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Scienza, comunicazione, politica e media: cosa ci insegna il caso AstraZeneca

18 Marzo 2021 8 min lettura

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Scienza, comunicazione, politica e media: cosa ci insegna il caso AstraZeneca

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Incertezza scientifica, infodemia, comunicazioni istituzionali poco chiare e contraddittorie, scontri tra addetti ai lavori, media poco responsabili, decisioni disorientanti. La pandemia e il caso della sospensione del vaccino Oxford/AstraZeneca, una crisi nella crisi sanitaria, potrebbero contribuire a facilitare la comprensione di alcuni aspetti del rapporto tra scienza, società, politica e informazione di cui si fatica a prendere coscienza, preferendo spiegazioni di comodo e narrazioni semplicistiche:

- Comunicare la scienza, soprattutto in circostanze come queste, è un'attività un po' più complessa che spiegare a una platea di somari che 2+2=4 (come è nella visione di qualcuno). Dopo un anno di crisi sanitaria, di notizie, quasi quotidiane, su studi scientifici e sperimentazioni su vaccini e di dibattiti mediatici, questa banale verità risulterà forse più evidente.

- Se c'è un problema di comunicazione e di comprensione della scienza, le principali responsabilità non vanno rintracciate nell'ignoranza, nell'ottusità o nella "irrazionalità". È assurdo ripetere mantra come bisogna insegnare il metodo scientifico a scuola, come se il problema fosse che nelle scuole si insegnano Cicerone e Ovidio e non la statistica. Questa insistenza nel ricondurre l'origine dei problemi di comprensione o consapevolezza sulla scienza a una diffusa ignoranza scientifica è in verità un atteggiamento di comodo che deresponsabilizza alcune categorie: esperti, scienziati, operatori dell'informazione. Chiamare in causa l'ignoranza o il pregiudizio antiscientifico dovrebbe apparire più che mai inconsistente e distaccato dalla realtà proprio oggi, dopo un anno durante il quale abbiamo assistito a discussioni caotiche e imbarazzanti tra addetti ai lavori e a uscite improvvide, quando non a veri e propri sfondoni o bufale, da parte non (solo) di bufalari o complottisti di professione (certo, sulla pandemia sono circolate anche tesi complottiste), ma da parte di esperti in diverse discipline (gente che ha studiato, come si dice. E non basta aver studiato, purtroppo).

Prendiamo proprio il vaccino Oxford/AstraZeneca: è stato comunicato malissimo fin dal principio. Anche da qualche addetto ai lavori che ha spiegato in modo scorretto l'efficacia del vaccino dicendo che «protegge 6 persone su 10 vaccinate», come se la percentuale di circa il 60% (che poi, come si è osservato, supera l'82% se la seconda dose viene somministrata dopo 3 mesi) si riferisse al livello di protezione individuale e non alla riduzione del rischio di malattia tra chi si vaccina rispetto a chi non si vaccina (la definizione di efficacia, così come viene calcolata durante la sperimentazione di un vaccino, è questa: rischio di infezione tra i non vaccinati - rischio di infezione tra i vaccinati/rischio di infezione tra i non vaccinati).

Inoltre, non è stato sufficientemente sottolineato il fatto che anche il vaccino Oxford/AstraZeneca protegge in modo efficace contro la malattia grave che può portare al ricovero e alla morte, abbattendo quindi le ospedalizzazioni e i decessi. Tutto questo ha contribuito ad appiccicare su Oxford/AstraZeneca il marchio di "vaccino di serie B", tanto che ci sono stati casi di rifiuto di questo vaccino perfino tra i medici. Medici, inteso? Gente che ha studiato all'Università e mica su YouTube, come ama motteggiare chi canzona l'ignoranza. Come è possibile? Risposta breve: sono esseri umani, con i propri bias cognitivi e condizionamenti (magari indotti dalla cattiva informazione).

