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Per Svezia e Finlandia la NATO è la sola garanzia contro l’imperialismo russo. Ma cosa dice davvero il Memorandum dei due paesi con la Turchia

11 Luglio 2022 21 min lettura

Per Svezia e Finlandia la NATO è la sola garanzia contro l’imperialismo russo. Ma cosa dice davvero il Memorandum dei due paesi con la Turchia

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21 min lettura

In Svezia e Finlandia la preoccupazione nei confronti della Russia continua a essere palpabile. Su una testata profondamente di sinistra come il quotidiano Dagens ETC si può leggere, per esempio, l’intervento di Jonas Sjöstedt, ex presidente del partito socialista Vänsterpartiet, che chiede alla sinistra di prendere posizione contro l’imperialismo russo; urge un sostegno forte e duraturo all’Ucraina. In effetti se si parla con elettori anche di estrema sinistra, in Scania come a Stoccolma, la paura è reale. “Per voi italiani la Russia è lontana, e il Mediterraneo non è un lago russo – si sfoga Karl, barista –. Per noi svedesi, e ancora di più per i finlandesi, la Russia è molto vicina”.

Karl si definisce “socialista e pacifista”, ma è felice che il suo paese stia entrando nella NATO. A suo parere la Russia di Putin è assai peggio dell’URSS. Jonas Sjöstedt non si spinge sino a benedire l’entrata della Svezia nella NATO (anzi), però sembra che la netta maggioranza degli svedesi approvi. A maggio, per esempio, il 58% degli svedesi era favorevole all’adesione: un dato significativo per un paese storicamente non-allineato come la Svezia, che nel Novecento ha saputo tenere a bada (con una miscela di diplomazia, lungimiranza, concessioni, astuzia e cinico opportunismo) persino la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin.

«La politica di non-allineamento è stata una parte importante delle politiche del nostro partito, e ha servito bene la Svezia per oltre duecento anni. Ma i tempi sono cambiati.  – dice Kenneth G. Forslund, presidente del Comitato sugli affari esteri del Riksdag (il parlamento svedese), e membro dei Socialdemokraterna (socialdemocratici) –. Nella nuova realtà emersa dopo la brutale e illegale invasione russa dell’Ucraina, la Svezia ha bisogno di formali garanzie di sicurezza, che derivano dall’essere membri della NATO. Per la sicurezza della Svezia e del suo popolo, la NATO è l’opzione migliore e più fattibile». 

Erkki Tuomioja, membro dell’Eduskunta (il parlamento della Finlandia) ed ex ministro degli esteri, socialdemocratico, rileva come i sondaggi, per tre decenni dopo il crollo dell’URSS, siano stati piuttosto stabili: il 60% era contrario all’entrata della Finlandia nella NATO, il 25% favorevole, con variazioni di circa il 5% in una direzione o nell’altra. «Le cose sono cambiate quasi nel giro di una notte dopo che la Russia ha lanciato la sua ingiustificata e non-provocata guerra contro l’Ucraina, con una maggioranza del 60%-70% a favore dell’entrata nella NATO e forse al massimo il 20% contro».

Secondo Erkki, «questa è stata una reazione all’attacco russo. Le persone credevano che non ci si potesse più fidare di Putin o della Russia, e che la Russia potesse facilmente lanciare un attacco anche contro la Finlandia. Ancora, è stata una reazione agli ammonimenti russi a noi e alla Svezia a non aderire alla NATO, poiché ciò è stato visto come un inaccettabile tentativo di includerci in una sfera d’influenza russa, dove non avremmo potuto esercitare il nostro sovrano diritto di scegliere gli accordi di sicurezza da noi ritenuti migliori per il paese».  Certo, anni di campagne pro-NATO dei media hanno giocato indubbiamente un ruolo. E, nota Erkki, «c’è stato pure un elemento di calcolato fearmongering (manipolazione attraverso la paura)». 

Tuttavia alla fine, 188 parlamentari su 200 hanno votato a favore dell’adesione alla NATO. In effetti il 63% dei finlandesi che hanno risposto a un recentissimo sondaggio dice di ritenere “molto buone” o “abbastanza buone” le politiche del governo negli ambiti degli esteri, della sicurezza e della difesa. E l’entusiasmo per la NATO è tale che nella cittadina di Savonlinna, non lontano dal confine con la Russia, c’è una birreria che produce una birra a tema NATO.

