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Il governo Meloni ha già reso impotente il neonato Piano di adattamento ai cambiamenti climatici

16 Gennaio 2024 12 min lettura

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Il governo Meloni ha già reso impotente il neonato Piano di adattamento ai cambiamenti climatici

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La notizia non è sui social del ministero dell’Ambiente e non è stata trattata neppure nella conferenza stampa di fine/inizio anno della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Eppure il fatto che l’Italia si sia finalmente dotata di un Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) dovrebbe essere motivo di vanto da parte del governo, soprattutto perché i cinque esecutivi precedenti non erano riusciti a farlo. La sensazione che emerge è quella di un impegno portato a termine in forte ritardo, senza grande fiducia, come un obbligo da dover rispettare e del quale non si condividono granché l’urgenza e l’esigenza.

Nella breve nota sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, diffusa il 2 gennaio, si legge che 

“Il Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, con decreto n. 434 del 21 dicembre 2023, ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Un passo importante per la pianificazione e l’attuazione di azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nel nostro paese”. 

Nessun commento del ministro Pichetto Fratin, che non fa mai mancare una dichiarazione rispetto a ogni decisione presa dal dicastero, nessuna presa di posizione della viceministra, Vannia Gava, sempre attenta a collocarsi in modo autonomo. Eppure la mole di documenti allegati - più di 900 pagine tra dati, analisi, tabelle, indicatori e misure - avrebbe meritato un’elaborazione politica di un atto che, qualunque sia la visione, resta necessario e fondamentale. 

Perché il 2023 che ci siamo appena messi alle spalle conferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che anche in Italia la crisi climatica ha intrapreso la strada di quello che il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres definisce “collasso climatico”. Come ha confermato Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, la temperatura media globale del 2023 stata la più alta dal 1850, cioè da quando la scienza è in grado di stimare delle rilevazioni annuali. Adattarsi al clima che collassa dovrebbe essere una priorità e non una formalità. Ecco perché bisogna analizzare ciò che lo stato intende mettere in campo per affrontare i prossimi inevitabili “eventi meteorologici estremi”.

Le possibili ragioni del silenzio sul Piano

Esattamente un anno fa “l’odissea tutta italiana del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” era stata raccontata su Valigia Blu, in un pezzo in cui l’autrice Marika Moreschi aveva fatto notare che “Fratelli d’Italia ne aveva promesso l’attuazione definitiva già all’interno del suo programma elettorale, ma in termini piuttosto generici e senza preoccuparsi di dare una vera e propria scadenza”. Poco meno di 365 giorni dopo l’odissea è giunta a compimento ma l’approdo non sembra importare a nessuno. 

Tantomeno alla presidente del Consiglio, dalla quale era lecito aspettarsi un accenno al PNACC durante la conferenza stampa di tre ore sul bilancio del 2023, il primo vero anno di governo per Giorgia Meloni. Se appare incredibile che nessuna delle 42 domande poste da giornaliste e giornalisti presenti a Montecitorio abbia fatto cenno alle questioni climatiche (e neppure ambientali, mentre sulle questioni energetiche ci si è limitati al Piano Mattei), la domanda da affrontare è sempre la stessa: come mai un governo sempre attento a vantare e a gonfiare il petto rispetto ai risultati ottenuti, anche quando sono sovrastimati o semplicemente falsi, ha scelto il silenzio rispetto al Piano di adattamento, un atto comunque portato a termine?

Nelle immediate reazioni di gran parte del giornalismo ambientale si sono sottolineati i punti deboli del Piano, già emersi nella bozza proposta dal governo Meloni nel febbraio 2023 e poi confermati anche dalla versione finale, arrivata dopo la fase di consultazione prevista dalla VAS (la valutazione ambientale strategica). Emanuele Bompan, direttore di Materia Rinnovabile, è stato tra i primi a scrivere un’analisi del “nuovo” PNACC, nella quale osserva che:

Il documento, secondo vari intervistati del mondo della politica, della pianificazione, della PA e dell’ambientalismo, arriva già vecchio e con numerose lacune, sia procedurali che di contenuto che di forma. Essendo poi un decreto ministeriale e non un DL approvato dal Parlamento, manca ovviamente della forza normativa che necessiterebbe per essere un’asse centrale dello sviluppo economico e ambientale del paese.

