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Il dilemma non sono i social media. Siamo noi

24 Gennaio 2021 10 min lettura

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Il dilemma non sono i social media. Siamo noi

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Questo inizio di 2021 sembra la prosecuzione infinita del documentario Netflix ‘The Social Dilemma’. Un mondo regolato interamente dallo sviluppo tecnologico, di cui ogni altro fenomeno sociale non è che appendice e conseguenza logica. Un mondo in cui, come si evince entro il minuto cinque di quel pessimo ma rivelatorio documentario di propaganda riduzionista, sono i social network la causa diretta e necessaria di ogni male sociale. Tristan Harris, tecnologo pentito, lo dice chiaramente: è tecnologica la radice di “caos di massa, indignazione, inciviltà, mancanza di fiducia l’uno nell’altro, solitudine, alienazione, maggiore polarizzazione, più sabotaggi elettorali, più populismo, più distrazioni e incapacità di concentrarsi sui problemi reali”.

Visto il suo passato, verrebbe da dire che è anche causa del suo pessimo argomentare, che costringe a ignorare le cause più profonde e complesse di tutti quei fenomeni. Ma il sarcasmo non ci salverà dalle reali conseguenze di questo modo di ragionare miope e pericoloso, che continua a ripetersi ciclicamente da quando, nel 2016, Donald Trump vinse le elezioni — questa la vulgata mai dimostrata da risultanze scientifiche — grazie al microtargeting e alle interferenze russe.

Non che non ci siano state, o che la propaganda personalizzata non sia un problema; il punto è che abbiamo passato anni a trattare tutto questo come il problema, mentre la realtà continuava a risultarci incomprensibile e a sfuggirci di mano. Tanto che quando poi sono apparsi gli insorti buzzurri e violenti in Campidoglio, il 6 gennaio scorso, sono sembrati come l’incarnazione di fantasmi internettiani, personaggi invisibili all’opinione pubblica se non come manifestazione di “fake news” e complotti online.

E no, non è una questione di buona o cattiva critica tecnologica: è parte al contrario del collasso epistemico che stiamo vivendo, e che ci circonda e opprime, mettendo sullo stesso piano il parere di un cuoco che ritiene la pandemia sia una invenzione figlia della mente di Bill Gates e dello scienziato che lotta contro il tempo per salvare più vite umane possibili. E rendendoci incapaci di ragionare con pazienza e fatica su cosa motivi quella che, nella mente di molti, è ormai una inconcepibile ma realissima equivalenza.

Provo a spiegarmi con un esempio concreto: l’insurrezione del 6 gennaio a Washington. Prendete le parole pronunciate dalla presidente della Commissione UE, Ursula Von Der Leyen, in un discorso che formalmente sarebbe dedicato — così recita il titolo — alla “inaugurazione del nuovo Presidente degli Stati Uniti e alla situazione politica attuale”, e invece è quasi interamente concentrato sulla regolamentazione dei social media. Ho visto le immagini dell’assalto al Campidoglio in tv, dice Von Der Leyen: “Questo è ciò che accade”, commenta, “quando l’odio e le fake news (per qualche ragione usa questa espressione amata dai dittatori di tutto il mondo invece che la più consueta parola di cui disponiamo: “menzogne”) si diffondono come un incendio attraverso i media digitali. Sono diventati un pericolo per la democrazia”.

“Attraverso i media digitali”? Sul serio? Forse Von Der Leyen dovrebbe considerare la visione di questa breve clip, che riassume alcuni degli infiniti modi in cui il presidente uscente, Donald Trump, altre massime cariche dello Stato, svariati rappresentanti eletti e alcuni tra i principali giornalisti tv d’America incitano chiaramente alla rivolta e alla violenza:

Che siano loro il reale moltiplicatore di teorie del complotto e incitazioni alla violenza? Che siano loro a fare sì che tutto questo si moltiplichi in ogni anfratto della rete? La risposta, dice il Reuters Institute di Oxford, è affermativa.

E del resto basterebbe pensare al ruolo di Fox News e delle testate del gruppo Murdoch, per esempio, in svariati casi di disinformazione sistematica, dagli incendi in Australia alle origini della pandemia, per rendersi conto del ruolo di media tutt'altro che digitali nell'inquinamento dell'ecosistema informativo. Ma il discorso di Von Der Leyen a tutto questo non dedica nemmeno una parola, preferendo soffermarsi piuttosto sull’idea — intuitivamente corretta, ma in realtà pericolosissima — di “assicurarci che questi messaggi di odio e queste fake news non possano più diffondersi senza controlli”, e su quella — altrettanto intuitivamente non controversa ma in realtà controversa eccome — che i colossi tecnologici “debbano essere responsabili dei contenuti che disseminano”.