Sia chiaro: l’imperialismo russo non preoccupa solo svedesi e finlandesi. I lettoni per esempio sono talmente intimoriti da aver appena deciso di reintrodurre il servizio militare (maschile) obbligatorio, andando a irrobustire le circa settemila unità che al momento compongono le forze armate della Lettonia. Per capire la portata della decisione, si immagini cosa accadrebbe in Italia se Roma decidesse di ripristinare la leva. Ma a Helsinki e a Stoccolma il timore di un “colpo di testa” di Mosca ha portato all’impensabile. 

«Se la Russia non avesse invaso l’Ucraina, se non si fosse posta di fronte all’Europa come un attore geopolitico imprevedibile, di sicuro né la Finlandia né la Svezia avrebbero bussato alle porte della NATO – osserva un diplomatico dell’Europa meridionale in servizio nella regione –. Ricordiamo che la Finlandia ha cinque milioni e mezzo di abitanti, la Svezia poco più di dieci. È chiaro che due paesi così floridi, ma anche sottopopolati, temono la Russia, che negli ultimi anni ha invaso due paesi confinanti con essa [l’Ucraina e la Georgia], trasformato un altro paese confinante, la Bielorussia, in una specie di Stato satellite, e minacciato più volte i piccoli paesi baltici, che oggi per la loro difesa hanno bisogno del contributo degli alleati».

Ivo H. Daalder, presidente dell’autorevole Chicago Council on Global Affairs, spiega: «Sia alla Georgia che all’Ucraina era stata promessa l’entrata nella NATO nel 2008, ma la NATO fece ben poco per trasformare questo in realtà, persino dopo che la Russia invase entrambi i paesi rispettivamente nel 2008 e nel 2014. Infatti, prima dell’ultima invasione, la NATO ha esplicitamente detto che non sarebbe intervenuta in difesa dell’Ucraina e avrebbe difeso solo il territorio NATO. Il punto è chiaro: l’appartenenza alla NATO è la sola misura che assicura la sicurezza di un paese in un’Europa ora apertamente minacciata dalla forza militare russa. Svezia e Finlandia lo hanno pienamente capito».

La sensazione è che Mosca abbia giocato molto male le sue carte. Una fonte a Oslo vicina ad ambienti militari dice che la Russia ha tirato troppo la corda: «Se Mosca ha invaso l’Ucraina, che è un paese vasto e con un grande esercito, perché non potrebbe occupare anche Gotland, [isola strategica nel Baltico] ad esempio? L’aggressività russa terrorizza ogni paese che si affaccia sul Baltico, tranne la Germania, che ha un altro tipo di relazioni con la Russia».

In effetti proprio i norvegesi, di recente, hanno ipotizzato di creare un “centro operativo aereo nordico”, qualora il percorso di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia dovesse andare a buon fine. Sia Helsinki che Stoccolma vantano forze aeree di rilievo, che potrebbero più che raddoppiare il numero di caccia di quarta e quinta generazione al momento in dotazione ai due paesi nordici già membri della NATO, come ha ricordato il sito Breaking Defense. E la Finlandia, in caso di crisi, può mobilitare ben 280mila riservisti, addestrati alla guerra in aree climaticamente e geograficamente sfidanti. In altre parole, le forze svedesi e finlandesi sono una gradita aggiunta agli occhi di molti membri della NATO.

«È probabile che la Svezia, analogamente alla Danimarca e alla Norvegia, contribuiranno al pattugliamento NATO dei cieli dei paesi baltici e alle truppe stazionate a rotazione laggiù – spiega Jacob Westberg, professore associato di studi di guerra presso la Försvarshögskolan, l’Università svedese della Difesa a Stoccolma –. Le forze armate svedesi contribuiranno pure con l’intelligence nonché con sorveglianza aerea e marittima avanzata. Ancora, i sottomarini relativamente moderni, le navi e i caccia della Svezia forniranno un contributo aggiuntivo sostanziale alle piattaforme militari dei paesi NATO nella regione. Inoltre, in molti si aspettano una cooperazione più stretta tra le forze terrestri e aeree della Finlandia, della Norvegia e della Svezia nell’estremo nord».

