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“Reddito di cittadinanza”: a 10 mesi dalla sua introduzione, un primo bilancio sugli effetti su lavoro e povertà

15 Gennaio 2020 19 min lettura

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“Reddito di cittadinanza”: a 10 mesi dalla sua introduzione, un primo bilancio sugli effetti su lavoro e povertà

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Il cosiddetto "reddito di cittadinanza" (RdC) è attivo in Italia da circa 10 mesi. "Cosiddetto" perché, come ricostruito in un precedente articolo, la misura voluta dal Movimento 5 stelle non è in realtà un vero reddito di cittadinanza (che prevede un cambiamento radicale del modo di pensare la società, il welfare e il rapporto tra uomo e lavoro), ma una cosa differente e cioè un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo.

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Il provvedimento – approvato dal governo Conte I (sostenuto dalla maggioranza Movimento 5 stelle e Lega) – ha sostituto il REI (il Reddito di inclusione del governo Gentiloni che puntava al contrasto alla povertà), rafforzandolo e ampliandolo e prevedendo una parte connessa di politiche attive al lavoro prima non esistente.

Il Movimento 5 stelle ritiene questa misura un cardine della propria identità. Già alle elezioni politiche del 2013, i 5 stelle avevano inserito il reddito al primo punto tra i venti del programma per "per uscire dal buio". Come abbiamo visto in un altro approfondimento, però, la sua conversione in legge – come il reddito è stato ideato e strutturato – ha ricevuto diverse critiche da enti e da soggetti che ogni giorno affrontano povertà e disagio sociale.

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Pur descritto come un'importante novità rispetto al passato, le critiche alla misura hanno sollevato alcune distorsioni e lacune nel contrasto alla povertà. Ad esempio, il non prendere in considerazione l'aspetto multidimensionale del fenomeno, non riconducibile esclusivamente alla mancanza di lavoro (ma che si compone anche di altri aspetti: salute, psicologici, abitativi, relazionali), o ancora la disparità finale di trattamento nei confronti dei nuclei familiari stranieri, più soggetti a condizione di povertà.

I sindacati si sono invece mostrati preoccupati per lo stato di criticità dei Centri per l'Impiego in Italia, una situazione considerata non all'altezza dello sforzo richiesto dalla norma. Indagini Istat e Anpal hanno segnalato varie problematiche, in particolare nelle regioni del Sud Italia, con una percentuale molto bassa (inferiore al 3%) di persone che avevano trovato lavoro dopo essersi rivolti a questi centri. Confindustria ha palesato poi il rischio che la misura non riuscisse "ad essere uno strumento bivalente (politiche attive e contrasto alla povertà)", riducendosi "ad essere uno strumento ‘sostanzialmente passivo’ di politica sociale, dato che la messa a regime dell’insieme degli interventi necessari, realisticamente e ragionevolmente, non avverrà in tempi brevi e, comunque, non nei tempi previsti". Infine, Regioni e Comuni – soggetti con un ruolo attivo nelle politiche del lavoro introdotte dalla misura – hanno denunciato la possibile confusione nella realizzazione della norma, dovuta anche a un mancato confronto “senza possibilità per gli attori del territorio di poter offrire un contributo per una costruzione del dispositivo basato sulla loro esperienza”.

Per capire così se il "reddito" sta funzionando, dopo poco meno di un anno dalla sua entrata in vigore, e quali sono state le problematiche e i ritardi durante la sua attivazione, abbiamo ricostruito quello che è successo fino a oggi, basandoci anche sui dati ufficiali finora pubblicati dagli enti preposti.

Come funziona il reddito

Prima di analizzare l'iter di attuazione, è necessario fare un passo indietro per riassumere brevemente come funziona il cosiddetto "reddito di cittadinanza". La legge che ha introdotto questa forma di reddito minimo in Italia è entrata in vigore il 30 marzo 2019 e prevede la spesa di poco più di 6 miliardi e mezzo per l'anno 2019, oltre 7 miliardi e mezzo per l'anno 2020, 7 miliardi e 880 milioni di euro per il 2021 e 7 miliardi e 603 milioni di euro annui a decorrere dal 2022. 

