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L’odissea tutta italiana del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici

13 Gennaio 2023 9 min lettura

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L’odissea tutta italiana del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici

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di Marika Moreschi

La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si era pubblicamente impegnata a concludere l’approvazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) entro la fine del 2022. Si tratta di un documento che è in sospeso dal giugno 2018 e ha attraversato, senza successo, ben quattro governi dei più disparati schieramenti politici: Gentiloni (PD), Conte I (M5S/Lega), Conte II (M5S,PD), e Draghi (governo di “unità nazionale”). Fratelli d’Italia ne aveva promesso l’attuazione definitiva già all’interno del suo programma elettorale, ma in termini piuttosto generici e senza preoccuparsi di dare una vera e propria scadenza. I tempi stringenti sono stati definiti solo di recente, dopo che l’ennesima tragedia legata al dissesto idrogeologico ha colpito il comune di Casamicciola Terme. 

In un question time tenutosi nei giorni immediatamente successivi ai fatti di Ischia, mentre il dibattito pubblico verteva soprattutto attorno al tema dei condoni edilizi e delle responsabilità politiche, il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto, ha ribadito l’impegno del governo verso il PNACC. La sua attuazione è infatti legata, tra le altre cose, proprio all’adattamento dei territori esposti a un alto rischio idrogeologico definito, dallo stesso Ministro, “un’emergenza nazionale che lo Stato non ha saputo affrontare efficacemente”. 

Non è la prima volta che il PNACC viene promesso all’indomani di una tragedia. A partire dall’alluvione della Maremma grossetana del 2012, che diede lo stimolo iniziale per la stesura di una Strategia e di un Piano per l’adattamento, passando per quello di Livorno del 2017 e quello di Palermo del luglio 2020: ogni volta il PNACC è stato ritirato fuori dall’abisso della burocrazia italiana, riuscendo magari a fare un piccolo passo avanti saltando da una commissione all’altra, senza però mai vedere definitivamente la luce. Dopo dieci anni il Piano è diventato uno dei tanti casi che provano l’inefficienza dei processi decisionali del nostro paese e l’abitudine della politica a dimenticare gli interventi strutturali non appena si spengono i riflettori dell’emergenza. Questa volta però la questione è ancora più complicata perché ai tempi biblici delle istituzioni si contrappongono violentemente i ritmi sempre più incalzanti dei cambiamenti climatici. Gli eventi meteorologici estremi crescono esponenzialmente in numero, violenza e pericolosità, rendendo obsoleto un piano d’azione che risale al decennio scorso. 

Lo scorso dicembre il governo Meloni è riuscito a presentare ufficialmente una nuova versione del PNACC alla Conferenza delle Regioni che si occuperà ora di effettuare la Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Al netto delle promesse, l’iter del PNACC è tornato esattamente allo stesso punto in cui si era bloccato la prima volta. 

Che cosa è il PNACC, a cosa serve e perché è necessario

Il PNACC è lo strumento attuativo della Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici che è stata approvata nel giugno 2015. La sua finalità è definita dal Ministero dell’Ambiente: 

Contenere la vulnerabilità dei sistemi naturali, sociali ed economici agli impatti dei cambiamenti climatici e aumentarne la resilienza”. 

La Strategia elenca i rischi climatici sui principali settori socio-economici del paese, limitandosi a definire in modo generico quali siano le iniziative necessarie. Il Piano è invece uno strumento molto più completo e concreto con un vero e proprio database con 361 azioni di adattamento, classificate secondo urgenza, tipologia, orizzonte temporale e istituzione competente. A tali azioni è allegata anche una stima dei costi e una tabella dei fondi già disponibili cui attingere. Senza il PNACC la Strategia Nazionale di Adattamento resta lettera morta. 

Lavorare sull’adattamento serve a proteggere quelle comunità che abitano territori minacciati da fenomeni come la desertificazione, l’erosione costiera, il dissesto idrogeologico, l’innalzamento del livello dei mari, l’aumento delle temperature. Ragionare in questi termini significa non limitarsi solamente all’investimento post-catastrofe volto alla ricostruzione ma prevenire le conseguenze più tragiche e quindi, in ultima analisi, salvare vite. Ormai tutti i paesi dell’area europea si sono dotati di Piani di adattamento a livello nazionale che vengono periodicamente aggiornati. Fanno eccezione solo l’Italia e la Polonia, insieme alla Svezia che però è ben equipaggiata da numerose pianificazioni di carattere settoriale. 