Come rileva Daalder, l’adesione di Svezia e Finlandia «rafforzerà significativamente l’abilità della NATO di difendere gli Stati baltici, sino a oggi i membri della NATO più esposti a una aggressione militare russa. Entrambi i paesi nordici schierano forze militari altamente capaci e interoperabili, e la loro posizione geografica significa che gli Stati baltici e il Mar Baltico sono in gran parte attorniati da paesi NATO». Inoltre, continua Daalder (tra i massimi esperti di sicurezza europea), la NATO «ora confinerà con il territorio russo dal Mare di Barents al Mar Nero, allungando le difese russe su un fronte di oltre 2.500 chilometri. Dover difendere una frontiera così lunga renderà molto più difficile alla Russia concentrare le forze per un attacco, rendendo una guerra meno probabile».

Uno scoglio chiamato Turchia

Entrare nella NATO però non è cosa semplice. L’accesso è su invito, e i trenta Stati membri decidono all’unanimità. La Macedonia del nord è stata invitata a unirsi all’Alleanza nel 2018, ma solo dopo l’avallo spagnolo è potuta entrare, nel 2020. Sinora [aggiornato all’8 luglio] hanno ratificato i Protocolli di Accesso alla NATO di Svezia e Finlandia nove paesi: Canada, Danimarca, Norvegia, Estonia, Polonia (per la Svezia con 442 za e 0 przeciw, su 442 deputati), Germania, Albania, Regno Unito, Islanda. Tra quelli che devono ancora ratificare ci sono (oltre all’Italia) anche l’Ungheria filo-Putin e la Turchia. E proprio la Turchia, media potenza sempre più autoritaria ma strategica (grazie alla sua posizione geografica, alle sue forze armate cospicue e al suo attivismo geopolitico), è riuscita nelle ultime settimane a far sudare sette camicie ai diplomatici svedesi e finlandesi.

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A maggio Ankara si schierava contro l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza militare più forte del mondo; il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, accusava senza mezzi termini i due paesi nordici di essere delle «pensioni per organizzazioni terroristiche». Pur non facendo nomi e cognomi, nel modo sussiegoso che talvolta gli è proprio, arrivava a stigmatizzare la presenza, tra gli scranni del Riksdag, di Amineh Kakabaveh, battagliera politica socialista di origini curdo-iraniane, che il quotidiano francese Le Monde ha definito “la voce del Kurdistan in Svezia”. 

Erdoğan non mollava la presa. «Il sostegno politico, finanziario e di armi della Svezia alle organizzazioni terroristiche deve cessare» si leggeva in una dichiarazione della presidenza turca successiva a una conversazione telefonica di maggio tra Erdoğan e la socialdemocratica Magdalena Andersson, statsminister della Svezia. 

«Il PKK ha collegamenti con membri del Riksdag. Essi lavorano contro la Turchia tutto il tempo, nel Riksdag. Stanno facendo pressioni sul governo svedese per adottare un’attitudine negativa contro la Turchia» arrivava a dichiarare, sempre a maggio, in un’intervista, Hakki Emre Yunt, ambasciatore di Ankara a Stoccolma, chiedendo alla Svezia di recidere i «legami» con il PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan). 

Nel corso dell’intervista, scandalosa per non pochi svedesi, Yunt faceva esplicitamente il nome di Kakabaveh (nonostante le dichiarazioni della parlamentare di non aver mai fatto parte del PKK). In una successiva intervista però il diplomatico rettificava, dichiarando che la Turchia non aveva mai chiesto l’estradizione della parlamentare di origine curda.

Sta di fatto che Ankara vuole che la Svezia (e la Finlandia) estradino una settantina di persone, uomini e donne accusati di essere terroristi, membri del PKK o di altre forze ostili allo Stato turco, quali il Movimento gülenista. Com’è noto Ankara considera il PKK un’organizzazione terroristica (al pari degli USA e dell'UE), responsabile della morte di 40mila persone. Anche Stoccolma considera da tempo il PKK un’organizzazione terroristica, ma per Ankara questo non è sufficiente. La Svezia, affermano le autorità turche, sarebbe una base operativa del PKK per il reclutamento e la raccolta dei fondi.

