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Dal Cile all’Iraq. Un mondo travolto dalle proteste

30 Ottobre 2019 9 min lettura

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Dal Cile all’Iraq. Un mondo travolto dalle proteste

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8 min lettura

La piazza e gli incendi di Santiago del Cile e la catena umana da Tripoli a Tiro che, passando per Beirut, ha unito il Libano e portato alle dimissioni del governo guidato da Saad Hariri, sono due icone delle manifestazioni di protesta che sono scoppiate nel mondo in questo mese di ottobre.

Proteste nate per questioni specifiche – in Cile la scintilla è stata l’aumento delle tariffe della metropolitana, in Libano una tassa sui servizi di videochiamata su WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, in Arabia Saudita per i locali dove si fuma con il narghilé, in India per le cipolle – ma che non si sono esaurite quando le loro cause scatenanti sono rientrate e le richieste dei manifestanti sono state accolte: «È tutto così vago. Perché non l'hanno fatto 30 anni fa?», ha affermato un manifestante in Libano dopo le promesse di riforma di Hariri.

Per quanto esplose a latitudini così lontane e per motivi diversi, tutte le proteste di queste ultime settimane celano un malcontento più ampio nei confronti di una élite politica vista come distante e corrotta, nutrito dalla fatica di dover affrontare forti e profonde disuguaglianze sociali ed economiche.

Quasi in contemporanea a Cile e Libano, ci sono state manifestazioni di protesta in Ecuador, in Catalogna, in Iraq. Si è scesi in piazza in Egitto e prima ancora in Algeria, Sudan e Hong Kong. Andando a ritroso fino a ottobre dello scorso anno quando sono iniziate le proteste dei Gilet Gialli in Francia.

In molti casi, l’aumento dei prezzi per servizi ritenuti chiave è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le prime manifestazioni in Ecuador, all’inizio di ottobre, quando il governo ha annunciato l'approvazione di un pacchetto di misure di austerità – tra le quali la revoca dei sussidi per il carburante, in vigore da 40 anni, che ha portato all’aumento del prezzo di benzina e diesel – come parte di un accordo per un prestito di 4,2 miliardi di dollari raggiunto lo scorso anno dal governo con il Fondo monetario internazionale (FMI), come rilancio per l’economia del paese.

I manifestanti hanno bloccato le autostrade, preso d'assalto il Parlamento e si sono scontrati con le forze dell’ordine chiedendo il ripristino dei sussidi per il carburante e la fine dell'austerità. Dopo quasi 2 settimane di manifestazioni, il governo ha fatto marcia indietro e ha raggiunto un accordo con i leader indigeni.

Il rincaro del costo dei biglietti della metropolitana è stata la causa scatenante delle violenti proteste in Cile. L'aumento della tariffa ha inizialmente portato gli studenti a irrompere nelle stazioni della metropolitana e saltare sui tornelli o passare sotto senza pagare. Il loro slogan era: "Evadi, non pagare, un'altra forma di lotta". Secondo il Guardian centinaia di persone sono state uccise durante i disordini (per il governo sono morte 20 persone nelle proteste, riferisce Associated Press) che hanno portato a oltre 1900 arresti. Le Nazioni Unite hanno inviato un team per fare le luce sulle violenze da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti, compresi abusi sulle donne. 

Le proteste non si sono fermate neanche quando il presidente Sebastián Piñera ha promesso di tornare sui propri passi e dichiarato l’intenzione di aumentare la pensione di base universale del 20%, congelare le tariffe sull’elettricità e proporre una legge in base alla quale lo Stato coprirà i costi delle cure mediche. Le manifestazioni sono proseguite a oltranza: venerdì scorso un milione di persone è sceso in piazza a Santiago del Cile per chiedere nuove riforme per ridurre le disuguaglianze economiche e sociali nel paese e le dimissioni del Presidente Piñera che, per annunciando un ampio rimpasto di governo, è rimasto ancora al suo posto.