Peraltro, il mantra del bisogna insegnare il metodo scientifico a scuola è diventato una specie di litania "parareligiosa" in cui l'espressione metodo scientifico assurge a slogan identitario. Il simbolo, il nucleo di un credo che la gente non conosce e non vuole comprendere. E che se solo arrivasse a comprendere e conoscere, signore e signori,  aprirebbe finalmente gli occhi e andrebbe in giro con l'effige di Galilei stampata in fronte. Il problema però è che nemmeno la gran parte degli esperti che vediamo in televisione da un anno a questa parte probabilmente saprebbe dare un'illustrazione chiara di cosa sia il metodo scientifico. Anche perché sul metodo scientifico (e non esiste poi il o un metodo scientifico) potrebbero esprimersi con maggiore competenza filosofi della scienza e storici della scienza.

- Dal momento che si è tornati a parlare di no-vax, andrebbe ricordato che su questioni come l'esitazione o il rifiuto dei vaccini esiste un'ampia letteratura, purtroppo di fatto ignorata da alcuni medici che si espongono pubblicamente contro l'antivaccinismo. Si tratta quindi di fenomeni che sono a loro volta oggetto di ricerche, che sono più complessi di quanto si potrebbe pensare e che comprendono una gamma di atteggiamenti e comportamenti che dipendono dal contesto socioculturale, dalle visioni individuali, dalla fiducia, dalla percezione dei rischi, dalla comunicazione e anche dal deficit di informazione. Deficit che, tuttavia, non è che un piccolo tassello del mosaico e forse nemmeno il più importante per visualizzare e comprendere il mosaico stesso e quindi affrontare il problema, che non si registra solo in Italia (pare che ci sia qualcuno convinto che sia così). E quindi no, non si spiega con il fatto che nei licei classici italiani si legge più Virgilio che manuali di statistica e di sperimentazioni cliniche. Anzi, secondo una ricerca pubblicata su Nature Medicine la percentuale di persone esitanti/scettiche nei confronti dei vaccini anti-COVID-19 è più alta in altri paesi europei, tra cui la Francia e la Germania. L'esitazione vaccinale, inoltre, è un fenomeno che si riscontra perfino tra il personale sanitario. Perciò, quando si sollevano questi problemi, si dovrebbe partire da questa mole di conoscenze e dalle soluzioni e indicazioni per la comunicazione che se ne possono trarre.

- Si dovrebbe abbandonare una certa immagine distorta di ciò che si chiama "antiscienza". Come detto prima, tanti interpretano l'antiscienza come una reazione che scaturisce dall'ignoranza, dall'ottusità, dal complottismo folle. Che esistono, ma non spiegano l'origine e la diffusione dei casi socialmente più rilevanti e gravi di antiscienza.

Il metodo Di Bella, pseudoterapia anticancro priva di qualsiasi evidenza di efficacia, l'ha proposto un medico e docente universitario. Chi s'è inventato che il cancro si può curare con il bicarbonato è un medico. Se la credenza in qualche legame tra vaccini e autismo si è diffusa bisogna ringraziare soprattutto un medico e uno studio pseudoscientifico pubblicato nientemeno che sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet, ritrattato solo 12 anni dopo la pubblicazione e grazie a un'inchiesta giornalistica. Non mancano poi, tra i medici, sostenitori dell'omeopatia. Forse è la comunità medica, per prima, ad avere una relazione complicata con il metodo scientifico (anche per gli interessi personali che possono spingere qualche camice bianco ad abbracciare e consigliare pratiche e terapie prive di efficacia). Non mancano altri casi di gravi responsabilità all'interno del mondo scientifico. È noto che illustri scienziati si sono messi al servizio di alcune industrie per negare i danni alla salute causati dal fumo, il buco dell'ozono, l'esistenza e le cause del riscaldamento globale. Scienziati. Non i social. E per interesse o ideologia, non per ignoranza.

A ben vedere, in una storia universale dell'antiscienza comparirebbero molti più nomi di scienziati, anche celebri, che di anonimi ignoranti-somari-social, etc.