In Svezia si stima che vivano circa 100mila persone curde o di origine curda, e altre 10-15mila risiedono in Finlandia. In molti casi si tratta di cittadini ben integrati (benché gli ostacoli non manchino: da episodi di discriminazione alle difficoltà economiche), e la strepitosa carriera di Amineh Kakabaveh è emblematica: ex peshmerga del Komala in Iran, quindi giovane rifugiata in Svezia, da collaboratrice domestica è riuscita, grazie agli studi serali e a una testarda forza di volontà, a laurearsi; si è distinta come paladina dei diritti delle donne e dei migranti, ed è diventata, con le elezioni del 2018, una dei sei parlamentari svedesi di origine curda. 

Secondo la Turchia la “lobby” curda esercita una forte influenza sul governo svedese. In realtà la Svezia è tra i (pochi) paesi occidentali dove gli elettori di origine curda riescono a far sentire il loro peso. La difficilissima situazione dei curdi in Medio Oriente è oggetto di un’attenzione maggiore che in altre parti d’Europa in Svezia, e il paese nordico da anni accoglie alcuni dei maggiori intellettuali curdi (ad esempio a Stoccolma trascorse gli ultimi anni della sua vita Cigerxwîn, gigante della letteratura curda). Sino al settembre del 2019 la ministra degli Esteri svedese era la socialdemocratica Margot Malström, che oltre a essere l’artefice di un’innovativa politica estera “femminista” e fortemente critica nei confronti di Arabia Saudita, Israele o Turchia, aveva spesso dimostrato un atteggiamento simpatetico nei confronti dei curdi e della loro lotta.

All’inizio anche il governo socialdemocratico di minoranza guidato dalla Andersson aveva promesso attenzione alla questione curda. Del resto è soltanto grazie al voto di Kakabaveh (parlamentare indipendente dal 2019) che Andersson è potuta divenire statsminister della Svezia, nel novembre del 2021. Da parte loro i socialdemocratici, quello stesso mese, avevano dichiarato ufficialmente, attraverso il loro segretario Tobias Baudin, di voler «approfondire la cooperazione con il PYD», e che Kakabaveh avrebbe partecipato con i socialdemocratici al «gruppo che lavorerà su questo»: un accordo insolito tra il più forte partito del regno e la parlamentare, molto apprezzato dai curdi e dai curdo-svedesi.

Il PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, Partito dell’Unione Democratica) è una forza politica curda attiva in Siria, per la precisione nel Kurdistan occidentale, o Rojava; la regione è nota agli italiani grazie anche a Zerocalcare che ha raccontato la lotta delle popolazioni locali contro il Daesh, assai più noto come ISIS. Ankara considera il PYD, al pari della milizia YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Protezione Popolare), e della brigata femminile YPJ (Yekîneyên Parastina Jin, Unità di Protezione delle Donne), organizzazioni terroristiche sotto il controllo del PKK, e una minaccia alla sicurezza nazionale; per Erdoğan, addirittura, non esisterebbero differenze tra PKK, YPG, PYD e Daesh. 

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Diversa l’opinione dei socialdemocratici: “È inaccettabile che i combattenti per la libertà che hanno combattuto o simpatizzato con lo YPG/YPJ o il PYD siano classificati da alcuni attori statali come terroristi”, dichiarava Baudin, facendo infuriare non pochi ad Ankara. 

Ma se nel novembre del 2021 la Turchia non aveva troppi strumenti di pressione nei confronti di Stoccolma, le cose sono cambiate dopo l’invasione russa dell’Ucraina, e la decisione della Svezia (e della Finlandia) di salvaguardarsi dall’imperialismo russo entrando nella NATO. Alla fine, dopo estenuanti trattative, il 28 giugno, la Svezia, la Finlandia e la Turchia hanno firmato a Madrid, sotto gli auspici del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, il cosiddetto Memorandum Trilaterale. In questo modo la Turchia ha acconsentito a «supportare al vertice di Madrid l’invito alla Finlandia e alla Svezia di diventare membri della NATO».

Cosa prevede il Memorandum Trilaterale?

Il documento ha dieci punti. Al quarto si può leggere: «La Finlandia e la Svezia estenderanno il loro pieno sostegno alla Turchia contro le minacce alla sua sicurezza nazionale. A tal fine, la Finlandia e la Svezia non forniranno sostegno allo YPG/PYD, e all’organizzazione descritta come FETÖ [il Movimento gülenista] in Turchia». 

