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Meno discriminatorio, più efficiente: perché il reddito di cittadinanza va migliorato, non abolito

3 Settembre 2021 14 min lettura

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Meno discriminatorio, più efficiente: perché il reddito di cittadinanza va migliorato, non abolito

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Le 10 proposte del Comitato di valutazione del reddito di cittadinanza

Aggiornamento 9 novembre 2021: Il 9 novembre la sociologa Chiara Saraceno, che presiede il Comitato di valutazione del reddito di cittadinanza del Ministero del Lavoro, ha presentato in una conferenza stampa, insieme al ministro Andrea Orlando, dieci proposte per migliorare il reddito di cittadinanza e renderlo più equo e meno discriminatorio. Gli esperti nominati a marzo dal ministero hanno proposto di:
1. ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza in Italia per accedere al beneficio;
2. modificare la scala di equivalenza, che penalizza le famiglie numerose;
3. modulare il contributo per l’affitto, aumentandolo per i nuclei con figli e riducendolo ai single;
4. consentire un cumulo parziale tra il reddito di cittadinanza e lo stipendio per chi trova lavoro;
5. rivedere in modo flessibile le soglie patrimoniali per accedere al sussidio;
6. chiarire le tempistiche sulla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro;
7. ridefinire i criteri con cui si stabilisce la congruità di un’offerta di lavoro;
8. migliorare gli incentivi per le imprese che intendono assumere un percettore del reddito di cittadinanza;
9. rinforzare i servizi sociali comunali, per garantire al meglio i patti per l’inclusione e i progetti di utilità collettiva;
10. abolire il limite di prelievo di 100 euro e l’obbligo di spendere l’intero sussidio entro il mese successivo, pena la decurtazione del beneficio.   

Da mesi ormai il reddito di cittadinanza è sotto attacco. La destra e il centrodestra sono compatti nel chiederne l’abolizione, mentre il Movimento 5 stelle si è detto fortemente contrario a questa possibilità, come anche il Partito democratico, aprendo comunque alla possibilità di una modifica della misura. Più ambigua è invece la posizione di Italia viva, che a fasi alterne si schiera per la cancellazione o per un’ampia rivisitazione delle norme. Per ora il presidente del Consiglio Mario Draghi si è limitato a dichiarare che condivide «in pieno» il concetto che sta alla base del reddito di cittadinanza, sottolineando però che è «presto» per una sua riforma. 

Al di là delle posizioni dei singoli partiti, i numeri, il parere di istituzioni come Caritas, Banca d’Italia e Corte dei Conti, e quello di molti esperti sul tema della povertà confermano che il reddito di cittadinanza va migliorato, ma non abolito. In breve: alcuni interventi possono rendere la misura meno discriminatoria e più efficiente, per far sì che si raggiunga meglio un maggior numero di persone in povertà e che sia reso più sensato il collegamento con il mondo del lavoro. 

Leggi anche >> Tutte le criticità del cosiddetto “reddito di cittadinanza”

Come si può tradurre in concreto questo obiettivo? A marzo scorso il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd) ha nominato il “Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza”, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno. Proprio Saraceno ha annunciato di recente che «per fine settembre, massimo metà ottobre» il Comitato avanzerà le sue proposte per «migliorare» il reddito di cittadinanza. Un riordino, con un insieme di interventi mirati, sembra dunque essere il percorso più intelligente da intraprendere, per evitare di stravolgere nuovamente, dopo circa due anni e mezzo, le misure di contrasto alla povertà nel nostro paese.

Leggi anche >> “Reddito di cittadinanza”: a 10 mesi dalla sua introduzione, un primo bilancio sugli effetti su lavoro e povertà

Vediamo, punto per punto, e seguendo le posizioni espresse negli ultimi mesi da diversi membri del Comitato del Ministero del Lavoro, in che modo il reddito di cittadinanza potrà essere migliorato.

Come leggere i dati sul reddito di cittadinanza

Partiamo innanzitutto dai numeri, che vanno letti con attenzione. Secondo i dati più aggiornati dell’Inps (qui scaricabili), a luglio 2021 più di 1,2 milioni di famiglie beneficiavano del reddito di cittadinanza, con oltre 2,9 milioni di persone coinvolte. I dati salgono rispettivamente a quasi 1,4 milioni e a poco più di 3 milioni se si prendono in considerazione anche i beneficiari della pensione di cittadinanza. Considerando entrambe le misure, l’importo medio del beneficio mensile era di circa 548 euro. 