- Quello che è successo con il vaccino Oxford/AstraZeneca non è né «la vittoria dei social che hanno imposto lo stop alla politica» né «il trionfo della irrazionalità», come si legge su La Repubblica. È il risultato di una decisione "politica", cioè determinata sia da considerazioni di opportunità (e che forse guarda anche al consenso), sia da valutazioni scientifiche su dati ed evidenze. Ma alla fine sono stati i governi e le agenzie regolatorie a decidere sulla base di questi dati. Ma un'interpretazione "razionale" di questi dati non avrebbe dovuto suggerire che non c'erano ragioni per sospendere il vaccino? Questo è l'interrogativo che dovrebbe far riflettere sul difficile rapporto tra politica e scienza durante una crisi (e no, non la politica dei populisti, che oggi non sono al governo, mi pare, in Germania). Quali saranno gli effetti di questa decisione? È difficile dirlo. Gli autori di uno studio (non ancora pubblicato) dell'Università danese di Aarhus affermano che un approccio di «radicale trasparenza» sui vaccini anti-COVID-19 potrebbe diminuire l'adesione ai vaccini, ma potrebbe aumentare la fiducia nelle istituzioni sanitarie. La trasparenza nella comunicazione non è quindi sufficiente, nell'immediato, per far accettare un vaccino, ma è necessaria per rafforzare quella fiducia che nel lungo termine li rende accettabili per la popolazione. Sembra una contraddizione, ma questa è la complessità del problema. Se poi a riportare casi di presunte morti per vaccino sono alcuni quotidiani (che poi danno la colpa ai social media), con titoli sensazionalistici che mettono in allarme una parte dell'opinione pubblica, il quadro dell'ecosistema della comunicazione si complica.

Nel 1996 il governo britannico annunciò che erano stati registrati alcuni casi di una variante umana dell'encefalopatia spongiforme bovina (più nota come morbo della "mucca pazza", una malattia causata da prioni), probabilmente legati al consumo di carne. Per anni, dopo la comparsa dei primi casi della malattia tra i bovini nella seconda metà degli anni '80, il governo aveva rassicurato l'opinione pubblica affermando che il rischio di una trasmissione della malattia ad altre specie si poteva in sostanza escludere, a dispetto di alcune evidenze che dal 1990 iniziavano a suggerire il contrario. Lo aveva fatto nella convinzione paternalistica che l'opinione pubblica andasse rassicurata piuttosto che informata, anche per non mettere in crisi i settori produttivi ed economici legati al consumo di carne bovina. Nel 1990 lo stesso Chief Medical Officer, l'esperto consulente in materia sanitaria più alto in grado del governo britannico, aveva dichiarato che «non c'era alcun rischio associato con il consumo di carne bovina britannica». Il ministro dell'Agricoltura si fece fotografare mentre, insieme alla figlia, mangiava un hamburger, pensando così di tranquillizzare i cittadini. La conseguenza di questo fallimento nella comunicazione delle evidenze scientifiche e della gestione e comunicazione del rischio fu che le vendite di carne bovina crollarono comunque e con essi anche la fiducia dell'opinione pubblica nelle istituzioni e negli esperti del governo. Gli autori di un commento pubblicato su Nature Medicine nel 2000 scrivono:

«Non ci sono prove che i consumatori britannici ed europei si aspettassero, prima del marzo del 1996, una certezza completa dalla scienza dell'encefalopatia spongiforme bovina, né che chiedessero o si aspettassero un rischio zero. Ma si aspettavano un resoconto lineare e franco della scienza e del rischio, piuttosto che racconti che erano pensati per sedarli».

Una crisi di fiducia: per la scienza, gli scienziati o per le istituzioni? Questa domanda, che è anche il titolo del commento su Nature, è la stessa che dovremmo farci oggi. La fiducia che viene meno non è nella scienza in quanto tale, come impresa culturale collettiva o insieme di saperi. Quella che può venire messa in discussione, durante una crisi come quella che stiamo vivendo, è la scienza così come rappresentata da alcuni, singoli, esperti o dalla scienza-istituzione, cioè dalla scienza rappresentata da accademie, comitati tecnico-scientifici, agenzie regolatorie ed enti tecnico-scientifici governativi, che con i loro diversi ruoli contribuiscono al funzionamento della stessa democrazia.

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C'è poi, come già accennato, il ruolo dei media, la cui responsabilità nel diffondere buona informazione o, al contrario, nell'amplificare la cattiva informazione o perfino la disinformazione e le bufale, è oggi più che mai critico, come si è visto in questi mesi.

Le lezioni che la pandemia può darci sul rapporto tra scienza, società, politica e informazione sono già molte. Speriamo che servano per il futuro.

Foto anteprima hakan german via Pixabay

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