La prima parte del quinto punto recita invece: «La Finlandia e la Svezia confermano che il PKK è un’organizzazione terroristica proibita. La Finlandia e la Svezia si impegnano a impedire le attività del PKK e di tutte le altre organizzazioni terroristiche e le loro derivazioni, così come le attività di individui in gruppi affiliati e ispirati o reti collegate a queste organizzazioni terroristiche. La Turchia, la Finlandia e la Svezia hanno concordato di incrementare la cooperazione per prevenire le attività di questi gruppi terroristici».

Il settimo punto, fondamentale: «La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non sono in essere embarghi nazionali di armi tra di esse. La Svezia sta cambiando il suo quadro regolatorio nazionale per le esportazioni di armi in relazione agli alleati della NATO. In futuro le esportazioni nel campo della difesa da parte della Finlandia e della Svezia saranno condotte in linea con lo spirito di solidarietà dell’Alleanza, e in accordo con la lettera e lo spirito dell’articolo 3 del Trattato di Washington». 

Tra le azioni concrete che la Turchia, la Finlandia e la Svezia si impegnano a prendere vi è, ad esempio, un meccanismo per rafforzare la cooperazione nell’ambito dell’antiterrorismo e del crimine organizzato. Ancora, la Finlandia e la Svezia «si occuperanno delle richieste di espulsione ed estradizione di sospetti terroristi da parte della Turchia in modo rapido e approfondito».

La firma del Memorandum ha fatto il giro del mondo, destando scandalo e stupore. La notizia è stata uno shock per moltissimi curdi e curdo-svedesi. «Io penso sia stata una resa dello Stato svedese di fronte a un paese nemico della libertà quanto la Russia di Putin – dice A., figlio di curdi, e dipendente di un ente pubblico svedese –. È gravissimo, in Svezia noi curdi siamo sempre trattati come dei capri espiatori». Si riferisce al fatto che nel 1986 le autorità svedesi sospettarono che dietro il celeberrimo omicidio dello statsminister Olof Palme ci fosse stato un qualche gruppo curdo: per questo numerosi curdi residenti nel paese furono interrogati, e non mancarono gli arresti e gli abusi. 

L’intesa tra la Svezia, la Finlandia e la Turchia ha fatto infuriare Amineh Kakabaveh che, solo poche settimane prima, in un’intervista a Il Manifesto, aveva definito “inaccettabile” il negoziato con il regime turco, definendolo fascista e “una dittatura”. E proprio a inizio giugno la parlamentare indipendente aveva anche salvato una seconda volta il governo di minoranza di Magdalena Andersson (e i socialdemocratici, da parte loro, avevano confermato la validità di quanto dichiarato a novembre in merito alla cooperazione con il PYD). 

«Questo è un giorno nero nella storia politica svedese – ha dichiarato Kakabaveh dopo la firma del Memorandum –. Stiamo negoziando con un regime che non rispetta la libertà di espressione e i diritti delle minoranze». 

L’opinione dei socialdemocratici è diversa. Come spiega Kenneth G. Forslund, presidente del Comitato sugli affari esteri del Riksdag, «l’accordo è largamente basato su misure che stiamo già prendendo qui in Svezia, come il rafforzamento della nostra normativa anti-terrorismo. Il Memorandum riprende anche degli aspetti propri dell’essere membri della NATO, e il fatto che considereremo ogni paese dell’organizzazione come un nostro alleato. Inoltre lavoreremo più strettamente con la Turchia nella lotta al terrorismo, non in ultimo a organizzazioni terroristiche come il PKK».

Per Kimmo Elo, ricercatore senior in studi europei presso il Centro per gli studi parlamentari dell’Università di Turku, «il Memorandum è il “minimo comune denominatore” delle soluzioni accettabili a tutte le parti. Sia la Finlandia che la Svezia hanno espresso la loro volontà di unirsi velocemente alla NATO, cosa che ha aperto un certo spazio di manovra per la Turchia in merito alle questioni oggetto del Memorandum. Si tratta di un prezzo politico che Finlandia e Svezia sono state pronte a pagare per assicurarsi che il loro processo di accesso non venisse ritardato». 

Sempre dalla Finlandia Erkki Tuomioja, membro dell’Eduskunta ed ex ministro degli Esteri, commenta: «Non mi piace in quanto concessione all’ingiustificato ricatto della Turchia, però capisco anche che era il solo modo per far sì che la NATO invitasse la Finlandia e la Svezia al vertice di Madrid». Molto interessante anche il punto di vista di Martti Koskenniemi, professore emerito di Diritto Internazionale presso l’Università di Helsinki, e tra le menti legali più note d’Europa: il Memorandum, a suo parere, «incarna una formula diplomatica di compromesso che in realtà vincola i due paesi semplicemente ad avere più colloqui. Ritengo impensabile che questo possa condurre a qualche cambiamento legislativo significativo in Finlandia».