Il decreto legge era stato approvato dal Consiglio dei ministri del governo Conte I due mesi prima, a metà gennaio. In quell’occasione, Luigi Di Maio, capo politico dei 5 stelle e allora anche ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, aveva parlato di un “primo sogno che si realizza”: “(...) È una bella notizia perché finalmente viene combattuta in maniera seria la povertà, perché finalmente lo Stato si impegna a dare una mano a chi non trova lavoro, ma anche perché con questo decreto quello che tutti dicevano che era impossibile, irrealizzabile, utopico, folle è diventato realtà”.

Il provvedimento prevede due fasi: la prima consiste nell’erogazione di un'integrazione al reddito – sottostante a vari requisiti, differente in base a diversi fattori e per un massimo di 780 euro – che avviene a seguito dell’accettazione della domanda presentata dal nucleo familiare (che può essere composto da una o più persone) richiedente e dopo la sottoscrizione da parte dei componenti maggiorenni idonei del nucleo familiare di un “Patto per il lavoro” o di un “Patto per l’inclusione sociale”. Questi due patti, si legge nel dossier del Servizio Studi del Parlamento, stabiliscono una serie di impegni per un percorso personalizzato di accompagnamento all'inserimento lavorativo e all'inclusione sociale (attività al servizio della comunità, di riqualificazione professionale, di completamento degli studi, ecc).

La seconda fase, prevede poi, che, una volta riconosciuto il diritto al reddito minimo, entro 30 giorni i beneficiari siano convocati dai centri per l'impiego (CPI) per avviare le politiche attive del lavoro. In questo caso viene previsto che il beneficiario del reddito debba per legge accettare almeno “una di tre offerte di lavoro congrue” che saranno presentate dagli operatori del CPI. Vengono anche stabilite sanzioni penali per un'indebita percezione del reddito (sono stati diversi centinaia i casi finora emersi) e diverse cause di decadenza del beneficio (o di una sua riduzione), come ad esempio il non partecipare alle iniziative di carattere formativo indicate o il rifiuto delle offerte di lavoro presentate. 

Per rendere effettiva questa seconda fase, la legge prevede anche l’adozione di un "Piano straordinario triennale di potenziamento dei centri per l'impiego e delle politiche attive del lavoro": “Si autorizzano, a tal fine, assunzioni di personale da destinare ai centri per l’impiego, con relativo aumento della dotazione organica delle pubbliche amministrazioni e si autorizza la spesa per la stabilizzazione di personale in favore di Anpal”, si legge nel dossier del Centro studi del Parlamento. Presso l’Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro (e il Ministero del Lavoro) viene inoltre disposta l'istituzione di due piattaforme digitali per “consentire l’attivazione e la gestione dei Patti per il lavoro e dei Patti per l’inclusione sociale, connessi al Reddito di cittadinanza, e per finalità di analisi, monitoraggio, valutazione e controllo del medesimo istituto”. Inoltre, vengono stanziate risorse "per consentire la stipulazione, previa procedura selettiva pubblica, di contratti" a tempo determinato (con scadenza nel 2021) per l'assunzione di figure "necessarie ad organizzare l'avvio del RdC" e "svolgere azioni di assistenza tecnica alle regioni", ovvero i cosiddetti "navigator"

Qual è stato l'effetto sulla povertà assoluta

Quando il 27 settembre di due anni fa, il governo Conte I approvò la “Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2018”, Luigi Di Maio sui social parlò di “giorno storico” perché l’intesa raggiunta con la Lega “per la prima volta nella storia di questo Paese cancella la povertà grazie al Reddito di Cittadinanza” previsto, insieme ad altri obiettivi programmatici, nella prossima manovra di bilancio. A gennaio di un anno dopo, il capo politico dei 5 stelle, durante una kermesse del partito, puntualizzò che quando parlava di “abolire la povertà” intendeva dire che “da oggi chi non ha nulla riceverà 780 euro”.   