Secondo i dati più aggiornati dell’Istat, invece, nel nostro paese sono oltre 5,6 milioni le persone che vivono in povertà assoluta, ossia che ogni mese hanno consumi inferiori alla soglia considerata necessaria per avere una vita minimamente accettabile.

Sulla base di questi numeri, la prima tentazione è quella di sostenere che circa 2,6 milioni di poveri non sono raggiunti dal reddito di cittadinanza. Ma questo confronto è improprio: come ha spiegato più volte anche l’Istat, i poveri e i potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza sono due insiemi solo parzialmente sovrapponibili. Detta altrimenti, possono esserci da un lato persone in povertà assoluta che non possono accedere al reddito di cittadinanza, e dall’altro persone che accedono al reddito di cittadinanza senza essere povere (in un senso assoluto del termine). Questo è dovuto al fatto, come vedremo meglio tra poco, che esistono dei criteri di accesso al reddito di cittadinanza, per certi versi, molto selettivi verso alcuni poveri. 

Ad oggi esistono alcune stime che cercano di quantificare quanti poveri assoluti sono effettivamente raggiunti dal reddito di cittadinanza (quello che in gergo tecnico si chiama “efficienza” della misura), e quanti no. Secondo le simulazioni dei due economisti Massimo Baldini, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e Giovanni Gallo, dell’Università “La Sapienza” di Roma, contenute nel Rapporto Caritas sul reddito di cittadinanza, uscito a luglio scorso, poco più della metà dei poveri assoluti non beneficiano del reddito di cittadinanza. Altri calcoli, come quelli della Banca d’Italia, arrivano a percentuali più o meno simili, sebbene usino modelli diversi. Sempre secondo i calcoli di Baldini e Gallo, il 36 per cento dei beneficiari del reddito di cittadinanza non sarebbero poveri nel senso assoluto del termine. Questo non vuol dire che necessariamente siamo di fronte a truffe o frodi: per come è stato disegnato il reddito di cittadinanza e promesso dal M5s – ossia 780 euro di erogazione per un cittadino singolo – si è arrivati ad avere una misura che raggiunge persone che povere assolute non sono. 

Di recente Italia viva ha cavalcato molto un’altra stima, fatta da Fernando Di Nicola, economista ed ex dirigente dell’Inps, secondo cui circa un terzo dei beneficiari del reddito di cittadinanza prende il sussidio senza averne diritto. Come ha spiegato Di Nicola a Pagella Politica, usare questo dato per chiedere l’eliminazione del reddito di cittadinanza è un’argomentazione strumentale: il problema in questo caso riguarda il fenomeno dell’evasione fiscale, che non può essere risolto modificando i meccanismi con cui è regolato il reddito di cittadinanza. 

Ricapitolando: una parte delle persone che in Italia vivono in povertà assoluta non possono beneficiare del reddito di cittadinanza. Quali modifiche sono state suggerite per aumentare l’efficienza della misura e aiutare più persone in difficoltà?

Vanno modificati i criteri di accesso per gli stranieri

Da tempo – anche prima che la misura diventasse operativa – molti esperti di povertà sostengono che il reddito di cittadinanza è discriminatorio nei confronti dei cittadini stranieri. Tra questi ci sono Saraceno, ma anche altri membri del Comitato sul reddito di cittadinanza, tra cui Nunzia De Capite, sociologa dell’ufficio Politiche sociali della Caritas italiana, e Cristiano Gori, professore ordinario di Politica Sociale all'Università di Trento. 

Per poter chiedere il reddito di cittadinanza, al momento della domanda uno straniero deve essere residente in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Come ha spiegato il ricercatore dell’Ocse Daniele Pacifico, soltanto la Danimarca, nell’Unione europea, ha criteri più stringenti del nostro paese in questo ambito.

La discriminazione nei confronti degli stranieri – riconosciuta anche dalla Corte dei Conti – sembra essere evidente guardando anche ai numeri ufficiali dell’Inps, secondo cui circa 14 beneficiari su 100 del reddito di cittadinanza sono stranieri. In base ai dati più aggiornati Istat, invece, quasi il 27 per cento dei circa 5,6 milioni di residenti in Italia che vivono in povertà assoluta non ha la cittadinanza italiana. Inoltre, secondo le stime che considerano i flussi migratori degli ultimi 10 anni, circa il 30 per cento delle famiglie straniere è escluso per legge dal reddito di cittadinanza, a prescindere dal loro reddito.