Il Memorandum prevede che i due paesi nordici «si occuperanno delle richieste di espulsione e di estradizione di sospetti terroristi da parte della Turchia in modo rapido e approfondito». Ciò preoccupa non solo molti curdi e curdo-svedesi, ma anche numerosi attivisti, giuristi ed elettori di sinistra, perché avere un giusto processo nella Turchia del 2022 è qualcosa di assai improbabile per chi è considerato un nemico dello Stato. 

Per Koskenniemi, «il Memorandum non cambierà il processo delle estradizioni, che ha natura giudiziaria, non politica. Sebbene il Ministero della Giustizia sia coinvolto, ogni persona che si oppone alla propria estradizione è in grado di portare la materia sino alla Corte suprema». Il ministro degli Esteri finlandese Pekka Haavisto ha dichiarato che al momento della firma del Memorandum non è stato concordato alcun cambiamento alle normative finlandesi; Erkki Tuomioja è dello stesso parere del ministro, e osserva: «In Parlamento si verificherebbe una reazione davvero fortemente negativa di fronte a proposte di emendamento di una qualsiasi normativa a causa del Memorandum».

A fine giugno il ministro turco della Giustizia Bekir Bozdağ ha dichiarato a una tv russa che Ankara avrebbe chiesto l’estradizione di ventuno persone in Svezia e dodici in Finlandia. Un giornale turco ha pubblicato una lista con quarantacinque nomi, di cui trentatré dalla Svezia. I numeri variano, ma gli obiettivi di Ankara sono chiari. D’altra parte il ministro svedese della Giustizia (e degli interni) Morgan Johansson, uno degli esponenti più in vista del governo socialdemocratico, ha dichiarato: «In Svezia istituzioni giudiziarie indipendenti applicano il diritto. I cittadini svedesi [oggetto di domanda di estradizione turca] non saranno estradati». 

Da parte sua la statsminister Andersson ha cercato di rassicurare la popolazione: «So che ci sono persone che sono preoccupate che inizieremo a braccarle e deportarle e penso che sia importante dire che noi lavoriamo sempre in conformità alla normativa svedese e alle convenzioni internazionali esistenti». Per la leader socialdemocratica, «se non sei coinvolto nel terrorismo, non hai motivo di preoccuparti».

Tra le persone di cui Ankara chiede l’estradizione agli svedesi, come ha raccontato la BBC,  c’è ad esempio Bulent Kenes: è l’ex direttore del quotidiano in lingua inglese Today’s Zaman (chiuso dalle autorità turche nel 2016), ed è accusato di essere un membro del Movimento gülenista. Un’altra persona che Ankara sembra voler riportare a tutti i costi nelle patrie galere è Aysen Furhoff, da adolescente militante del Partito Comunista Turco, e oggi insegnante; avendo collaborato per un breve periodo con il PKK, è sulla lista nera di Ankara. 

Non sarà facile per i turchi ottenere le estradizioni che chiedono. Il diritto dei due paesi nordici su questo punto è molto garantista, e l’elettorato progressista di Svezia e Finlandia è pronto a dare battaglia. Ankara però ha già fatto chiaramente capire che come il Memorandum non vincola la Finlandia e la Svezia, così non vincola nemmeno la Turchia; nel caso in cui i due paesi nordici non rispettassero gli impegni, il parlamento turco potrebbe bloccare tutto. Inoltre se il centrodestra svedese vincesse le elezioni a settembre, Ankara potrebbe ritrovarsi con un interlocutore con meno remore dei socialdemocratici in fatto di diritti umani.

La tecnologia militare nordica fa gola ai turchi

A differenza della Svezia, la Finlandia non è dovuta passare sotto le forche caudine di Ankara. Abituata da decenni a dialogare con la coriacea diplomazia di Mosca, Helsinki ha cercato di blandire Ankara, per esempio ventilando l’acquisto di tecnologia militare turca, come gli APR (droni) militari Bayraktar TB2, che sembra stiano dando un prezioso contributo alle forze armate ucraine. E in effetti il tema degli armamenti è centrale, nel Memorandum firmato dai tre paesi. 