Partiamo quindi da questo aspetto, per cercare di capire, a quasi un anno dalla sua entrata in vigore, qual è stato l'effetto della misura – se c'è stato e di che entità – sulla povertà assoluta. A inizio dicembre Pasquale Tridico, presidente dell’INPS, (nominato il 22 maggio 2019 dal governo Conte I e definito il "padre" della misura dei 5 stelle) – l'ente che eroga l'RdC – in un’intervista a L’Economia del Corriere, aveva dichiarato che “l’impatto calcolato del RdC sulla povertà, dopo solo sei mesi dall'introduzione” era stato straordinario, con una riduzione del 60% del tasso di povertà in Italia. Un dato rilanciato dalla propaganda politica del Movimento 5 stelle e citato anche dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante la conferenza di fine anno: il reddito «è molto efficace per contrastare la povertà assoluta, in 8 mesi abbiamo -60% della povertà. Un risultato incredibile».

Riguardo a questo dato, però, vengono sollevati dubbi e obiezioni. Luciano Capone su Il Foglio spiega che il dato non è presente in nessun documento ufficiale dell’INPS, che il presidente dell’Istituto nazionale della previdenza sociale non ha presentato un calcolo serio dell’impatto effettivo della misura sulla povertà assoluta in Italia e che per questo “il dato diffuso da Tridico è una semplice uscita propagandistica”. 

Pochi giorni dopo, Pagella Politica contatta l’INPS che conferma l'inesistenza di documenti o ricerche pubbliche dell’istituto dove è possibile riscontrare il dato della riduzione del 60% del tasso di povertà assoluta come effetto del reddito minimo. Quel dato, dunque, ipotizza il sito di fact-checking “fa molto probabilmente riferimento alla percentuale di poveri assoluti che potenzialmente rispetta i requisiti per ricevere il reddito (o la pensione) di cittadinanza”. Questo però non basta ad affermare che la povertà assoluta si è ridotta in Italia di oltre il 50% perché “l’andamento della povertà assoluta non si calcola semplicemente sapendo che un certo numero di individui da alcuni mesi beneficia di un sussidio da parte dello Stato”. “Come spiega l’Istat – infatti – le stime di povertà assoluta si basano in realtà «sui dati dell'indagine sulle spese per consumi delle famiglie, che ha lo scopo di rilevare la struttura e il livello della spesa per consumi secondo le principali caratteristiche sociali, economiche e territoriali delle famiglie residenti»”.

La vicenda si ingarbuglia ancora di più quando il presidente dell'INPS, durante un convegno a Napoli, fornisce un secondo numero sull’impatto della misura: «Il tasso di povertà nel nostro Paese si è ridotto di 8 punti percentuali». Il Fatto Quotidiano spiega però che questo “nuovo” dato – che compare in alcune tabelle presentate il 6 novembre scorso durante un incontro tra i vertici dell’istituto e una rappresentanza della Commissione europea – si riferisce in realtà all’intensità della povertà: “Si tratta di un indicatore di ‘quanto poveri sono i poveri’. Indica di quanto la spesa mensile delle famiglie povere è mediamente sotto la linea di povertà in termini percentuali. Il dato di partenza dell’INPS, secondo cui il gap prima dell’introduzione del reddito era pari al 38%, è però diverso da quello calcolato dall’Istat, che nell’ultimo report sulla povertà in Italia lo stima al 19,4% nel 2018”.

Con l'arrivo del 2020, Tridico torna, in un’intervistaLa Stampa, sulla questione. Come prima cosa dichiara che la povertà «purtroppo» non è stata abolita, ma che «la misura sta dando ottimi risultati e ossigeno a milioni di italiani sfortunati». Il giornalista chiede poi conto del dato sulla riduzione del 60% della povertà assoluta fornito a dicembre. Tridico risponde che «in questo momento il reddito è distribuito fra poco più di un milione di nuclei familiari» e che «se a questi si aggiungono quelli previsti dalla relazione tecnica della legge, a regime raggiungeremo tre dei cinque milioni di persone considerate povere dall'Istat: il sessanta per cento». Il dato della riduzione della povertà del 60% grazie al reddito, fornito dal presidente dell’INPS, si basa quindi su una stima e non invece su un dato di fatto. Nell’intervista Tridico continua affermando che per quanto riguarda i primi risultati della misura ci sono invece «un paio di dati incontestabili: il parametro che valuta il livello di disuguaglianza – il cosiddetto coefficiente di Gini – è sceso dell'1,2 per cento. Così come l' intensità del tasso di povertà, calato dal 38 al 30 per cento». 

