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Come non parlare di stupro in televisione: la mia esperienza di ospite in un programma del servizio pubblico

8 Settembre 2023 9 min lettura

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Come non parlare di stupro in televisione: la mia esperienza di ospite in un programma del servizio pubblico

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Se si parla di giornalisti e stupro, la prima cosa da dire è che i giornalisti stuprano. FNSI, Federazione Nazionale Stampa Italiana, 2019: esce un rapporto che rileva che l’85% delle giornaliste aventi contratto (senza contare dunque le precarie, più ricattabili ancora) ha subito molestie da capi o da colleghi. Non solo il dato è fuori scala, anche in rapporto agli altri ambiti lavorativi (che contano il 50% di molestie), ma alla presentazione dello studio all’ordine dei giornalisti di Roma, in presenza del responsabile di uno sportello creato ad hoc, Stefano Romita, e di colleghe come Tiziana Ferrario, si menzionano tra le testimonianze anonime anche dei casi di stupri veri e propri avvenuti nelle redazioni. Ero presente, e in quel momento lavoravo per un giornale in cui i ricatti sessuali e la manipolazione erano all’ordine del giorno, anche nei confronti di persone con disabilità - che, tuttavia, hanno saputo difendersi meglio di altre, compresa me, fuor di stereotipo.

Questa introduzione per dire che, se i giornalisti sono i primi a molestare e stuprare, non possiamo sorprenderci per le modalità sessiste che vengono scelte di continuo per parlare di violenza di genere. Se i 7 denunciati per stupro di Palermo si riferivano a sé stessi come a dei “cani”, il first lady Andrea Giambruno parla di “lupi”: ne riprende le parole e le nobilita.

Dire che quella è una metafora da stupratori è un fatto. Dire che se una donna beve non può sorprendersi se viene violentata è un ragionamento violento. Come tante, anch’io in queste settimane ho provato del dolore fisico (Tlon ha parlato, non a torto, proprio di “corpo di dolore”) nel sentire come venivano raccontati svariati casi di violenza di genere. Con eminenti eccezioni, tra cui proprio Valigia Blu. Tante le cose che non vanno bene nella narrazione della vicenda di Palermo e di quella di Caivano, così differenti, così accumunate dalla voglia di capri espiatori. La mostrificazione dei protagonisti e del loro contesto, l’antimeridionalismo (una forma di razzismo, niente di nuovo dal modo di trattare gli omicidi di Pamela Mastropietro e Desirée Mariottini), l’idea che siano eccezioni. Il Bronx. I lupi.

La bonifica. La scelta di Giorgia Meloni di presentarsi a Caivano usando proprio questa parola d’ordine, “bonificheremo”, lei che è erede dell’MSI (Movimento Sociale Italiano), che a sua volta fu erede del PNF (Partito Nazionale Fascista), è un ammiccamento molto chiaro a una parte politica che vorrebbe poter fare saluti romani en plein air. Il problema? Li fa già, e se li chiami fascisti ti fa anche causa, vincendo. È successo all’editore Mattia Tombolini, di Momo edizioni, una casa editrice che chi ha avuto la fortuna di conoscere sa che perla rara sia nel sistema librario italiano: lo ha denunciato un sindaco che appartiene esattamente a quella parte politica, che i saluti romani li postava perfino sui social.

La scelta della parola “bonifica” da parte del Presidente Meloni non è solo un ammiccamento a ciò che non vogliono che si nomini, ma ha un altro leggerissimo problema: se Mussolini la usava per parlare di paludi, lei la usa per parlare di persone. Che la violenza di genere intersecata ad altri problemi (in termini di lavoro, di possibilità, di trovare forme di aggregazione che non siano la chiesa o le cose da cui si propone di salvarti, compreso PornHub) si affronti militarizzando a favor di telecamere i posti e non con cura e intelligenza, con dei piani a tutto tondo che nascono dalle esigenze dei cittadini, senza sovradeterminarli come fossero dei bambini cattivi da punire, è uno dei tanti danni che questo governo sta facendo.

È in questo contesto che ho deciso di dire di sì all’invito fattomi dalla trasmissione Filorosso su Rai3, con il tramite di un autore della stessa casa editrice con cui è uscito il mio primo libro, X. Carmine Gazzanni si sarebbe dovuto occupare di un servizio in cui intervistava chi con le persone uscite da situazioni di violenza lavora, e anche alcune di loro. Lo ha fatto, e conoscendo il suo tipo di giornalismo, l’ha fatto magistralmente. Il servizio non è mai andato in onda. Mentre veniva deciso che la voce delle donne vittime di violenza non era quella che interessava, come donna vittima di violenza intervistavano me. Il modo in cui è andata questa esperienza - che annovero nella top ten delle cose più spiacevoli che mi sono capitate nella vita - grida vendetta, per cui, invitata da Valigia Blu, di cui da sempre apprezzo puntualità e professionalità, ho pensato che fosse una buona occasione per parlare liberamente, senza tentativi di mettermi a tacere (di nuovo).

