altro, forme di fascismo si ripropongono, sia in senso lato, sia specificamente con soggetti che vengono da quella storia politica che oggi siedono ai vertici delle istituzioni.

Non serve usare la Giornata della memoria contro gli ebrei, perché “le vittime” non sono tali al fine di imparare una lezione. E qualora esistesse una categoria eterna delle vittime, comunque si potrebbe confidare abbastanza tranquillamente sul fatto che tendenzialmente da esperienze come la Shoah - o dal colonialismo, per pensare ad altri eventi di violenza di massa istituzionalizzata - non si traggono lezioni. Usiamo questo ricordo per interrogarci su come interrompere razzismo e violenza, qui e altrove, senza accollare in modo razzista il fardello della memoria solo a un segmento della società – gli ebrei - rimproverandolo per farne un uso sbagliato.

Per tornare a quanto scrivono D’Andrea e Badii: “Parlare di una unicità della Shoah, o stabilire che esistono sterminatori più crudeli di altri e forme di male politico più estreme di altre non equivale, quindi, a garantire «esclusività» al dolore delle vittime di questo specifico sterminio, e non implica alcuna relativizzazione o, addirittura, giustificazione”.

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