Per fine gennaio l'INPS, comunque, ha annunciato la pubblicazione di un rapporto ufficiale in cui verranno resi noti i “dati definitivi” sugli effetti del RdC sulla povertà in Italia.  

Quali sono ad oggi i numeri del reddito

Secondo gli ultimi dati forniti dal presidente dell’INPS, i nuclei familiari che finora hanno ottenuto il reddito sono stati 1,77 milioni, con oltre 2,5 milioni di persone raggiunte. L'importo medio mensile del beneficio per famiglia è di poco superiore a 520 euro

Dati INPS riferiti al 6 dicembre 2019, via Repubblica

La maggior parte dei beneficiari si trova nel Mezzogiorno, a seguire le regioni del Nord e infine l’Italia centrale. In base ai dati Istat (pubblicati il 18 giugno 2019 e relativi al 2018) in Italia le persone in povertà assoluta erano circa 5 milioni di individui (che corrisponde all’8,4 per cento della popolazione totale). Questo vuole dire che circa la metà delle persone che vivono in questa condizione ricevono il beneficio.

È utile specificare però che questo non significa che i restanti “poveri assoluti” sono in condizione di ricevere il reddito. Nella relazione annuale della Banca d’Italia (pubblicata nel 2019 e relativa al 2018) si legge infatti che «la platea dei potenziali aventi diritto all’RdC coincide solo in parte con quella degli individui classificabili come “poveri assoluti”»: «Tale parziale disallineamento dipende dal fatto che l’eleggibilità al beneficio è condizionata a requisiti reddituali, patrimoniali e di residenza, mentre la classificazione nella “povertà assoluta” si basa sui livelli di consumo familiare dichiarati in indagini statistiche». Come spiega Pagella Politica “una parte degli individui classificabili come ‘poveri assoluti’ (circa il 6%) non rispetterebbe il requisito dei 10 anni di residenza in Italia, mentre circa il 35% non sarebbe in possesso dei requisiti reddituali e patrimoniali”.

Valentina Conte su Repubblica, analizzando nel dettaglio i dati, elenca alcuni punti deboli della misura: “Solo il 36% del sussidio va alle famiglie con figli minori, quelle più a rischio povertà. I single sono il 39% dei beneficiari con 385 euro di assegno medio. Una famiglia di 4 persone senza minori prende quanto una famiglia con 6 o più componenti, tra cui bimbi: circa 600 euro medi”. Continua la giornalista: “Per mantenere la cifra feticcio dei 780 euro a persona (alla fine i single con cifra piena sono solo il 4,4%), cuore della promozione martellante dei 5 Stelle, è stata sacrificata la scala di equivalenza: se la famiglia cresce, l'importo non si adegua in proporzione ma molto meno”. 

Il presidente dell’INPS, nell’intervista a La Stampa citata prima, alla domanda sulla disparità di beneficio prevista tra un single e una famiglia di sei o più persone ha risposto: «È vero, su questo si potrebbe intervenire, magari rimodulando il sostegno all'affitto e abbassando quello monetario. Oggi si danno ad un single 500 euro più 280 se senza casa. Ma sia chiaro – specifica ancora Tridico – che per avere miglioramenti sostanziali e coprire ad esempio la soglia di povertà Istat in una città del Nord per una famiglia con quattro componenti, bisognerebbe salire a 2.029 euro: non accade nemmeno in Svizzera. Le risorse a disposizione non sarebbero sufficienti, anche riducendo il sussidio per un single»”.

Per quanto riguarda i disabili, conclude la giornalista di Repubblica, a ricevere il beneficio “sono appena il 21%, perché spesso quelli conviventi con i familiari, seppur bisognosi, sono esclusi perché l'ISEE (ndr, Indicatore della Situazione Economica Equivalente) supera il limite richiesto” dalla legge. Gli stranieri, infine, rappresentano l’11% delle persone che usufruiscono del reddito (in numero assoluti corrispondono a 261.463 persone, di cui 87.945 cittadini europei con un importo medio di 506 euro e 173.518 cittadini extra comunitari con un importo medio inferiore di 463 euro). Secondo diverse critiche il governo Conte I ha stabilito requisiti che hanno limitato la possibilità del riconoscimento del reddito agli stranieri presenti in Italia e che vivono in condizione di povertà. Uno dei più contestati, perché ritenuto particolarmente restrittivo per gli stranieri, è quello dei 10 anni minimi di residenza, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo (requisito richiesto anche per i cittadini italiani). 