In Libano si sono scatenate le proteste più partecipate degli ultimi 14 anni. L’annuncio di una nuova tassa sulle videochiamate via WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, un tentativo per raccogliere nuovi fondi e fronteggiare una grave crisi fiscale, ha spinto tante persone a manifestare nelle strade di Beirut e Tripoli mettendo in crisi il governo di unità nazionale del primo ministro Saad Hariri.

Nonostante dopo le prime manifestazioni Hariri si fosse detto disponibile ad approvare una serie di riforme economiche, tra cui la riduzione della retribuzione dei politici, investimenti in centrali elettriche e nuove misure per ridurre il debito pubblico, le proteste non si sono fermate. Fino alla catena umana di 170 km, dal nord al sud del paese, di domenica scorsa che ha portato all’annuncio delle dimissioni da parte dell’intero governo.

Anche in Arabia Saudita, dove la minaccia della repressione governativa rende praticamente impensabili proteste pubbliche, c’è stata una protesta sui social media con l’hashtag “tassa sul narghilé” contro un’imposta del 100% per i locali dove è possibile fumare con il narghilé.

In diverse città dell'Iraq decine di migliaia di manifestanti, compresi anche studenti di scuole e università, sono scesi di nuovo in piazza contro la corruzione, la disoccupazione e le difficoltà economiche nel paese. Dal 25 ottobre, decine di persone sono morte nel tentativo delle forze dell'ordine di reprimere le proteste e centinaia sono rimaste ferite. Uno dei manifestanti ha dichiarato: «Tutto ciò che vogliamo sono quattro cose: lavoro, acqua, elettricità e sicurezza». Le condizioni di vita di molti iracheni infatti sono fortemente precarie: povertà, accesso limitato all'acqua potabile, all'elettricità e all'assistenza sanitaria di base.

Le cause delle proteste: austerità e disuguaglianze economiche e sociali

I disordini scoppiati in questi mesi non sono passati inosservati alle Nazioni Unite. Durante una riunione del Fondo Monetario Internazionale (FMI), il segretario generale dell’ONU António Guterres ha sollevato le questioni veicolate dalle manifestazioni in quasi tutto il mondo: «Stiamo assistendo a proteste in luoghi diversi, ma ci sono alcuni punti in comune», ha affermato il portavoce di Guterres, Stéphane Dujarric. «Le persone sentono il peso di una forte pressione fiscale, percepiscono una condizione di forte disuguaglianza economica, protestano per molte altre questioni strutturali».

Tutte le proteste si stanno verificando in uno scenario comune e preoccupante di crollo della crescita economica, commenta Fareed Zakaria sul Washington Post. Nell'ultimo anno, il Fondo Monetario Internazionale ha drasticamente ridotto le sue stime per il 2019, avvertendo che "l'economia globale è in un rallentamento sincronizzato" e sta crescendo al "suo ritmo più lento dalla crisi finanziaria globale".

Quello che è successo in Cile, percepito come il paese più stabile e prospero dell’America Latina, può succedere ovunque, ha commentato su Bloomberg, John Auters. “Molti presumevano che proteste come questa si sarebbero verificate in seguito alla Grande Recessione, invece stanno accadendo un decennio più tardi e in un momento di lenta ripresa ma al tempo stesso in cui stanno aumentando le disuguaglianze sociali”, scrive il senior editor di Bloomberg, esperto di mercati e finanza, che ha aggiunto: “Il fatto che i cileni si siano ribellati al costo della vita suggerisce che una situazione simile potrebbe accadere più facilmente nel resto dei paesi in via di sviluppo. Le immagini televisive delle proteste in Libano e altrove amplificano solo il messaggio che arriva dal Cile” e che in precedenza è arrivato dalle proteste dei Gilet Gialli in Francia, dalle manifestazioni per l’aumento del 20% dei prezzi del carburante in Messico, nel 2017, dallo sciopero dei camionisti per l’aumento del prezzo del diesel e la carenza del carburante l’anno scorso in Brasile.

La globalizzazione e il progresso tecnologico hanno, in generale, aggravato le disparità all'interno dei paesi, spiega a Reuters Sergei Guriev, ex capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, aggiungendo che non tutte le proteste attuali, però, sono state guidate da motivazioni economiche.