Tra l’altro, già nel 2019 un dossier del Parlamento, durante l’approvazione della legge sul reddito di cittadinanza, aveva sottolineato i rischi di incostituzionalità di un requisito di questo tipo, citando alcune sentenze della Corte costituzionale contro singoli provvedimenti regionali.

Ricapitolando: il requisito dei 10 anni di residenza, di cui gli ultimi due continuativi, per permettere ai cittadini stranieri di accedere al reddito di cittadinanza va ridotto. Secondo le ultime indiscrezioni, è probabile che sarà presentata la proposta di ridurre a cinque o addirittura due anni il requisito degli anni di residenza per poter prendere il sostegno economico. 

Nell’ultimo Rapporto Caritas sul reddito di cittadinanza, Cristiano Gori ha evidenziato che un requisito di residenza degli stranieri è comunque sensato per almeno un motivo: «Le risposte alle persone straniere in difficoltà, da poco tempo presenti nel nostro paese, non competono alle politiche contro la povertà bensì a quelle di prima accoglienza, che hanno logiche e modalità differenti». 

Il reddito di cittadinanza non discrimina soltanto le famiglie straniere, ma anche quelle più numerose, con minori (tra gli altri, critica avanzata anche dalla Corte dei Conti).

Va modificata la cosiddetta “scala di equivalenza”

Diversi studi, tra cui uno condotto a settembre 2020 dalla Banca d’Italia, hanno calcolato che il reddito di cittadinanza ha tra i suoi risultati positivi quello di essere in grado di ridurre il numero dei poveri assoluti e l’intensità della povertà, ma privilegiando troppo i single. Che cosa vuol dire? Qui è utile un ripasso su come funziona il reddito di cittadinanza.

Come spiega il sito ufficiale della misura, il beneficio economico del reddito di cittadinanza è composto da due parti: una parte integra il reddito familiare e arriva fino a un massimo di 6 mila euro annui, moltiplicati per la scala di equivalenza (un insieme di coefficienti che permette di calcolare l’ammontare mensile da corrispondere a famiglie che contano più di un componente); l’altra parte, destinata solo a chi è in affitto, può arrivare a un massimo di 3.360 euro (è anche prevista un’integrazione per chi paga il mutuo, fino a 1.800 euro). 

La scala di equivalenza viene determinata in base alla composizione del nucleo familiare: è pari a 1 per il primo componente del nucleo, è incrementata di 0,4 per ogni componente con più di 18 anni e di 0,2 per ogni ulteriore componente minorenne, fino a un massimo di 2,1 (elevato a 2,2 se ci sono componenti in condizione di disabilità grave o non autosufficienza).

Diversi membri del Comitato del Ministero del Lavoro – come Saraceno, Gori e Maurizio Franzini, professore ordinario di Politica Economica all’Università “La Sapienza” di Roma – hanno più volte ripetuto che questa scala di equivalenza, dati alla mano, svantaggia le famiglie con tanti bambini. Secondo i dati Inps più aggiornati, a luglio 2021 oltre il 44 per cento dei nuclei familiari beneficiari del reddito di cittadinanza era composto da una sola persona, spia dell’eccessiva generosità della misura verso questa tipologia di nucleo familiare. Ricordiamo che in base ai dati Istat, più una famiglia è numerosa, più è probabile che si trovi sotto la soglia della povertà assoluta. 

Come hanno spiegato gli economisti Baldini e Gallo, la scala di equivalenza del reddito di cittadinanza attribuisce un peso troppo basso ai minori ed è stata motivata molto probabilmente da due necessità: la prima è stata quella di contenere la spesa totale della misura (che oggi costa più o meno tra i 7 e gli 8 miliardi di euro l’anno); la seconda, come abbiamo già accennato, è stata quella di mantenere la parola data in campagna elettorale dal Movimento 5 stelle, ossia quella sui 780 euro al mese per un single in affitto.

Inoltre, come abbiamo visto sopra, va tenuto conto che la scala di equivalenza non si applica al contributo ricevuto per l’affitto. Detta altrimenti,  il contributo massimo mensile per l’affitto è lo stesso, fino a 280 euro, al di là del numero dei componenti, sia che una famiglia sia composta da una persona o da due adulti con tre bambini.

Ricapitolando: per migliorare il reddito di cittadinanza è necessario introdurre una scala di equivalenza più equa, che permetta di aiutare in maniera più efficiente le famiglie più numerose che si trovano in condizione di difficoltà.