Come avevamo spiegato nel nostro approfondimento, questo requisito – si legge nel dossier del Centro studi del Senato – presenta inoltre rischi di incostituzionalità. I tecnici di Palazzo Madama spiegano infatti che la giurisprudenza costituzionale aveva evidenziato (ad esempio con la sentenza n.106 del 2018) come lo status di cittadino non sia di per sé sufficiente al legislatore per stabilire nei suoi confronti "erogazioni privilegiate di servizi sociali rispetto allo straniero legalmente residente da lungo periodo”. In passate sentenze, i giudici della Corte Corte Costituzionale hanno così ritenuto non ragionevoli le disposizioni che richiedono una permanenza in Italia maggiore di cinque anni come requisito necessario per ottenere delle erogazioni privilegiate.

Lo scorso luglio, inoltre, da parte dell’INPS è stata sospesa l’istruttoria di tutte le domande presentate a partire da aprile 2019 dei cittadini extracomunitari. La causa era che le nuove condizioni, introdotte dalla legge di conversione del decreto tramite un emendamento della Lega, prevedevano che i cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea dovevano fornire una certificazione rilasciata “dalla competente autorità dello Stato estero, sui requisiti di reddito e patrimoniali, nonché sulla composizione del nucleo familiare”. Il documento doveva anche essere tradotto in italiano. Questa disposizione prevedeva però delle esenzioni: ai rifugiati politici, in caso convenzioni internazionali dispongano diversamente, nei confronti di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea nei quali è oggettivamente impossibile acquisire tale certificazione. Una situazione criticata da più parti, definita discriminatoria – anche perché come affermato da un richiedente extracomunitario al Fatto Quotidiano, “pretendono che io chieda al mio Paese di darmi dei certificati che lì non esistono” – e portatrice di ulteriori disagi. 

Questa situazione si sarebbe dovuta risolvere grazie a un decreto – da emanare entro  lo scorso 30 giugno – del ministro del Lavoro e di quello degli Esteri per individuare i Paesi i cui cittadini fossero esonerati da questo obbligo, per oggettiva impossibilità di produrre questa documentazione. Questo però non è avvenuto, e così a luglio l’INPS ha deciso, come abbiamo visto, di sospendere l’istruttoria delle domande, in attesa di chiarimenti legislativi da parte del governo. Il decreto è poi arrivato a ottobre, cinque mesi dopo la data prevista, ma con un contenuto differente. Nel testo redatto dal ministero del Lavoro e da quello degli Esteri non compare infatti l’elenco dei Paesi nei quali “è oggettivamente impossibile acquisire” la certificazione richiesta. Viene invece stabilito che i cittadini degli Stati o territori elencati nel decreto (in totale sono 19) “sono tenuti a produrre l’apposita certificazione”. I cittadini dei paesi non inclusi nell’elenco non sono invece obbligati a produrla. A inizio dicembre, l'INPS ha comunicato così di aver riaperto l'istruttoria di tutte le domande sospese.

Le criticità della "fase 2"

Se la "fase 1" del reddito non ha incontrato particolari problematiche, la seconda ha prodotto invece varie problematiche e ritardi. A giugno dello scorso anno, in base a quanto stabilito dalla stessa legge, sarebbero dovute partire le convocazioni ai centri per l’impiego per i primi beneficiari. Ma questo non è avvenuto.

Giorgio Pogliotti sul Sole 24 Ore spiegava che “alla scadenza del 24 giugno, alle Regioni ancora non sono stati inviati gli elenchi dall’Anpal con i nominativi dei percettori del RdC e dei loro familiari da contattare. Il risultato è che i centri per l’impiego non hanno ancora avviato le chiamate (con contatti telefonici o con invio di sms o email), per fissare un appuntamento per la stipula del Patto per il lavoro”. L’assessore al Lavoro della Regione Lazio, Claudio Di Berardino, aveva spiegato che «in mancanza degli elenchi da parte di Anpal i centri per l’impiego non sono in condizione di operare». Una problematica sottolineata da diverse Regioni.