Il WWF invece si chiede addirittura se non si sia di fronte al più classico “tanto rumore per nulla” e stila un lungo elenco delle debolezze del piano:

Non risponde al vero la giustificazione che pare essere addotta per i ritardi del Piano, cioè un presunto approccio bottom-up della sua stesura: in realtà, l’approccio è stato centralizzato e le consultazioni e la VAS non paiono aver inciso più di tanto. Probabilmente sarebbe stato difficile partire con un mero approccio bottom-up perché la cultura dell’adattamento va costruita. Alcune realtà (Comuni, Autorità di Bacino ecc.) stanno effettuando percorsi, anche partecipativi, di notevole interesse, ma il metodo adottato ha consentito poco che venisse trasferito a livello nazionale. Riteniamo non ammissibile che dopo 7 anni si proponga un Piano con “possibili opzioni di adattamento” “che troveranno applicazione nei diversi strumenti di pianificazione, a scala nazionale, regionale e locale”. I Piani si chiamano così perché servono a pianificare concretamente operando scelte, specie a livello nazionale e sovraregionale.

Un altro grave limite del Piano è che pare individuare le azioni solo a livello urbanistico e territoriale: non che non sia importante, è vitale e, nel contempo, molto carente, ma come WWF riteniamo che la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico dovrebbero costituire la base per la programmazione in senso generale, a partire da quella economica e sociale. Questo è un elemento di arretratezza che, dopo sette-otto anni di attesa, appare davvero poco giustificabile (...) In merito alle azioni, il Piano appare fortemente deficitario di quella visione integrata che dovrebbe consentire di pensare l’adattamento non come mere misure di emergenza o di messa in sicurezza del territorio. Oggi la coscienza e conoscenza dei rischi dovrebbe portare a misure strutturali che il Piano ancora non intravede. Questo oltretutto cozza con quell’approccio sistemico che proprio il PNACC afferma.

I costi del mancato adattamento

La lettura delle 106 pagine del Piano nazionale vero e proprio è comunque utile per ripercorrere il quadro giuridico di riferimento, conoscere il quadro climatico nazionale, leggere le proiezioni future, studiare gli impatti e le vulnerabilità settoriali: dalle risorse idriche al dissesto geologico, dalle foreste alla produzione alimentare. Fosse anche solo per confermare la necessità di interventi sistemici sparsi su tutto il Paese. Per il documento del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica “essendo il tema fortemente trasversale, la pianificazione di azioni adeguate necessita di: una base di conoscenza dei fenomeni che sia messa a sistema; un contesto organizzativo ottimale; una governance multilivello e multisettoriale”. Servirebbero anche i soldi, in realtà. 

Lo ha fatto notare ad esempio Enrico Giovannini, ex ministro della Mobilità Sostenibile nel governo Draghi e attuale direttore scientifico di ASVIS, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile:

Per dare immediata e piena attuazione al Piano occorre che il Governo crei in tempi brevissimi la struttura di governance prevista dallo stesso Piano, così da trasformare gli obiettivi stabiliti in azioni concrete. Inoltre va ricordato che il PNACC non beneficia di specifiche risorse finanziarie: per questo bisogna urgentemente valutare se e come gli investimenti previsti dal PNRR o quelli finanziati da altri strumenti, come i fondi europei e nazionali per la coesione, possano contribuire alla realizzazione del Piano. Tali analisi vanno condotte entro marzo, così da poter valutare in occasione della preparazione del prossimo Documento di Economia e Finanza eventuali correzioni da riversare poi nella Legge di bilancio per il 2025. Le politiche di contrasto e di adattamento alla crisi climatica devono essere considerate prioritarie dal Governo, dalle Regioni e dai Comuni, per scongiurare disastri come quelli degli ultimi anni e rendere le nostre infrastrutture resilienti.