Tutto questo viene da lontano. È figlio di documentari come "The Social Dilemma", e di scandali gonfiati all’inverosimile come quello di Cambridge Analytica, azienda a cui si sono associati poteri che davvero si possono definire magici, di manipolare le nostre menti una pubblicità personalizzata alla volta. Viene da anni di titoli strillati che identificano nei social media — senza prove conclusive, o senza prove e basta — vere e proprie droghe che causano dipendenza, ansia, depressione, malattie mentali, ma insieme la causa della fine della democrazia se non della civiltà tutta. “Questo è uno scacco matto all’umanità”, riassume Harris nel documentario, con il solito pregio di non dire nulla ma di farlo molto bene.

E i danni sono sotto i nostri occhi ogni giorno. Enormi. Prendete l’ultimo, tragico caso di cronaca. La bambina palermitana di dieci anni morta, pare, per emulazione a una sfida mortale su TikTok. Il legame causale tra uso del social network e decesso della bambina è tutt’altro che chiaro o provato (“Secondo una prima ricostruzione la piccola avrebbe raccolto la sfida che sulla app viene chiamata "hanging challenge" e che prevede una prova di resistenza”, si legge su Repubblica Palermo), ma intanto i giornali titolano da giorni “Morire su TikTok” (Corriere), “Morire a 10 anni giocando sui social” (La Stampa), “Trappole social” (Avvenire) — e il Garante Privacy “ha disposto nei confronti di TikTok il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica” (misura riassunta dal Garante stesso, con un titolo clickbait, in “dispone il blocco del social”). Sulla base di cosa? Beh, proprio dei “recenti articoli di stampa”.

Sull’onda emotiva si preferisce, come in passato (si pensi al caso Blue Whale), addossare tutte le colpe al social network, mentre degli hashtag collegati alla challenge mortale non c’è traccia, o quando ce n’è è per tutt’altro. Si rischia così la profezia che si autoavvera: l’emulazione che tutto questo — denunce vibranti sui giornali e intervento tempestivo del Garante — intendevano eliminare. Magari poi si scoprirà che TikTok è la causa diretta del decesso della bambina, questo spetta agli inquirenti stabilirlo (non ai giornali, peraltro): ma è un modo sano di discuterne e intervenire?

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No, è un modo soluzionista, che rivela proprio quella stessa sudditanza al potere delle tecnologie che si vorrebbe combattere. Una sudditanza che, allargando il discorso oltre il terribile caso di cronaca, ci costringe a mettere in secondo piano fattori sociali, umani, personali e collettivi; a guardare a disuguaglianze strutturali nella nostra società come frutto degli algoritmi — e non viceversa (sono gli algoritmi semmai a incorporare, nel codice, le disuguaglianze che noi, umani, abbiamo prodotto e perpetuiamo). Che portano l’editorial board del Guardian a scrivere frasi surreali come la seguente: “L’incitazione di un attacco al Campidoglio da parte di Donald Trump è stato un momento cruciale per la libertà di espressione e per Internet” — quando invece la violenza con la libertà di espressione non ha nulla a che vedere, e il momento è stato semmai cruciale per la democrazia americana, che ha rischiato concretamente di incrinarsi mortalmente, forse scomparire.

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E il risultato è sempre lo stesso: l’ideologia scompare, la politica scompare, e resta solo la tecnologia. Scrive infatti ancora lo stesso commento dell’editorial board: “Questi eventi suggeriscono che l’anno più importante per la democrazia moderna non è stato il 1989 — la caduta del muro di Berlino — ma il 1991, quando i primi web server sono diventati pubblicamente disponibili”. Questa, celata nella bella retorica, è una ammissione terribile di sconfitta del giornalismo e della nostra capacità collettiva di riflettere sulla nostra storia. Si sta sostanzialmente dicendo che ogni conflitto ideologico, perfino la fine di un conflitto ideologico che ha segnato il “secolo breve”, sarebbe nulla di fronte alla mera affermazione della potenza tecnologica, al sorgere della onnipotente rete che tutto manipola condiziona e governa, senza che noi — per quanto ci si disperi — si possa fare poi molto.

Fa amaramente sorridere dunque che questi critici della tecnologia si pongano alla testa di un progetto di riforma della tecnologia: se gli effetti di quest’ultima sono necessari, e necessariamente cattivi per l’umanità tutta, l’unico progetto di riforma coerente sarebbe la cancellazione — come peraltro sostiene lo stesso Jaron Lanier per i social media — e insieme il ritorno a un passato oramai mistico in cui Internet era apertura, democrazia, scambio cortese ed educato (ma quando mai?), a cui in qualche modo mirare anche se online non c’è più qualche nicchia sparuta di appassionati e competenti, ma l’umanità intera.

A che servono le “regole” per i social media di fronte a un contesto intellettuale simile? L’unico social media buono, verrebbe da dire, è un social media morto, se questa è la prospettiva.