Nel frattempo, l’Anpal pubblica l’elenco dei circa 3 mila “navigator” vincitori del concorso pubblico (inizialmente da parte di Luigi Di Maio era stato promesso che sarebbero stati 10 mila), figura destinata ad aiutare i dipendenti dei centri per l’impiego nella gestione dei beneficiari del reddito. Un mese dopo, a luglio, vengono firmate al ministero dello Sviluppo Economico le prime 16 convenzioni tra Anpal Servizi e le Regioni, con cui sarebbero partite le contrattualizzazioni dei navigator su base territoriale. Contestualmente l’assessore della Regione Toscana Cristina Grieco, coordinatrice della Commissione Lavoro e Istruzione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, aveva specificato però che queste firme non potevano essere interpretate “come un alibi per ulteriori ritardi sull’impegno che il Governo ha assicurato per il potenziamento dei centri per l’impiego. Un piano sottoscritto con un’intesa Stato-Regioni che prevede l’assunzione di 4000 unità di personale a tempo indeterminato che dovranno entrare in forma stabile negli organici dei CPI”.

Inizialmente l’unica Regione a non firmare la convenzione (e quindi l’avvio al lavoro dei “navigator”) con Anpal è stata la Campania, per decisione del governatore del Partito democratico Vincenzo De Luca, secondo il quale queste figure si sarebbero andate ad aggiungere al bacino di precari già presenti in Campania. Dopo mesi di polemiche e di proteste da parte dei 471 navigator campani, a metà novembre la situazione si sblocca, con una delibera da parte della Regione che dà validità all’accordo raggiunto con Anpal servizi un mese prima. «Si completa così in tutto il territorio nazionale il percorso di avvio di assistenza tecnica a supporto delle regioni», dichiara il presidente dell’Anpal, Mimmo Parisi. 

Dopo timori e ritardi, viene poi adottato a giugno 2019 e pubblicato in Gazzetta ufficiale ad agosto il decreto per il “Piano triennale straordinario di potenziamento dei Centri per l'impiego”. Le risorse stanziate vengono suddivise tra Anpal e Regioni. Quest’ultime dovranno bandire i concorsi per l’assunzione (con previsione di stabilizzazione anche del personale precario) del nuovo personale nei centri per l’impiego: secondo il piano vengono previste fino a 4.000 assunzioni nel 2019, 3.000 nel 2020 e 4.600 dal 2021.

A settembre, dopo diversi mesi di ritardo, partono le prime chiamate dai centri per l’impiego ai beneficiari del reddito. Daniele Di Berardino, coordinatore vicario della commissione Lavoro della Conferenza delle Regioni, a Radio Anch’io sottolinea però che le Regioni sono ancora in attesa delle piattaforme digitali previste che devono consentire di gestire i percorsi di reinserimento lavorativo o di inclusione sociale: «Il tema del sistema informatico indubbiamente pesa» sulla funzionalità della "fase 2". Un mese dopo viene poi adottato il decreto che istituisce il sistema informativo sul Reddito minimo e l’avvio delle due piattaforme.

Dopo una breve fase di formazione, i navigator collaborano con i dipendenti dei CPI nella gestione dei beneficiari del reddito: «Ho affiancato gli operatori del CPI nell’inviare mail o fare telefonate di contatto – racconta Paolo Marro, un ragazzo di 24 anni a il Sole 24 Ore – poi abbiamo gestito gli appuntamenti. Da lunedì 9 settembre sono partiti i colloqui per l’effettiva presa in carico delle persone in cerca di occupazione».

Ma da un reportage di Annarita D’Ambrosio su Radio 24, pubblicato lo scorso dicembre, emergono diverse problematiche, come ad esempio il fatto che gli "occupabili" (cioè i componenti del nucleo familiare ritenuti idonei a lavorare) che prendono il reddito “sono poco formati e difficilmente appetibili per le imprese”. Per Maurizio Del Conte, ex presidente dell'Anpal, oggi numero uno di Afol metropolitana, l'Agenzia per la formazione, l'orientamento ed il lavoro partecipata dalla città metropolitana di Milano, ci sarà quindi ancora un lavoro lungo da fare “che probabilmente andrà fatto fuori dai centri per l’impiego e più nei centri di formazione professionale, più nelle strutture di riqualificazione vera e propria delle competenze”. Del Conte denuncia inoltre che «c’è ancora moltissimo da fare dal punto di vista della infrastruttura: tutta la parte informatica che dovrebbe essere messa a disposizione dall’Anpal ancora non esiste e quindi tutta anche la parte di verifica per capire se è stata fatta un’offerta, se è stata rifiutata, per il momento può essere fatta tramite le vecchie procedure dei centro per l’impiego».