Vanno modificati i parametri per la valutazione del patrimonio

Gli esperti del Ministero del Lavoro hanno poi indicato, per ora solo in articoli e interviste, una terza area di intervento: quella relativa alla valutazione del patrimonio, della ricchezza mobiliare e immobiliare, tra i requisiti per accedere al reddito di cittadinanza.

Attualmente, per ricevere il sostegno economico, un nucleo familiare deve avere una serie di requisiti: un valore dell’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) inferiore a 9.360 euro; un valore del patrimonio immobiliare non superiore a 30 mila euro; un valore del patrimonio mobiliare (ossia i soldi sui depositi o conti correnti) non superiore a 6 mila euro per un single, incrementato in base al numero dei componenti della famiglia, fino però a 10 mila euro; e un valore del reddito familiare inferiore a 6 mila euro annui, moltiplicato per il corrispondente parametro della scala di equivalenza.

Innanzitutto, un primo elemento su cui agire è quello dell’Isee (si veda il Capitolo 2 del Rapporto Caritas sul reddito di cittadinanza), che sembra avere diversi limiti nel permettere una puntuale e aggiornata valutazione della reale condizione economica in cui vivono le famiglie povere in Italia. Già a marzo 2021 la sociologa Saraceno, pochi giorni prima della nomina nel Comitato del Ministero del Lavoro, aveva dichiarato a il manifesto: «Oltre alla scala di equivalenza, va rivisto il criterio dell’Isee. Per avere il beneficio bisogna portare la dichiarazione dei redditi di due anni prima. Ma questo è sbagliato sempre. La valutazione della situazione economica va fatta a partire dal reddito corrente, e deve essere valida per tutti, non solo per alcune categorie». 

In secondo luogo, è stato suggerito da alcuni membri del Comitato sul reddito di cittadinanza di intervenire in due direzioni per quanto riguarda le soglie economiche per accedere al beneficio. Da un lato, per riuscire a raggiungere più poveri – oggi esclusi dalla misura perché oltre le soglie – un’ipotesi è quella di alzare i requisiti del patrimonio mobiliare, in particolare per chi vive nelle regioni del Nord, dove il costo della vita è maggiore rispetto al Sud. Dall’altro lato, un’ipotesi di intervento parallela potrebbe mirare ad abbassare le soglie economiche per le famiglie di piccole dimensioni, composte da una o due persone, in maniera tale di ridurre i vantaggi già in vigore nei loro confronti. 

Ricapitolando: gli anni di residenza per gli stranieri, la scala di equivalenza e le soglie per il patrimonio sono tre aree di intervento su cui agire per rendere il reddito di cittadinanza più efficiente, ossia in grado di raggiungere una parte dei poveri assoluti oggi esclusi dalla misura.

Come ha sottolineato Gori nel Rapporto Caritas, queste modifiche potrebbero richiedere anche una rivisitazione degli stanziamenti oggi a disposizione per il reddito di cittadinanza. «La decisione di predisporre eventuali maggiori finanziamenti dev’essere successiva alla definizione della strategia sulla revisione dei criteri di accesso», ha però sottolineato il membro del Comitato del Ministero del Lavoro. «Aumentare i fondi senza aver messo a punto un valido piano di modifiche, al contrario, non farebbe altro che riprodurre su più larga scala le criticità già esistenti».

E a proposito di criticità, quella che ha avuto maggior risalto negli ultimi mesi ha riguardato il secondo pilastro su cui poggia il reddito di cittadinanza: le politiche attive per il lavoro. 

E le politiche attive per il lavoro?

Come abbiamo spiegato più volte in passato, i dati raccolti negli ultimi due anni e mezzo dal reddito di cittadinanza in tema di lavoro sono stati piuttosto negativi, per una serie di motivi. Anche in questo caso però bisogna fare attenzione a contestualizzare correttamente i numeri.

Sul suo sito ufficiale, Italia viva ha lanciato una raccolta firme contro il reddito di cittadinanza, in cui dice che «solo il 3,8 per cento dei beneficiari ha trovato un lavoro». Questo dato è corretto? Secondo i dati raccolti dalla Corte dei Conti, nel suo rapporto annuale pubblicato a giugno scorso, a febbraio 2021 oltre 150 mila beneficiari del reddito di cittadinanza «hanno instaurato un rapporto di lavoro successivo alla data di presentazione della domanda», meno del 5 per cento del totale dei beneficiari della misura. È un errore però rapportare il dato dei rapporti di lavoro appena visti con il totale dei beneficiari: solo una parte di chi prende il reddito di cittadinanza è infatti tenuta a sottoscrivere il Patto per il lavoro, ossia un documento che stabilisce regole e condizioni da rispettare per continuare a ricevere il sussidio (per esempio dare immediata disponibilità a lavorare e avviare un «percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale»).

