Fuori da qui Post

Egitto, le proteste di settembre e la reazione feroce del regime di al-Sisi

16 Ottobre 2019 8 min lettura

author:

Egitto, le proteste di settembre e la reazione feroce del regime di al-Sisi

Iscriviti alla nostra Newsletter

7 min lettura

di Laura Cappon

Lo hanno bendato, torturato e picchiato nel carcere di Tora al Cairo, il penitenziario egiziano diventato emblema della repressione draconiana da parte del regime militare. Alaa Abdel Fattah, storico attivista della rivoluzione del 2011, ha subito l'ennesimo sopruso che lui stesso ha raccontato davanti al procuratore generale.

Il 10 ottobre la sua libertà vigilata è stata interrotta da un arresto nella cella dove da 6 mesi passava la notte imposta dalla misura di semilibertà a cui era sottoposto dopo 5 anni di carcere. Con Alaa, durante l'interrogatorio, è stato fermato anche il suo avvocato.

La vicenda di Alaa, per cui si sono mobilitati i social network e gli attivisti di tutto il mondo, è solo uno dei tanti abusi recenti che mostrano come la paranoia del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi e della sua giunta militare sia aumentata in modo esponenziale a partire dal 20 settembre scorso, quando per la prima volta dopo 6 anni sono scoppiate proteste spontanee in tutte le maggiori città.

Era difficile, anche per gli osservatori più pessimisti, ipotizzare un ulteriore giro di vite da parte di un governo che detiene già il record di 60.000 prigionieri politici e una sparizione forzata in media ogni tre giorni, eppure è successo. Come una scheggia impazzita, nell'ultimo mese il Cairo ha aumentato la stretta sui dissidenti o presunti tali: avvocati, scrittori, attivisti della prima ora sono scomparsi o finiti dietro le sbarre. Tra di loro ci sono l'avvocatessa per i diritti umani Mahinour el-Masry, Esraa el-Taweel, una delle esponenti di spicco del movimento 6 Aprile, e Khaled Dawoud, ex leader del partito di opposizione el-Dostour.

I tentacoli del regime hanno raggiunto anche i cittadini stranieri, travolti da una sindrome da controllo che ha portato la polizia a fermare sommariamente le persone per la strada e a perquisire i loro telefoni: ormai basta aver condiviso uno slogan sui social o aver visualizzato un video di protesta su YouTube per essere considerati soggetti pericolosi. L'ultimo arresto di cui si abbia notizia è quello di due studenti dell'Università di Edimburgo.

Una sorte simile a quella toccata inizialmente a Giulio Regeni, il ricercatore italiano scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato morto, con evidenti segni di tortura sul corpo, il 3 febbraio successivo in un fosso non distante dalla sede della Amn el-Dawla (l’agenzia di sicurezza nazionale che fa capo al Ministero dell’Interno, della quale un funzionario avrebbe ammesso successivamente il ruolo attivo nel pedinamento di Giulio: uno dei tanti buchi neri nella storia di questa indagine). Mentre l'ateneo scozzese decideva di rimpatriare tutti i suoi nove iscritti che stavano trascorrendo un periodo nel Paese per studiare l'arabo, un'altra ha toccato da vicino l'Italia: nella notte tra giovedì 10 e venerdì 11 ottobre la giornalista italiana Francesca Borri è stata fermata all'aeroporto della capitale e rimpatriata dopo l'intervento della nostra ambasciata. Di questo episodio non sono ancora chiare le cause visto che Borri da diversi anni non tornava in Egitto. Intanto lunedì scorso è stato scarcerato dopo due anni, senza aver mai subito un processo, uno dei legali di Regeni, Ibrahim Metwaly Hegazy, avvocato e fondatore della Commissione egiziana per i diritti e la libertà. Era stato fermato nel settembre 2017 mentre stava andando a Ginevra per parlare all'Onu del ricercatore italiano.

Intanto, gli arresti sono arrivati a quota 2.900. Il regime ha ristretto ancora una volta qualsiasi spazio di libertà e da due settimane le proteste sembrano essersi placate. Ma il 20 settembre resta un punto di rottura che preoccupa le stanze del potere del Cairo.

Il giorno della protesta

Il 20 settembre in Egitto sembrava essere un venerdì come tutti gli altri. Con meno gente per le strade, con i locali che dalla salita al potere del presidente Sisi nel 2013, non restano aperti sino a tarda notte come una volta perché la gente ha paura. Ha paura di finire in carcere o, peggio, di scomparire nel nulla, inghiottita dall'apparato di sicurezza del paese che per sopravvivere ha imposto una repressione mai conosciuta nella storia moderna egiziana. E invece quel 20 settembre qualcosa si è mosso.

Piccoli gruppi di persone in numerose città, anche nel centro del Cairo, vicino a piazza Tahrir, la storica piazza della rivoluzione, sono scese in piazza e hanno urlato: Sisi vattene. O meglio, come recitava l'hashtag circolato in rete i giorni prima della protesta, #kifayaSisi: basta Sisi, ne abbiamo abbastanza.

La reazione del governo è stata feroce: nel corso della prima settimana gli arresti sono stati più di 2.000. E il venerdì successivo, temendo una replica, le forze dell'ordine hanno blindato piazza Tahrir chiudendo le strade d'accesso e le fermate della metro limitrofe. Alcune manifestazioni si sono comunque tenute nell'isola di Warraq e in altre città anche del sud del Paese come Qena, Soahg e Luxor, tradizionalmente meno attive a livello politico.