Negli stessi giorni Mimmo Parisi, presidente dell’Anpal, ha invece difeso l’attuazione della "fase 2": «I Centri per l’Impiego stanno svolgendo in queste settimane un compito encomiabile, per prendere in carico i beneficiari del Reddito di Cittadinanza tenuti al Patto per il lavoro. Noi come Anpal abbiamo messo a disposizione 3 mila navigator, tutti operativi, e stiamo fornendo assistenza tecnica alle Regioni, per facilitare i servizi di accompagnamento al lavoro. Considerando la portata della riforma e il numero di persone coinvolte – conclude Parisi – stiamo procedendo a ritmi da record, visto che tutto questo è avvenuto nell’arco di sei mesi». A gennaio, poi, grazie a nuovo decreto, è arrivato l'obbligo per i beneficiari del sussidio di svolgere i cosiddetti progetti di pubblica utilità alla collettività (PUC) nell’ambito del Patto per il lavoro e del Patto per l’inclusione sociale: si tratta di "lavori" non retribuiti, con un impegno minimo di 8 ore e un massimo di 16 durante la settimana,  da svolgere nel comune di residenza. La mancata adesione – che prevede alcune deroghe – comporterà la perdita del RdC.

I risultati delle politiche attive del reddito

Ma le politiche attive sviluppate nella riforma del reddito quali effetti hanno avuto finora? L’Anpal, lo scorso 23 dicembre, ha pubblicato un report in cui spiega che “ad oggi sono 28.763 le persone che hanno avuto un contratto di lavoro (il 67,2% a tempo determinato, il 18% a tempo indeterminato, il 3,8% in apprendistato) dopo aver ottenuto il Reddito di Cittadinanza”, segnando un “+63,6% rispetto alla precedente rilevazione del 21 ottobre”. Le prime tre Regioni, dove i beneficiari hanno trovato un lavoro, sono Sicilia, Campanie e Puglia.

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I beneficiari del reddito che al 10 dicembre 2019 risultano occcupati, fonte Anpal. Via il Sole 24 Ore

Questo dato va però analizzato nel contesto della misura. Il presidente dell’INPS ha comunicato che ad oggi i nuclei familiari che hanno beneficiato del reddito sono 1,77 milioni, con oltre 2,5 milioni di persone. Gli “occupabili” sono 791.351, cioè un terzo del totale. Di questi, 422.947 beneficiari (cioè il 53%) sono stati convocati dai centri per l’impiego. Il 78% dei convocati (cioè 331.614 persone) ha iniziato il percorso, presentandosi alla prima convocazione (44.166 gli esonerati, 7.713 i rinviati al Patto per l’inclusione, 15.016 indicati come sanzionabili). Come abbiamo visto sopra, a trovare un lavoro sono stati finora poco meno di 30 mila persone. Si tratta dunque del 3,63% degli occupabili e del 6,8% dei convocati dai centri per l’impiego.

Luigi Di Maio, ex ministro del Lavoro e attuale ministro degli Esteri, ha ammesso che le persone che hanno trovato un lavoro sono “ancora poche”, ma, ha aggiunto, “nessuna riforma si giudica in 8 mesi”. Secondo la sociologa Chiara Saraceno questi primi risultati non mostrano comunque che il reddito debba essere abolito, ma riformato "per correggere quegli aspetti che provocano ingiustizie tra poveri, a seconda dell'età e della composizione familiare e discriminano in modo pesante gli stranieri non comunitari, che scoraggiano la partecipazione al lavoro anche tra chi, una minoranza dei poveri assistiti come documentato da diverse analisi, sarebbe in grado di lavorare almeno parzialmente, e che distorcono l'obiettivo principale di una misura di questo genere, che non è la creazione di posti di lavoro, ma la garanzia del soddisfacimento dei bisogni di base di chi si trova in povertà".

Foto in anteprima via Ansa

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