A fine 2023, quasi in contemporanea con la pubblicazione del PNACC, Legambiente aveva denunciato che l’anno trascorso è stato “da bollino rosso per il clima”, con gli eventi estremi che “sono saliti a quota 378, segnando +22% rispetto al 2022, con danni miliardari ai territori e la morte di 31 persone”. Dopo l’adozione del Piano, il presidente di Legambiente Stefano Ciafani si mostra soddisfatto per l’adozione in sè dello strumento ma, dall’altra parte, sottolinea che siamo solo all’inizio di una nuova fase, che dovrà essere fatta di scelte concrete:

Ora però ricordiamo al Ministro dell’ambiente e al Governo Meloni che per attuare il PNACC sarà fondamentale stanziare le risorse economiche necessarie e ad oggi ancora assenti, non previste neanche nell’ultima legge di bilancio, altrimenti il rischio è che il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici resti solo sulla carta. Sarà, inoltre, importante approvare un PNIEC, Piano Nazionale Integrato Energia e Clima, con obiettivi più ambiziosi di produzione di energia rinnovabile e di riduzione di gas climalteranti al 2030; una legge sullo stop al consumo di suolo che ancora manca all’appello dopo oltre 11 anni dall’inizio del primo iter legislativo, semplificando anche la demolizione e la ricostruzione degli edifici esistenti ed entro tre mesi si emani il decreto che attiva l’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, con funzione di coordinamento tra i livelli di governo del territorio e dei vari settori.

Non solo non ci sono fondi ma il piano non individua neppure i costi di tante azioni. Lo spiega bene il giornalista ambientale, Ferdinando Cotugno, su LinkedIn:

La sezione più importante è quella delle 361 azioni da mettere in campo, quelle che faranno la differenza tra un'alluvione gestibile e una catastrofica, tra una senza vittime e una con vittime. Per arrivare a quel punto servono risorse, capacità di spesa, e quindi chiarezza. La colonna dei costi del nostro Piano di adattamento si presenta così, quasi interamente vuota. Per oltre 270 azioni su 361 i costi non sono indicati, non sono disponibili, «non si hanno informazioni in materia», sono «da valutare», «dipende». Per 51 voci si rimanda ad altri documenti e piani (soprattutto europei). Solo 5 azioni su 361 hanno i costi puntualmente indicati.

Nel frattempo in questi anni le Regioni e i Comuni hanno fatto da sé. E, senza una cornice nazionale, ciascun ente si è mosso in ordine sparso, confermando spesso la “storica” gestione affaristica dei territori. In un recente articolo L’Espresso ha pubblicato una serie di fotografie aeree utilizzate dai ricercatori dell’Ispra per misurare il consumo netto di suolo in Italia in questi ultimi anni.

Un espediente semplice ma efficace per visualizzare concretamente perché l’adattamento non è una priorità di questo come dei precedenti governi: 

L’Italia è sempre più cementificata e anche per questo ha problemi sempre più gravi di alluvioni, frane, siccità, inquinamento, emergenze climatiche e disastri ambientali. A livello nazionale spariscono, in media, più di due metri quadrati al secondo di aree verdi: 21 ettari al giorno, 77 chilometri quadrati all’anno. La natura in Italia è sotto assedio. Ogni anno, da decenni, scompaiono enormi estensioni di terre fertili, con effetti rovinosi sul territorio. Ai danni diretti all’ambiente, all’agricoltura, al paesaggio e alla vivibilità dei centri abitati, si somma la perdita delle difese naturali contro il dissesto: dove il suolo diventa artificiale e impermeabile, aumentano a dismisura i rischi di allagamenti, smottamenti, ondate di calore, eventi estremi.

Più che l’aggiornamento serve il cambiamento

Il PNACC ricorda che “la prima fase è stata caratterizzata da un articolato iter avviato nel 2017”, periodo al quale risale anche “il quadro delle conoscenze sugli impatti dei cambiamenti climatici in Italia, prodotto nell’arco degli anni 2017-2018 da una ampia comunità di esperti”. Nel frattempo, però, la crisi climatica ha subito un’accelerazione notevole. Ecco perché più utile appare l’aggiornamento della piattaforma nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, promossa all’epoca del governo Draghi su iniziativa dell’ex Direzione Generale per il Clima e l’Energia, che a sua volta faceva parte dell’ex ministero della Transizione Ecologica, e realizzata dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. 