Il già citato settimo punto dice: «La Turchia, la Finlandia e la Svezia confermano che ora non sono in essere embarghi nazionali di armi tra di esse. La Svezia sta cambiando il suo quadro regolatorio nazionale per le esportazioni di armi in relazione agli alleati della NATO. In futuro le esportazioni nel campo della difesa da parte della Finlandia e della Svezia saranno condotte in linea con lo spirito di solidarietà dell’Alleanza, e in accordo con la lettera e lo spirito dell’articolo 3 del Trattato di Washington». 

Leggi anche >> L’attacco della Turchia ai curdi. Domande e risposte [articolo 2019]

Tutto è iniziato nell’ottobre 2019, quando Ankara ha lanciato una massiccia offensiva nel Kurdistan occidentale, con il supporto di gruppi militari siriani. L’azione, duramente criticata dall’Unione Europea, dal mondo arabo e persino dagli Stati Uniti, e soprattutto da ONG come Amnesty International (che ha anche parlato di crimini di guerra), spingeva la Svezia e la Finlandia a varare un embargo sulla vendita di armi ai turchi. O meglio: nel caso svedese l’Inspektionen för Strategiska Produkter (ente indipendente che monitora l’export di armi e tecnologia dual-use) revocava i permessi alle aziende svedesi che esportavano materiale bellico in Turchia.

Considerando che la Svezia è uno dei principali esportatori di armi dell'UE, e tra i maggiori al mondo (anche se in calo complessivo negli ultimi anni), non si trattava di una scelta del tutto indolore per Stoccolma, e per Ankara fu un duro colpo, non solo a livello simbolico ma sostanziale. Perché se è vero che l’anno prima era entrata in vigore in Svezia una normativa che limitava l’export di armi verso paesi colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani o di essere scarsamente democratici, è anche vero che – come aveva rilevato il quotidiano svedese Svenska Dagbladet – la Svezia nel 2018 aveva esportato in Turchia armi per quasi 300 milioni di corone, contro i 21 milioni di appena cinque anni prima: numeri contenuti, ma indicativi di un trend in forte ascesa.

La Turchia, che durante la Guerra Fredda importava moltissime armi dagli Stati Uniti e altri paesi occidentali, è ormai diventata un agguerrito esportatore di armi; continua però a essere anche un forte acquirente, non in ultimo in virtù del costante aumento delle sue spese militari. Il comparto bellico turco è in evoluzione (il Bayraktar TB2 ne è un esempio), ma ai generali di Ankara la sofisticata tecnologia militare occidentale (e russa) fa ancora gola. L’industria delle armi svedese è tra le più avanzate del mondo, e i suoi sistemi d’arma sono di interesse per la Turchia, così come gli esplosivi, le tecnologie per la guerra elettronica, i software Made in Sweden. Lo stesso può in parte dirsi per la più piccola industria bellica finlandese.

Wayne Stephen Coetzee è senior lecturer in scienza politica nonché direttore del programma internazionale in politica ed economica dell’Università West, a Trollhättan, nella Svezia del sudovest. È autore di uno studio sulla vendita da parte della Svezia di 26 caccia JAS-39 Gripen al Sudafrica, e conosce bene la tematica. «La questione è complicata, include molti fattori complessi. In breve, le cose cambieranno nella normativa svedese sulle esportazioni di armi, quando il paese si unirà alla NATO – spiega lo studioso –. In ogni caso, dipende da cosa si intende per commercio di armi. Vendere armi leggere, componenti, o sistemi meno avanzati è diverso da vendere armi convenzionali altamente avanzate, come carri armati, elicotteri da combattimento, sottomarini, caccia e così via». Nel caso di sistemi d’arma convenzionali di rilievo il governo svedese sarà ancora in grado di decidere come e con chi commerciare.

E proprio il settimo punto del Memorandum è una delle ragioni che hanno indotto Amineh Kakabaveh a portare il ministro degli Esteri Ann Linde (che ha firmato il Memorandum per la Svezia) di fronte al Konstitutionsutskottet (Comitato sulla Costituzione); secondo Kakabaveh il governo avrebbe violato la Costituzione, dato che attraverso il Memorandum avrebbe promesso di esportare armi in Turchia, appropriandosi di prerogative del già citato Inspektionen för Strategiska Produkter. 