Il ritardo dell'Italia sul tema dell’adattamento è particolarmente preoccupante considerando che il nostro paese, per via della sua collocazione al centro del Mediterraneo, è uno dei più colpiti dagli eventi climatici estremi. Legambiente ne ha contati 310 nel 2022, un aumento del 55% rispetto allo scorso anno. L’adattamento delle attività economiche e delle infrastrutture è quindi necessario, oltre che conveniente. Secondo il rapporto Adapt Now (2019) infatti ogni euro speso in adattamento produce 5 euro di risparmio nel breve termine. Anche il PNRR tiene conto di questi dati e il potenziamento infrastrutturale, in un’ottica di sostenibilità e resilienza dei territori, è trasversale a più di una delle “missioni” del piano. Il Ministero delle Infrastrutture stima che investimenti consistenti potrebbero evitare danni pari allo 0.1-0.4% del PIL già in questo decennio con un beneficio economico annuo dello 0.4-0.8% del PIL a partire dal 2050. Alle valutazioni economiche si aggiungono poi quelle sociali, riguardanti i benefici per la salute, il miglioramento della qualità della vita e la riduzione delle disuguaglianze, specialmente tra Nord e Sud Italia. In questo caso è più difficile dare dei numeri, ma senza dubbio un territorio più pronto ad affrontare i rischi climatici implicherebbe una maggiore stabilità finanziaria e una maggiore protezione per le fasce di popolazione più povere e vulnerabili. 

Una odissea all’italiana

L’elaborazione del Piano Nazionale di Adattamento è stata avviata nel 2016, subito dopo l’approvazione della corrispondente Strategia, anche se le prime discussioni in merito risalgono al 2012. Il lavoro ha coinvolto diversi enti di ricerca, insieme alle amministrazioni pubbliche regionali e locali. Tra il 2017 e il 2018 si sono tenute anche due consultazioni pubbliche online, con l’obiettivo di raccogliere le osservazioni della società civile, e una revisione scientifica. Nel 2018 la Conferenza delle regioni e province autonome ha deciso di avviare una procedura di Valutazione Ambientale Strategica (VAS). A questo punto il Piano si è arenato. La richiesta di avvio della verifica di assoggettabilità a VAS del PNACC è stata fatta nel giugno 2020 e la valutazione ambientale vera e propria è iniziata solo a gennaio 2021. L’iter è rimasto fermo “in attesa del Piano e del Rapporto Ambientale”. La Commissione competente aveva infatti prodotto alcune indicazioni e integrazioni, pur puntualizzando che il suo verdetto complessivamente è comunque positivo. 

Lo stop non è stato una sorpresa: la Commissione Via-Vas è stata negli ultimi anni un vero e proprio collo di bottiglia per molte iniziative, soprattutto di carattere infrastrutturale. Secondo quanto riportato da Repubblica, il problema sarebbe soprattutto la carenza di fondi e personale. Oltre alla Valutazione Ambientale Strategica di piani e programmi, la Commissione è incaricata anche di effettuare la Valutazione dell’Impatto Ambientale (VIA) per le iniziative dei privati. Le aziende sono tenute a pagare una quota per accedere alla VIA, ma solo una minima parte di questi fondi va a finanziare le attività necessarie al lavoro della Commissione (sopralluoghi, tecnologie informatiche etc). Il presidente Atelli è riuscito recentemente a ottenere dal Parlamento un nuovo flusso di fondi che ha portato a raddoppiare il numero di commissari, riaccendendo così la speranza di velocizzare i processi di valutazione. 

La fase finale dell’iter, che avrebbe finalmente portato all’attuazione del Piano, è stata accantonata dal governo Draghi. L’ex Ministro delle Infrastrutture, Giovannini, ha infatti spiegato che l’esecutivo ha preferito concentrarsi sulla mitigazione piuttosto che sull’adattamento, adottando il Piano per la Transizione Ecologica, legato a doppio filo agli obiettivi sanciti dal Green Deal europeo e ai vincoli ambientali imposti dall’Unione Europea per quanto riguarda i fondi del PNRR. Si tratta dunque di uno strumento completamente diverso che ha a che vedere con le trasformazioni necessarie per ridurre le emissioni (rispetto all’adattamento che può essere inteso come il processo di adeguamento agli effetti attuali e futuri dei cambiamenti climatici).

La nuova versione del PNACC presentata dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica recepisce “le osservazioni formulate dalla Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale e l'intervenuta normativa europea”, con riferimento alla Strategia europea di adattamento 2021, e si presenta nuovamente all’approvazione delle regioni. Questo aggiornamento del testo è da attribuirsi ad un gruppo di lavoro istituito dal governo Draghi la scorsa estate, quando il Presidente del Consiglio era già dimissionario. 

La promessa del governo Meloni può essere mantenuta, ma il nuovo Piano è già vecchio 

Rendere operativo il PNACC nel giro di pochi mesi è possibile: il testo è già stato preparato, l’esecutivo è sostenuto da una larga maggioranza. Resta il rischio di problemi nei livelli di governance più bassi, dove istituzioni regionali e locali si troverebbero a dover tentare di realizzare azioni di adattamento pensate per un territorio che ormai è profondamente cambiato. 