Si è protestato per disuguaglianze sociali ed economiche (Cile, Ecuador, Libano), contro la corruzione delle proprie élite politiche (Libano, Iraq, Egitto), per rivendicare la propria autonomia e indipendenza politica (Hong Kong, Catalogna), per il cambiamento climatico.

Proteste nel mondo in crescita costante da 10 anni, ma la questione è: cosa fare dopo?

Anche se la diffusione delle proteste sembra essere aumentata di colpo in tempi recenti, questo fenomeno in realtà non nasce oggi ed è l’esito di una tendenza in atto da un decennio.

"I dati mostrano che il numero delle proteste nel mondo è in crescita. Siamo ai livelli degli anni '60, e la crescita è costante almeno dal 2009", spiega al Guardian Jacquelien van Stekelenburg, docente esperta di cambiamenti e conflitti sociali all'Università Vrije di Amsterdam. In altre parole, prosegue la ricercatrice, è come se le società di tutto il mondo abbiano capito che per ottenere cambiamenti politici radicali bisogna scendere in piazza.

Negli ultimi anni c’è stato in effetti un picco dovuto alla convergenza di più fattori, commentano Declan Walsh e Max Fisher sul New York Times: il rallentamento dell'economia globale, l’aumento del divario tra ricchi e poveri, le istanze delle giovani generazioni che in diversi paesi hanno portato loro a manifestare per le cause climatiche, per poter partecipare attivamente alla vita democratica dei propri paesi, per soddisfare ambizioni che vedono frustrate nei contesti di provenienza. La strada sembra l'unico modo per forzare il cambiamento.

Tuttavia, secondo uno studio condotto da Erica Chenoweth, politologa dell'Università di Harvard, man mano che i movimenti di protesta crescono, i loro tassi di riuscita precipitano. Solo 20 anni fa, il 70% delle proteste che chiedevano un cambiamento politico di sistema aveva successo. Questa tendenza si è invertita a partire dagli anni 2000 fino all’attuale 30%. 

Il diffondersi delle proteste non è garanzia che le cose cambieranno, commenta sul Guardian Youssef Cherif, analista politico e uno degli autori della nuova ricerca del Carnegie Endowment sul successo dei movimenti di protesta: "Scendere in piazza è la parte meno difficile. Il problema è cosa fare dopo, come trasformare in politiche e raggiungere gli obiettivi per cui stai protestando". Andare oltre gli slogan e cambiare il sistema è il lavoro più duro, prosegue Cherif: “Puoi rompere parte di un sistema, ma è molto difficile rompere l'intera struttura, che è formata da istituzioni e reti che sono difficili da spezzare".

A questo poi si aggiunge la natura fluida dei movimenti di protesta, spesso senza leader, che se da un lato rende più difficile la repressione da parte di governi autoritari, dall’altro complica perseguire le istanze politiche rivendicate. La natura priva di leader di molte proteste rende i movimenti più fragili. "I movimenti che hanno portato a cambiamenti radicali hanno avuto una base, una struttura, una leadership, un’organizzazione interna, una ramificazione anche porta a porta per convincere la gente a presentarsi a una manifestazione", afferma Sanjoy Chakravorty, professore di studi globali alla Temple University. "Come possiamo effettivamente trovare la leadership in queste manifestazioni rabbiose?".

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Se rispetto ai decenni precedenti le proteste si diffondono più velocemente e in modo quasi improvviso, sono anche più fragili, spiega ancora la professoressa Chenoweth al New York Times. La mobilitazione capillare, una caratteristica dei movimenti di base di una volta, era lenta ma duratura. Le proteste che oggi si organizzano tramite i social media, invece, possono diventare imponenti in poco tempo, ma collassare altrettanto rapidamente.

Inoltre, aggiunge Chenoweth, i governi autoritari hanno anche imparato a usare i social per diffondere propaganda, radunare i propri sostenitori o semplicemente fare disinformazione, come nel caso di Hong Kong. E così, anche dove le proteste sono forti, ci vuole molto di più per farle diventare un movimento di opposizione. 

Immagine in anteprima via Guardian

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