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Sottopagate, invisibilizzate, sfruttate: il difficile accesso delle donne al mondo del lavoro

15 Gennaio 2024 7 min lettura

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Sottopagate, invisibilizzate, sfruttate: il difficile accesso delle donne al mondo del lavoro

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Lavoro retribuito, lavoro di cura, lavoro sommerso, lavoro formale e informale. Meno pagate rispetto ai colleghi uomini, le donne sono spesso precarie e impiegate in settori poco strategici. Per sostenerle ci sono pochi servizi di welfare – se non addirittura inesistenti, soprattutto in alcune parti d’Italia. E così il binomio donne e lavoro è ancora un tema caldo nella nostra società, un nodo aggrovigliato che periodicamente torna alle cronache quando vengono pubblicati nuovi dati e statistiche. Gli ultimi sono usciti poche settimane fa, contenuti in un dossier della Camera dei deputati: in Italia nel 2022 il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni è del 55%, contro una media europea del 69% (dati Eurostat). Le donne occupate sono circa 9,5 milioni, gli uomini circa 13 milioni.

“La promozione del lavoro delle donne è spesso vista come strumentale all’aumento della natalità. Si tratta di un certo tipo di lavoro: quello che si concentra sulla disponibilità di lavori part-time, di poca responsabilità, che consentano alla donna di continuare ad assolvere anche al suo ruolo di riproduzione all’interno della famiglia e di cura verso figli e figlie, persone anziane o con disabilità”, spiega Giulia Sudano, presidente dell’associazione Period Think Tank, che all’interno del convegno “Datipercontare: statistiche e indicatori di genere per un PNRR equo” ha dedicato un tavolo di lavoro proprio al tema donne, lavoro e PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza). “Questo modello ha mostrato tutti i suoi limiti ed è ormai considerato insufficiente a livello europeo: le politiche promosse dall’Unione Europea parlano oggi di condivisione dei ruoli, e non più di conciliazione. La crisi della pandemia da Covid-19 ha anche aperto un nuovo dibattito sul concetto di cura, e su quali dovrebbero essere le fondamenta su cui basare la nostra società”.

Ma i ruoli di genere prevalenti sono difficili da cambiare.  E infatti ancora oggi una donna su cinque esce dal mercato del lavoro a seguito della maternità. La decisione di lasciare il proprio impiego è determinata per oltre la metà, il 52%, da esigenze di conciliazione, e solo per il 19% da considerazioni economiche. Anche secondo il Rapporto Istat SDGs 2023, la maternità ha un impatto dirompente nella vita lavorativa delle donne: nel 2022 il tasso di occupazione delle donne di età compresa tra 25 e 49 anni con figli di età inferiore ai 6 anni è pari a 55% mentre quello delle donne della stessa età senza figli è del 77%. Per contrastare questa tendenza, l’istruzione si conferma un fattore protettivo: la differenza occupazionale tra lo status di madre e non madre è molto bassa in presenza di un livello di istruzione elevato.

“Per scardinare questi stereotipi ci vorrà un impegno concreto e capillare: si tratta di percorsi complessi e profondi, che attraversano più generazioni”, spiega Sudano. “Universalizzare il concetto di cura vuole dire redistribuire i carichi tra tutti i generi, investendo su vari livelli: educazione alle differenze nelle scuole, aggiornamento dei libri di testo che ripropongono stereotipi molto forti, incentivo alla cura agita dagli uomini, anche attraverso la promozione dei congedi di paternità e parentali”.

Il divario di genere nelle retribuzioni

C’è poi il problema del gender pay gap, il divario retributivo tra uomini e donne. In Italia il gender pay gap medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è del 5,5%, contro una media europea del 13%. I dati peggiorano quando si guarda al gender pay gap complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini), che è pari al 43%, al di sopra della media europea del 36%. Secondo i dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps, nel 2022 la retribuzione media annua è costantemente più alta per gli uomini, con una differenza di 7.922 euro (26.227 euro per gli uomini contro 18.305 euro per le donne).

Le differenze di genere nelle retribuzioni sono più alte nel privato che nel pubblico. Fra i dipendenti pubblici la retribuzione media delle donne supera dell’11% quella degli uomini nella fascia under 30, ma questo vantaggio iniziale si rovescia col passare degli anni, fino a raggiungere negli over 50 un distacco del 5,3% degli uomini sulle donne. Nel settore privato, invece, il gender pay gap presenta fin dall’inizio un consistente vantaggio degli uomini: si va dall’8% di chi ha meno di 30 anni al 24% di chi ne ha più di 50. Tra i liberi professionisti, poi, il divario è impressionante: i dati OECD mostrano che guardando il reddito medio annuo da lavoro autonomo il divario uomini-donne tocca il 45%.

E poi ci sono le donne che fanno del lavoro di cura una professione, come le babysitter, le assistenti familiari e le badanti. Su circa 900mila lavoratori domestici in Italia, l’86% sono donne e il 70% sono straniere. “Troppo spesso il lavoro di cura – perché femminilizzato e poco riconosciuto – viene agito da persone che sono del tutto o in parte invisibili, come le donne migranti”, afferma Sudano. “Si tratta ancora di un lavoro poco professionalizzato e poco retribuito”.