Secondo i dati più aggiornati raccolti dalla Corte dei Conti, poco più di un milione dei beneficiari del reddito di cittadinanza devono sottoscrivere un rapporto di lavoro. Dunque oltre un beneficiario su sette circa ha trovato un lavoro, una percentuale ben più alta del «3,8 per cento» visto prima. Le criticità restano comunque molte.

Innanzitutto c’è scarsa trasparenza sui dati (discorso analogo vale anche per quelli che riguardano la parte sul contrasto alla povertà): in sostanza, non è chiaro quale sia stato l’effettivo contributo dei navigator – i tutor che seguono i percettori del reddito di cittadinanza – nell’aiutare i beneficiari del sussio a trovare un’occupazione, che nella maggior parte dei casi è stata a tempo determinato. Inoltre, come abbiamo spiegato in passato, uno dei maggiori problemi delle politiche attive per il lavoro legate al reddito di cittadinanza è che una buona parte dei percettori non sono immediatamente collocabili sul mercato del lavoro. 

Su questo fronte, non è facile prevedere quali indicazioni potranno arrivare dal Comitato del Ministero del Lavoro. Come abbiamo sottolineato in altre analisi, c’è chi sostiene che il reddito di cittadinanza vada riconcepito non come politica attiva per il lavoro – oggi è di fatto pensato per obbligare i beneficiari a trovare lavoro – ma come misura che svincoli dal lavoro. Molti esperti, da Saraceno a Gori, sono concordi nel sostenere che uno dei vizi originali del reddito di cittadinanza sia stato proprio quello di vincolarlo alle politiche attive per il lavoro, ma ora tornare indietro non sembra la strada più semplice, a meno di grandi stravolgimenti normativi. 

C’è poi tutto il filone narrativo secondo cui il reddito di cittadinanza disincentiverebbe i percettori dal lavorare, un’opera di demonizzazione delle misure di contrasto alla povertà senza che ci siano studi o solide evidenze a sostegno di questa tesi (ricordiamo che in media l’assegno mensile del beneficio è inferiore ai 550 euro). È probabile comunque che dal Comitato possano essere proposte delle migliorie, per rendere più conveniente ai beneficiari del reddito di cittadinanza la ricerca di un lavoro. Per esempio consentendo il cumulo, per un certo periodo di tempo, del sussidio con una percentuale del nuovo reddito da lavoro (il tema del cosiddetto “in-work benefit”).

Secondo le ultime indiscrezioni, il governo Draghi sarebbe comunque pronto a coinvolgere le agenzie per il lavoro private per sopperire alle carenze dei centri per l’impiego e a creare una banca dati per tenere traccia di tutte le offerte di lavoro disponibili. «Si valuta anche la possibilità di accorciare da tre a due mesi la durata dei contratti che non possono essere rifiutati», ha scritto il 2 settembre Il Messaggero. «Per il Ministero del Lavoro è altrettanto prioritario introdurre una nuova condizionalità legata alla formazione: chi ha solo la quinta elementare dovrò seguire un percorso di studio o gli verrà chiesto di rinunciare all’assegno».

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Come ha spiegato il ricercatore dell’Ocse Pacifico, l’Italia è uno dei Paesi Ocse con le condizionalità più rigide per poter continuare a ricevere il reddito minimo. Il problema, secondo alcuni esperti, è che spesso questa severità rimane sulla carta e non si concretizza nella realtà.

Al di là dei singoli possibili interventi, come ha sottolineato di recente anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd), questo dibattito si inserisce in una discussione ben più ampia: quella sulla riforma generale delle politiche attive per il lavoro. Ormai da mesi si parla di come riformare il sistema delle politiche attive del nostro paese, a cui il “Piano nazionale di riprese e resilienza” destina oltre 4 miliardi di euro, ma per il momento si deve ancora attendere. Secondo le ultime indiscrezioni, entro il mese di settembre potrebbero essere presentate le novità in materia, da cui passa anche il futuro di una buona parte dei percettori del reddito di cittadinanza.

Immagine anteprima via Ansa

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