La piattaforma, scrive ISPRA, “intende favorire lo scambio di informazioni tra l’amministrazione centrale, gli enti locali e tutti i portatori di interesse, a partire dai cittadini, rispetto al tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici, rappresentando così lo strumento informativo principale in Italia su questo tema”. Pur con dati e documenti rinnovati, sulla piattaforma, che tradisce un’impostazione grafica un po’ approssimativa, non funzionano ancora alcuni link fondamentali, come la mappa del sito:

e le mappe degli indicatori climatici:

Di fronte a un quadro conoscitivo in continuo mutamento, tutti questi ritardi sono inaccettabili. Così come nel corso del 2023 è apparsa inaccettabile la volontà del governo Meloni di punire chi tenta di sensibilizzare sulla crisi climatica e sull’importanza di interventi ampi e concreti. Da più di un anno le attiviste e gli attivisti di Ultima Generazione premono proprio sull’adattamento, chiedendo l’istituzione di un Fondo Riparazione:

Chiediamo un fondo preventivo e permanente di 20 miliardi di euro sempre pronti ad essere spesi per ripagare i danni da calamità ed eventi climatici estremi. Ovvero, vogliamo che tutte le persone che vedono le proprie strade, le proprie case, i propri raccolti devastati da alluvioni, grandinate, gelate fuori stagione, siccità anomala vengano ripagate di ciò che hanno perso immediatamente. Vogliamo che questi soldi siano sempre presenti e pronti all’uso. Se cinque miliardi escono, cinque rientrano, entro un mese. Vogliamo che siano istituiti processi partecipativi così le comunità affette da disastri climatici possano dire come vorrebbero vedere utilizzati gli aiuti economici dallo stato. Vogliamo che ci siano processi rapidi e veloci per riparare i territori e non che i soldi vengano perduti nella macchina infernale della burocrazia italiana. Inoltre vogliamo che tali fondi vengano ottenuti livellando le ingiustizie sociali: extra-profitti delle industrie fossili, taglio totale dei sussidi pubblici ai combustibili fossili, taglio degli stipendi dei manager delle industrie energivore partecipate dallo stato, taglio degli stipendi della classe politica, taglio delle spese militari.

C’è, inoltre, un aspetto troppo spesso sottovalutato, vale a dire la mancanza di figure specialistiche nei territori. Nell’allegato II, intitolato “Metodologie per la definizione di strategie e piani locali di adattamento ai cambiamenti climatici”, si propone “una serie di indicazioni concrete rivolte agli amministratori locali di comuni, città e aree metropolitane su come agire e attrezzarsi per rispondere ai cambiamenti climatici nel proprio contesto di appartenenza”, individuando i “principali passaggi tecnici e organizzativi necessari per eseguire attività strategiche”, suggerendo inoltre “partnership e strumenti attivabili nelle diverse fasi che caratterizzano una corretta politica climatica degli enti locali, contribuendo in tal modo a superare incertezze operative e mancanza di conoscenze adeguate a questa scala di intervento”. 

Ma, rispetto ai cronici, e ormai strutturali, tagli alla spesa pubblica, che spesso si ripercuotono proprio sugli enti locali, alcuni propositi appaiono lunari. Non a caso le cosiddette “best practices" citate nell’allegato si riferiscono prevalentemente a Comuni di medie e grandi dimensioni come Ancona, Padova, Genova, Milano e Roma. Alle condizioni attuali per i centri sotto i 5mila abitanti, che in Italia rappresentano il 70% dei Comuni italiani e perennemente sottodimensionati nel personale pubblico, immaginare che si possano individuare figure specifiche dedicate al clima, e in maniera ancora più specifica destinate all’adattamento, costituisce una pura utopia.

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Oltre agli aggiornamenti necessari, ai soldi da stanziare, alla creazione di professionalità ad hoc nei Comuni e nelle Regioni, alle singole leggi necessarie - come quella già accennata sul consumo di suolo, ma anche la legge quadro sul clima, al momento in discussione in Senato - certamente serve un cambio di mentalità. Fino a questo momento la destra italiana al governo ha confermato i peggiori auspici dal punto di vista ambientale: usa la formula della “transizione ecologica non ideologica” per confermare lo status quo e seguire le strategie delle grandi aziende, applica una logica decisionista e trasforma ogni questione in termini di “sicurezza”, valuta ogni misura ambientale europea (come il regolamento sugli imballaggi,  il divieto di produzione di auto termiche dal 2025 o la direttiva sulla qualità dell’aria) come una spesa insostenibile e non come un’opportunità da cogliere.

Di fronte al collasso climatico in atto ci può essere, forse, un adattamento tradizionale, identitario, populista, sovranista (ne parlavamo qui) ma non possiamo più permetterci il mancato adattamento dei territori. Adattarsi è già ora una questione di vita e di morte, non è più un’opzione politica da scegliere se perseguire o meno.

Immagine in anteprima via ecodallecitta.it

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