Il PNRR e il nodo degli asili nido

Per favorire l’occupazione femminile e la parità salariale, il PNRR ha introdotto due grandi novità: una quota occupazionale minima di donne e giovani e misure premiali per la parità di genere. Il problema è che manca l’obbligo normativo: secondo l’analisi di Period Think Tank su 34.377 gare, il 96% non ha misure premiali per la parità di genere e il 68% non prevede obblighi rispetto a una quota di donne o giovani. La maggior parte delle misure (20 su 34) che hanno come priorità la parità di genere sono legate all’indicatore “Tasso di mancata partecipazione femminile al lavoro”. La quota più cospicua di fondi vanno a finanziare asili nido e scuole dell’infanzia: 4,6 miliardi sono destinati al Piano asili nido e scuole dell'infanzia e servizi di educazione e cura per la prima infanzia, e altri 960 milioni di euro sono indirizzati al Piano per l’estensione del tempo pieno e mense.

“I servizi educativi sono fondamentali per permettere a tutte le figure genitoriali di poter lavorare, oltre che per dare un servizio fondamentale per la crescita individuale e collettiva di bambini e bambine, ragazzi e ragazze”, spiega Sudano. Tra gli obiettivi principali del Piano c’è anche la costruzione di 1.857 nuovi asili nido: l’attesa è tanta, visto che ogni anno le famiglie fanno molta fatica a trovare posti a prezzi accessibili. Attualmente i posti gestiti dai comuni non bastano ad accogliere tutti i bambini, le graduatorie per l’assegnazione hanno criteri complessi e le alternative private sono costose. Questa incertezza rende difficile l’organizzazione familiare e ad essere penalizzate sono soprattutto le donne, che sono spesso costrette a dover scegliere tra lavoro e accudimento dei figli.

Nonostante l’importanza di questa misura, quello degli asili nido è uno degli ambiti del Pnrr che ha accumulato i maggiori ritardi: dopo la prima pubblicazione del bando di assegnazione dei fondi, le domande presentate sono state sufficienti a coprire 1,2 miliardi su 3. Con un secondo bando, l’assegnazione ha raggiunto i 2 miliardi. Sono stati assegnati altri 400 milioni grazie a un terzo round e 70 con un bando ad hoc per i comuni del Mezzogiorno.

In più, a livello locale è ancora molto difficile comprendere come i progetti approvati all’interno del PNRR si integreranno con i servizi esistenti, e come questi dovranno adeguarsi nel futuro. “Non esistono mappature dei servizi esistenti, che rendano visibile, organica e integrata l’offerta in termini di aree e popolazione coperta, orari e tipologia”, spiega Sudano. “Tali mappature renderebbero più evidenti i necessari raccordi tra progetti e iniziative esistenti, e le aree di intervento sui cui concentrare l’azione futura in modo da garantire servizi e assistenza adeguata a seconda delle necessità, vulnerabilità e condizioni personali e familiari”.

Una rete che non c’è

Ma il lavoro di cura non è solo quello verso i bambini: ci sono anche le persone anziane, con disabilità, le persone fragili, oltre che la gestione della casa e le incombenze familiari. “Servono strategie e riconoscimento per i tipi di cura che riguardano altre e molteplici fragilità e vulnerabilità: i servizi diurni devono essere più presenti nei territori, insieme all’assistenza domiciliare e ad altri strumenti di maggiore autonomia come i cohousing sociali”, afferma Sudano. Per andare verso un mondo del lavoro più inclusivo, poi, è necessario rendere più accessibili strumenti che vengono resi disponibili in modo disomogeneo da alcune aziende. “Pensiamo alla possibilità di flessibilità in entrata e in uscita, o all’opportunità di allungare il congedo di paternità o di utilizzare in modo più ampio altri tipi di congedo”. 

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Più in generale, quello che manca è una vera e propria ristrutturazione dell’organizzazione sociale secondo un nuovo modello più egalitario e inclusivo. Prendiamo ad esempio la capillarità del sistema di trasporto pubblico, ma anche agli orari di apertura dei servizi e del commercio, che quasi sempre coincide con quello di apertura delle scuole. “La loro rimodulazione aumenterebbe il benessere non solo delle donne, ma di tutta la società, per questo motivo applicare uno sguardo di genere in modo trasversale permette di costruire città più vivibili ed eque per tutte le persone”, conclude Sudano. “Come spesso si sente ripetere, il Pnrr non può essere il piano di ripresa per gli uomini, e la resilienza per le donne. Il sistema di distribuzione dei ruoli e dei carichi familiari non può rimanere quello attuale”.

*Questo articolo è stato prodotto grazie alla partnership con Period think tank nell'ambito del progetto #datipercontare

Immagine in anteprima via portale.scuola.comune.palermo.it

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