La condizione che avevo posto alla trasmissione, anche sentendo la mia agente letteraria, era di non essere presentata come una vittima ma come una scrittrice. Avevo inoltre informato - e visto che sono malfidata, ribadito direttamente alla conduttrice in sala trucco - che sono una collega. Anch’io lavoro nel giornalismo, peraltro proprio per un’emittente pubblica, come lei: nel mio caso si tratta della Radiotelevisione svizzera. Oltre a scrivere per il Fatto Quotidiano, e averlo fatto per 14 anni su una quantità gigantesca di giornali (tra i più noti, Manifesto e Corriere della Sera). La famosa gavetta, che sembra evitabile a chi punta sull’assecondare giochi di potere, io l’ho fatta tutta. Mentre lavoravo mi laureavo in Giurisprudenza. Questa premessa per dire che io e Manuela Moreno siamo colleghe. Che sono una professionista che lavora nel suo stesso settore. Quindi le modalità con cui si è svolto qualcosa che avevamo concordato non sarebbe avvenuto (pornografia del dolore e rivittimizzazione, infantilizzazione) sono ancora più spiacevoli.

Ora vi racconto la Rai che prova a costringere, stavolta non riuscendoci, una professionista a entrare in uno stampino a forma di vittima. A che pro? Assurgere al suo ruolo nel teatrino presepico di una puntata interamente ambientata a Caivano, in cui ognuno doveva servire a legittimare le politiche di governo. C’erano varie attrici, vari giornalisti, Vittorio Sgarbi a piedi nudi, Elsa Fornero, il prete più famoso d’Italia, e una decina di liceali di Caivano (a differenza di Sgarbi, erano vestiti eleganti, peccato che li abbiano fatti sedere per terra, più funzionali a una coreografia non decisa da loro, che prevedeva anche che la conduttrice li raggiungesse a più riprese, maternalistica, sedendosi al loro fianco e strumentalizzandone le parole quando interpellati).

Prima del mio turno ha parlato Francesco, uno di loro. Ha detto cose giuste: si è rifiutato - con grande maturità - di rispondere alla domanda sulla sua “storia difficile” (in sostanza ha schivato la pornografia del dolore), e ha detto che tende a non fidarsi. Questo è diventato qualcosa che “lo rende unico” (parole della conduttrice): un ragazzo che dice di non fidarsi di nessuno, “unico”. Certo, la narrazione dell’eccezionalità. Sempre funzionale alla mostrificazione. Francesco faceva bene a fidarsi ancora meno. E anche io. Dopo di lui è arrivato il mio turno. La coreografia prevedeva che io fossi seduta su una panchina rossa, perché se dall’altra parte ci sono i lupi era importante sottolineare che questa - io - doveva essere Cappuccetto Rosso. Sono stata presentata come “Valentina”. Solo Valentina. Nessun cognome. Nessuna identità. X.

“Voglio introdurre Valentina” - pausa a effetto - “Valentina è una ragazza molto timida, quindi cercheremo di parlare insieme, ma datemi una mano anche a supportarla”. In un colpo ero diventata: Valentina (priva del cognome, una per rappresentarle tutte, una per rappresentare la vittima perfetta, lacrimevole e funzionale, speravano). Una ragazza (ho quasi 33 anni, qualche ruga, qualche capello bianco che copro tingendoli, sono una donna). Molto timida e bisognosa di supporto dal pubblico. E sì che timida lo sono, ma non pensavo potesse sostituire il mio cognome e la mia professione. Nemmeno pensavo di avere bisogno di supporto per parlare, visto che ho fatto un centinaio di presentazioni del mio libro nei contesti più disparati, non solo in Italia ma anche in Svizzera e in Germania.

La conduttrice continua: “Per la prima volta in esclusiva con noi racconta la sua storia”. Io non ho mai detto che avrei raccontato la mia storia. E non c’è alcuna esclusiva. Il libro è uscito due anni fa. La mia storia pubblicamente l’ho raccontata lì, quello era lo spazio che ritenevo degno della complessità che riguarda la violenza di genere, non un quarto d’ora in televisione. Quarto d’ora che si ridurrà della metà (8 minuti, per l’esattezza). La conduttrice vede poi il libro sulla panchina e ricorda magicamente che ho un cognome. Non dice comunque il titolo del libro. Dice tuttavia che “ci torneremo tra un attimo”. Spoiler: non lo farà mai. Non si parlerà di libri. È sangue che vogliono: il mio. Nel documento che mi ha mandato la persona della Rai che ha letto il libro in quella redazione per preparare le domande, ci sono persino dei suggerimenti per le risposte. Una di queste? Si legge: sangue.