Dalla versione base del PNACC, datata 2018, è passato un quinquennio. Rispetto alla velocità con cui avanziamo verso il superamento dei tipping points, si tratta di un tempo lunghissimo. Basti pensare che il PNACC del 2018 si basava sul quinto rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, ormai superato quest’anno dalla sua sesta edizione. Secondo l’ex Ministero dell’Ambiente Sergio Costa il PNACC del 2018 era “ormai vecchio di 50 anni” e riaggiornarlo radicalmente avrebbe richiesto almeno un anno di tempo, per poi dover ricominciare da capo con tutto l’iter di approvazione, anche se il suggerimento è quello di usare un Dpcm per accorciare i tempi e affrontare in modo immediato l’emergenza, sul modello delle misure anti-pandemiche. 

L’attuale Ministro Fratin ha spiegato che “da quando si è insediato il nuovo Governo, con il supporto di ISPRA, abbiamo accelerato le procedure” e associazioni come WWF e Legambiente  accolgono con favore la notizia che il Piano sia tornato all’attenzione dell’esecutivo. Non mancano però le criticità della nuova versione, osservabili mettendo i due piani a confronto. La struttura del Piano in quattro sezioni è stata abbandonata e la lunghezza del testo è dimezzata. Lo snellimento è dovuto soprattutto alla cancellazione di riferimenti scientifici ormai invecchiati che non sempre sono stati sostituiti da nuovi dati altrettanto specifici. Una delle maggiori sfide del riaggiornamento riguardava il database delle azioni di adattamento: il 55% dei progetti contenuti nel PNACC del 2018 era da realizzarsi nel breve termine, ossia entro il 2020. Il nuovo database è però identico al vecchio, include le stesse proposte e le descrive negli stessi termini, con l’unica differenza che nel nuovo PNACC la voce “anno/periodo di implementazione” è stata lasciata in bianco. Non solo il Piano manca di deadline puntuali, ma ha abbandonato anche la semplice distinzione tra breve e lungo termine. 

Un esempio calzante è proprio relativo al tema dissesto idrogeologico, per tornare di nuovo sulla vicenda di Ischia che ha riportato in auge il PNACC: la sistemazione del reticolo idraulico naturale e artificiale costituisce una delle azioni di adattamento che il Piano originario prevedeva nel breve termine (entro il 2020), insieme a una serie di interventi riguardanti la manutenzione delle Foreste classificati come “continuativi”, ossia da intraprendere nel breve termine e portare avanti nei prossimi decenni. Ad oggi quello stesso obiettivo è riproposto senza assegnargli però un periodo temporale di concreta attuazione e senza sottolineare la differenza tra investimenti di carattere istantaneo e flussi di denaro che dovrebbero essere garantiti per lunghi periodi. Sul tema è anche interessante segnalare l’esistenza di un Piano Nazionale contro il Dissesto Idrogeologico approvato nel 2019 - la cui revisione a sua volta rientrava e rientra ancora tra le azioni di adattamento previste dal PNACC - che è stato poco menzionato nei giorni successivi agli eventi di Casamicciola, in cui le dichiarazioni dei politici hanno piuttosto virato sull’adattamento in quanto tema più generale. 

Il cavillo burocratico che ha finora bloccato il Piano può essere risolto, come promesso da Fratin e Meloni, grazie ai nuovi fondi arrivati alla Commissione Via-Vas, è rimasta però l’impossibilità di rivederne i contenuti più radicali in tempi così brevi. Lo stesso Musumeci, Ministro per la Protezione civile e per le Politiche del mare del governo Meloni, aveva chiaramente detto che il Piano del 2018 ad oggi sarebbe stato inutile e che la sua frettolosa approvazione sarebbe servita unicamente a “stare in pace con la coscienza”. 

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L’inazione climatica è incuranza per il futuro

L'inazione climatica dei governi italiani nell’ultimo decennio, a prescindere dal collocamento sullo spettro politico, ha avuto conseguenze concrete e attuali in termini di vite umane perse e di danni economici. I decessi conseguenti ad alluvioni, frane e ondate di calore, così come l’aumento di malattie legate all’inquinamento di aria e falde acquifere, sono prova quotidiana del fallimento nell'adattarsi al nuovo clima. Le perdite economiche si toccano con mano ancora più facilmente: secondo quanto riportato nel PNACC il danno dovuto ai soli alluvioni nel 2050 ammonterà a circa 1,6 miliardi di euro.  

Il continuo rinvio del PNACC è un generale sintomo della non curanza per il futuro. I leader politici ragionano in termini di immediata contingenza e questo si traduce in politiche non lungimiranti e che non rispondono agli scenari di un mondo 3°C più caldo alla fine del secolo. Il modus operandi rimane quindi quello di allocare risorse per tamponare nell’immediato piuttosto che intraprendere azioni strutturali per il domani. Per questo i piani d’azione sui cambiamenti climatici, il cui orizzonte temporale è in realtà quello di un futuro prossimo e imminente, cadono nel dimenticatoio per poi venire occasionalmente riesumati davanti all’emergenza del momento come semplici medaglie al valore del leader di turno.

Immagine in anteprima: Frana a Ischia, novembre 2022 – Foto: Vigili del Fuoco via iconaclima.it

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