E fa riflettere che la soluzione venga altrettanto usualmente vista in leggi riguardanti i contenuti e dettate dai governi, come se non fossero questi ultimi la causa prima e reale dell’incremento costante della censura online negli anni. Come stiamo testimoniando anche in questi giorni, non per il ban alle incitazioni alla violenza degli estremisti, ma per quello ai diritti dei cittadini di manifestare (nella Russia che arresta senza motivo che non sia persecutorio Navalny) o di una piattaforma di rimuovere contenuti che giudichi nocivi per la sua comunità (come sta avvenendo in Polonia, sempre sul modello russo). Limitare lo strapotere di soggetti privati è una necessità, ma altrettanto necessario è non finire per consegnarlo nelle mani dei governi nella foga di riuscirci, specie in un contesto globale in cui la democrazia è in costante declino.

E poi, a che servono davvero le regole per i social media — che pure sarebbero invece necessarie e urgenti, specie in materia di trasparenza e accesso ai dati — senza regole di metodo per tutti gli altri media, e per l’ecosistema contemporaneo dei media nel suo complesso?

Possibile che si debba sempre e solo parlare di disinformazione come sinonimo dei social media quando si leggono quotidianamente sciocchezze di questo tipo, pubblicate — sui social media — dalle massime testate tradizionali?

Sciocchezze pericolosissime, nel mezzo di una pandemia. E scelte editoriali su cui peraltro troppo spesso nessuno interviene per fornire spiegazioni, o assumersene la responsabilità — altrettanto spesso da parte degli stessi giornali che vorrebbero responsabilità editoriali per le piattaforme su cui diffondono questi contenuti.

Ma anche per il giornalismo vale la stessa regola riduzionista-soluzionista: se i giornali stanno fallendo, sarebbe per colpa della tecnologia, dei social media. Così Google può essere causa di decesso della democrazia simultaneamente esistendo e cessando di esistere, quando opera e quando minaccia di chiudere a seguito di mancati accordi con gli editori — che dopo avere beneficiato dei contatti portati da Google, vorrebbero pure che Google li pagasse per farlo (un po’ come se chiedessimo noi la mancia al rider che ci porta la cena invece che viceversa).

E di nuovo, sempre secondo la stessa logica, tutto questo ci impedisce di ragionare in alcun modo sulle cause remote e profonde della crisi del giornalismo contemporaneo, che è prima che una crisi di modelli di business una crisi di fiducia. Guardate i dati pubblicati dall’osservatorio Edelman lo scorso 13 gennaio — e che, come nota DataMediaHub che li riporta, non sono stati commentati da nessuno (sbadati!). Questo il riassunto di Pier Luca Santoro, che cito integralmente perché a me, personalmente, ha fatto spavento:

“Il rapporto parla apertamente di “bancarotta delle informazioni” e di un ecosistema di fiducia in fallimento, incapace di affrontare l’infodemia dilagante.

I media tradizionali [53%] hanno registrato il calo maggiore di fiducia, con otto punti in meno a livello globale.  Il 61% degli intervistati ritiene che i media siano politicizzati e non obiettivi. E i giornalisti sono i soggetti che godono di minor fiducia in assoluto, tra quelli analizzati [abbiamo realizzato una sintesi del report qui].

In Italia il 75% degli intervistati ritiene che i media non  stiano facendo affatto bene per quanto riguarda obiettività e diffusione di notizie che non sia parziali, e di parte. La media generale delle 27 nazioni analizzate da Edelman su questo aspetto è del 61%. Dunque il gap con l’Italia è di 14 punti percentuali, e vede il nostro Paese al quarto posto a livello mondiale per sfiducia nei media.”

Che tutto questo abbia a che fare con la scarsa qualità dell’informazione fornita, prima ancora che con i canali attraverso cui ce ne approvvigioniamo? Sarebbe interessante rifletterne, se fosse possibile parlarne davvero. Purtroppo, per tutte le ragioni citate, non lo è.

So cosa alcuni lettori staranno pensando: questa è una inaccettabile difesa d’ufficio di colossi tecnologici che hanno accentrato denaro e potere come mai alcuna azienda privata nella storia dell’umanità. Ma no, non lo è affatto. Queste aziende presentano svariati problemi, di concentrazione di potere in senso concorrenziale e decisionale; di mancata o nulla trasparenza circa i propri processi decisionali, le proprie stesse tecnologie; di ipocrisia nella visione e nella realizzazione; di cinismo, a volte davvero bieco, e molto spesso sulla pelle di minoranze e popolazioni che non sono ricche abbastanza per finire continuamente sui giornali e le tv di tutto il mondo. Problemi di cui Valigia Blu scrive e ha scritto nel dettaglio, per anni.

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Ma non è questo il punto. Qui non si tratta affatto di difendere colossi privati multimiliardari il cui effetto sulle vite delle persone è tutt’altro che unicamente positivo (anche se non tutto è negativo: preferivate un isolamento pandemico senza social media?). Si tratta semplicemente di non confondere le radici dei problemi sociali con i rami dei problemi tecnologici, e di non illudersi che potando questi ultimi si estraggano i veleni dal terreno che sta ammazzando l’albero.

E sì, l’albero sta morendo. Sarebbe ora di curarsi di questo, insieme alla forma dei rami.

Immagine anteprima screenshot Netflix

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