Non gliene darò neanche una goccia.

Nella trasmissione si dimostrano più interessati a scoprire se scopo oppure no (“è stato difficile amare dopo?”) che a fare informazione. Come se fosse rilevante ai fini del racconto di più di 40mila stupri l’anno, solo qui in Italia. Ma non sono andata impreparata. Sapevo che avrebbero provato a rendermi Cappuccetto Rosso (l’aveva già fatto due anni fa, a Cartabianca, Bianca Berlinguer con Luce Scheggi, dal vivo persona straordinaria, la cui presenza è stata sprecata e vessata con domande rivittimizzanti, inutili, poste in modo aggressivo). Se proprio mi tocca fare Cappuccetto Rosso, mi ero detta sapendo, meglio fare come quella della storia di Roald Dahl, che tira fuori il fucile e si difende da sé.

Insomma, per farla breve. L’intervista prevede domande come:

Qual è il ricordo più difficile di quella sera? (La sera dello stupro, chiaro).

Voglio sapere cosa è rimasto dentro di te a distanza di tempo: è una ferita ancora aperta?

È stato difficile amare dopo?

Visibili online sono anche i due tentativi di invadere perfino il mio spazio fisico. Vengo invitata a mostrare la mano dove ho un tatuaggio, e dalla mia faccia stavolta emerge tutto l’imbarazzo conto terzi del suo trattarmi come una bestia allo zoo. La telecamera indugia sulle mie mani - cosa che avevo, anche questa, posto come condizione di ciò che non doveva succedere, e l’avevo fatto proprio parlando del trattamento che era stato riservato a Luce Scheggi. Il fatto che io abbia frequentato per qualche tempo proprio la Scuola di giornalismo della Rai, quella di Perugia, prima di abbandonarla un anno prima, fa sì che io sia stata edotta su queste tecniche. Anche il pubblico dovrebbe esserlo, quindi ecco qui cosa insegnano: inquadrare le mani della “vittima”, della persona che sta raccontando una storia “toccante”, zoomare sul viso in caso di lacrima. Il problema è che io non stavo raccontando nessuna storia “toccante”. Stavo portando dati, statistiche, parlando di sentenze, di leggi. Ho rifiutato ogni domanda personale con gentilezza ferma. Avrei voluto poter parlare senza essere interrotta con aggressività ogni tre secondi, ma sono rimasta su quella strada, quella del fare informazione: lo vedi, nonna, Cappuccetto Rosso non si perde mica. Va a vedere che il lupo sei proprio tu, nonna. La vecchia Rai che prova a condurti dove non vuoi.

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Verso la fine di questi pochi minuti a trattenere il fiato per dire più cose possibile, perché ogni parola che sfonda la barriera televisiva arriva a più gente e a quelle come me non è mai dato rompere il silenzio senza rischi, la conduttrice mette la sua mano sulla mia. La tolgo evitando moti di stizza troppo evidenti: ho scelto di essere elegante, oggi. Cerca un innecessario contatto fisico dopo che, alla fine di questa apnea, dico che “sono un po’ agitata in questo momento”. Quello che intendo - e dai messaggi ricevuti in privato, direi che il pubblico l’ha capito molto bene - è che mi rode il culo. Nessuno vorrebbe essere trattato così, e far pensare che è questo il modo in cui trattare una persona a cui, ieri o dieci anni fa, qualcuno ha fatto violenza, è il peggior disservizio che si possa dare alla collettività che, ahinoi, è obbligata anche a pagare per vedere una delle sue tante rappresentanti trattate in questo modo. Da una donna. Sembra che il marchio della Rai voluta da questa maggioranza sia regalarci un bel po’ di violenza, ma mascherandola con affettazione materna. Peccato che io una madre ce l’abbia già, e che anche lei sia disgustata dal trattamento riservato a sua figlia.

Invito tuttavia a guardare il video voi stessi, valutando ogni domanda per quella che è, ogni interruzione, il tono aggressivo, la rimozione del mio cognome e della mia professione, della mia identità, l’impreparazione della conduttrice che ho dovuto correggere un attimo dopo rispetto a un commento ignorante sui dati, l’uso invadente delle telecamere. Tacerò della trasmissione nel suo complesso, sperando che una volta cresciuti, o prima, i ragazzi strumentalizzati abbiano la fortuna di incrociare persone che non hanno nessuna intenzione di farli passare per “eroi” o per dei poveretti con una storia “unica”. Quando la conduttrice ha detto che magari Francesco, uno di loro, poteva aver ragione a non fidarsi degli adulti: quello è stato un raro attimo di verità. Se gli adulti osano trattare così altri adulti, dai minori dovrebbero essere solo tenuti a distanza.

Immagine in anteprima: frame video Filorosso via RaiPlay

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