Un finale ancora da scrivere

Se l’imperialismo russo ha già cambiato l’Europa, l’entrata nella Nato (probabile, ma non certa) della Svezia e della Finlandia è destinata a cambiare i due paesi. «Salvo poche eccezioni la Svezia, dalla fine delle guerre napoleoniche, ha cercato di proteggere la sua sicurezza rimanendo fuori dai grandi conflitti di potere e dalle alleanze. Essere un membro della NATO significa che quest’era lunga due secoli è finita» rileva Westberg.

Senz’altro, nota Coetzee, Stoccolma avrà un “posto a tavola” e potrà influenzare i processi decisionali della più grande e potente alleanza per la sicurezza del mondo, e questo gioverà al paese in vari modi. Tuttavia, «è ipotizzabile che essere nella NATO crei progressivamente delle spaccature in un paesaggio politico già polarizzato». L’élite politica dovrà rivolgersi a due pubblici diversi: «Il primo rappresenta un elettorato popolare abituato ai legami ideologici della Svezia con la neutralità. Il secondo include gli elementi più “falchi” nell’apparato statale-militare, che vedono il futuro della Svezia come intrinsecamente legato agli alleati europei e nordamericani, e il paese come una potenza regionale che necessita di essere forte militarmente».

Per un popolo che si considera “superpotenza umanitaria”, fiero della sua tradizione di “essere buono”, entrare nella NATO potrebbe generare anche qualche problema di identità. A detta di Coetzee, l’adesione «avrà presumibilmente un impatto sull’immagine internazionale e sul potere simbolico della Svezia in vari modi». Il paese «non sarà più visto, almeno da alcuni, come un mediatore indipendente (o persino un partner degno di fiducia)». 

Per Forslund, presidente del Comitato sugli affari esteri del Riksdag, la Svezia già da tempo lavora a stretto contatto con la NATO, e la sua difesa è già altamente integrata con quella dell’Alleanza. In ogni caso, assicura, «i socialdemocratici e la Svezia continueranno a essere una forte voce per la pace, il disarmo e i diritti umani, anche all’interno della NATO».

Un po’ diverso il caso della Finlandia, paese da oltre un secolo alla frontiera dell’Occidente. Almeno la pensa così Kimmo Elo: «Ritengo che l’adesione alla NATO sarà un cambiamento di minore entità, paragonato all’entrata del paese nell’Unione Europea nel 1995. Sebbene la NATO influenzerà la politica di sicurezza e di difesa della Finlandia, il suo impatto politico sarà più limitato di quello della UE».

La sensazione, per taluni, è che il Norden sia ormai un “mondo di ieri”. Il Memorandum alla fine vincola meno di quanto sembri Stoccolma ed Helsinki, ma il fatto che due paesi campioni dei diritti umani, ai vertici di moltissime classifiche internazionali, abbiano dovuto firmarlo è una grande vittoria simbolica e politica per il regime autoritario turco. 

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Si ipotizza che Erdoğan faccia la voce grossa con la Svezia e la Finlandia per blandire gli elettori, in un momento di forte crisi economica e con le elezioni generali nel 2023. La storia insegna che dittatori e “uomini forti” amano scagliarsi contro le democrazie per rafforzarsi e compattare il popolo (Mussolini in questo era un maestro), e del resto il protagonismo turco (non soltanto ai vertici della NATO ma in Libia, Ucraina, Siria, Africa orientale ecc.) è anche un tentativo per costruire un’area turca di influenza politica, ed economica, in aree dove la presenza di ONG e attori della cooperazione svedese o finlandese è magari poco nota al resto d’Europa, ma molto efficace. Ancora, Ankara è estremamente interessata ai caccia di quinta generazione F-35, ma Washington è contraria: minacciare il veto ai danni di Helsinki e Stoccolma potrebbe essere un modo per fare pressioni persino sugli Stati Uniti.

Intanto gli svedesi e i finlandesi di origine curda, così come i curdi e i turchi che nei due paesi nordici hanno trovato rifugio, seguono con trepidazione questo complesso gioco diplomatico e politico tra medie potenze, innescato dall’imperialismo di un’ex superpotenza. Senz’altro molti di loro sperano di non essere traditi un’altra volta. 

Immagine in anteprima via rainews.it

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