Dall'altra parte il regime ha organizzato una manifestazione pro-Sisi nel quartiere centrale di Nasser City, al Cairo. Diversi giornalisti sul campo hanno raccontato di autobus organizzati che fornivano cibo ai manifestanti: uno scenario molto simile a quello delle elezioni presidenziali del 2018 dove, con il ballottaggio ristretto a Sisi e a un suo alleato sceso all'ultimo momento in campo, il governo incentivò con autobus e razioni di cibo l'affluenza alle urne.

Le proteste, numericamente limitate vista anche la situazione di pericolo dei partecipanti, e la contropropaganda governativa che ne è seguita, raccontano comunque molto della situazione politica e sociale dell'Egitto di oggi, che ha esasperato buona parte della cittadinanza. Per capire come mai tutto sia ricominciato proprio adesso, visto che le difficoltà e la repressione vanno avanti da anni, dobbiamo fare un passo indietro.

La scintilla

Il 2 settembre di quest'anno Mohammed Ali, un imprenditore edile che per 15 anni ha lavorato in appalto per le ditte di proprietà dell'esercito egiziano, ha pubblicato una serie di video dalla Spagna, paese in cui Ali ha deciso di autoesiliarsi.

In quei video, Alì denunciava con dovizia di particolari la corruzione dilagante tra i militari, il loro controllo asfissiante su buona parte del sistema economico, e accusava persino alcune aziende di aver costruito ville destinate al presidente Sisi per uso non istituzionale, bensì personale. Infine chiedeva al ministro della Difesa, il potentissimo Mohammed Zaki, di arrestare Sisi e unirsi alla protesta. Nell'ultimo post pubblicato prima di quel fatidico 20 settembre, Ali invitava gli egiziani a scendere in piazza.

In Egitto i video di Ali sono diventati virali nel giro di poche ore, e l'hashatg #KifayaSisi è diventato subito trending topic su Twitter. Ma come è possibile che un uomo che non appartiene agli attivisti laici e nemmeno ai Fratelli Musulmani sia in grado di spingere gli egiziani a sfidare la violenza del regime?

L'economia

Il fatto è che Ali ha toccato un nervo scoperto, quello che è insieme uno degli aspetti più soffocanti del regime, la maggiore fonte di corruzione e la principale causa della crisi economica che attanaglia il Paese sin dalla caduta di Mubarak nel 2011. I militari controllano un'enorme fetta dell'economia egiziana – diverse stime quantificano che tra il 20% e il 50% delle attività sia riconducibile ai militari – e la loro presa non permette uno sviluppo sano né della concorrenza né del mercato privato.

Ma soprattutto negli ultimi anni, nonostante gli annunci di grandi opere come il raddoppio del canale di Suez e la costruzione della nuova capitale amministrativa, gli egiziani hanno dovuto fare i conti con le misure di austerità che il governo deve rispettare come condizione per il prestito di 12 miliardi di dollari erogato dal Fondo Monetario Internazionale nel 2016, e che dovrà essere rimborsato a partire dalla fine del 2021.

La prima conseguenza tangibile è che i sussidi governativi su gas, benzina e generi di prima necessità – una reminiscenza del socialismo nasseriano – sono stati ridotti o eliminati, rendendo più cari moltissimi prodotti. Inoltre la sterlina egiziana si è svalutata in maniera drammatica (il suo cambio con euro e dollaro vale praticamente la metà di un tempo). Se a questo aggiungiamo il rallentamento del turismo, altra fonte di entrata vitale per i conti nazionali, otteniamo una situazione esplosiva in grado di colpire non solo la condizione dei più indigenti – in Egitto una persona su tre vive con meno di un dollaro al giorno – ma anche la fascia media: dal 2014 al 2017, secondo le stime concordanti dell'Fmi e di diverse organizzazioni non governative, più di 9 milioni di persone sono scivolate sotto la soglia di povertà.

In Egitto c'è un'espressione molto popolare, Hizb al-kanaba, che può essere tradotta come «il partito del divano». Indica una categoria di cittadini, spesso appartenti alla classe medio-alta, che scende in piazza solo quando i suoi interessi vengono minacciati. L'ultima apparizione dell'hizb al-kanaba si era registrata nei cortei del 2013 contro Mohammed Morsi, il presidente islamista eletto nelle uniche presidenziali libere del dopo rivoluzione. Ora, però, l'hizb al-kanaba ha fatto di nuovo capolino nelle proteste del 20 e 27 settembre, assieme a molti ragazzi che, osservano gli analisti, fanno il loro debutto nell'attività politica e sociale essendo troppo giovani per aver partecipato alla primavera araba del 2011.

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Il futuro

La composizione delle proteste indica una chiara mancanza di coordinamento che non può arrivare dagli oppositori islamisti o dagli attivisti laici. La maggior parte di loro, infatti, è in carcere o in esilio. A mancare è anche il sostegno dei lavoratori nelle fabbriche in cui scioperi erano stati le basi da cui era partita la rivoluzione del 2011.

Intanto, il governo egiziano ha cercato di placare la rabbia popolare vista per le strade. Il 3 ottobre il governo ha annunciato una riduzione di 25 piastre (un quarto di sterlina egiziana), del gasolio mentre il conduttore del talk show Ahmed Moussa ha annunciato sul canale filo-governativo Sada El Balad la nascita di un comitato governativo che ogni 3 mesi determinerà i prezzi del carburante.

Foto via Ansa

Segnala un errore