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L’attacco della Turchia ai curdi. Domande e risposte

22 Ottobre 2019 16 min lettura

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L’attacco della Turchia ai curdi. Domande e risposte

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Aggiornamento

24 ottobre 2019: l'articolo è stato aggiornato con il contenuto dell'accordo tra Turchia e Russia e con le reazioni delle parti coinvolte.

 

Oggi scadrà la tregua dell'incursione turca nella Siria nord-orientale, raggiunta tra Ankara e Stati Uniti d'America, per permettere alle forze curde di lasciare i territori al confine con la Turchia. Se il ritiro dalle zone definite nell'accordo non sarà completato, il governo turco ha avvertito che l'operazione militare – iniziata lo scorso 9 ottobre, condannata dai suoi alleati occidentali e che ha provocato finora vittime e migliaia di sfollati tra i civili curdi, peggiorando una crisi umanitaria già in atto in quelle zone – riprenderà.

L'escalation militare della Turchia è partita dopo che il 7 ottobre il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato improvvisamente che era tempo di iniziare a ritirare le truppe americane dalla Siria nord-orientale, da diversi anni "alleate" con le forze guidate dai curdi nella lotta allo Stato Islamico. Una decisione letta da più parti come un "tradimento" statunitense nei confronti dei curdi e utilizzata dal presidente turco Recep Erdoğan per far partire un attacco al confine meridionale, un ampio territorio in mano alle forze curde, che Ankara considera gruppi terroristici e una minaccia alla propria esistenza.

Abbiamo cercato di ricostruire il complesso quadro di questi avvenimenti – che a detta di numerosi analisti ridefinirà anche i fronti della guerra e della partita geopolitica in Siria – rispondendo a nove domande.

Chi sono i curdi?

Il Kurdistan è una regione geografica dell’Asia sud-occidentale, suddivisa fra Turchia (per la maggior parte), Iran, Iraq e Siria. Non costituisce uno Stato indipendente e la popolazione curda – stimata tra i 20 e i 40 milioni di persone, con diverse religioni e fedi politiche al proprio interno – vive da tempo in questi differenti paesi.

Come riassume Treccani, "nel 16° secolo la maggior parte del Kurdistan fu inglobata nell'Impero ottomano, mentre una parte veniva conquistata dalla Persia. (...) Nel corso dell'Ottocento iniziarono a manifestarsi le aspirazioni indipendentiste dei Curdi, ma le loro rivolte furono tutte represse dagli Ottomani".

Nel 1900 la fine della prima guerra mondiale portò alla spartizione tra i vincitori dei territori dell’Impero ottomano tramite il "Trattato di Sèvres" (1920), in cui si prevedeva la possibilità di uno Stato curdo indipendente. Tre anni dopo, però, nel successivo "Trattato di Losanna" (1923), che superava quello precedente, veniva meno ogni riferimento al Kurdistan e il suo territorio veniva suddiviso in cinque parti. Alla Turchia fu riconosciuto il settore più ampio di questa regione.

Conclusa la seconda guerra mondiale, i curdi restarono senza un proprio Stato, continuando a vivere in Turchia, Siria, Iraq e Iran. In questi paesi, come minoranza etnica, i curdi, che hanno portato avanti battaglie indipendentiste, hanno subito spesso violente repressioni.

Perché la Turchia vede i curdi come una minaccia?

Dagli anni '80, Ankara ha contrastato politicamente e militarmente il Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK, cioè Partito dei lavoratori curdi) – un partito politico, inizialmente di ispirazione marxista-leninista, nato alla fine degli anni '70 e poi sostenitore del confederalismo democratico – e la sua lotta armata (portata avanti anche con attentati) per rivendicare uno Stato indipendente nella regione del Kurdistan. Richieste che poi negli anni '90 si sono ridimensionate, puntando a una maggiore autonomia culturale e politica. Il PKK è stato considerato dagli Stati Uniti d'America, dall'Unione europea e dalla Turchia stessa un'organizzazione terroristica. Secondo una stima riportata dal Washington Post in trent’anni circa 40.000 persone sono morte in questo conflitto.

Nel 2013, il leader del PKK Abdullah Ocalan – arrestato nel 1999 e detenuto da vent'anni nell'isola-prigione turca di Imrali – ha annunciato una tregua con il governo turco, terminata ufficialmente però due anni dopo: il 20 luglio 2015 un attacco suicida attribuito allo "Stato islamico" uccide 32 persone, durante un incontro di attivisti curdi a Suruç, nel sudest della Turchia, al confine con la Siria. Secondo i curdi, però, dietro l'attentato ci sarebbe stato anche il coinvolgimento di Ankara che avrebbe sostenuto i jihadisti. Due giorni dopo, combattenti del PKK uccidono due poliziotti turchi a Ceylanpınar.

Come risposta, durante un attacco aereo della Turchia contro forze dell'ISIS in Iraq, vengono colpiti anche accampamenti del PKK in quella zona, che stava combattendo proprio contro i miliziani dell'ISIS. Per questo motivo, l'HPG, l'ala militare del PKK, dichiara ufficialmente che la tregua raggiunta nel 2013 non aveva più senso. Due anni dopo, l'ONU, con un rapporto, ha accusato il governo turco di aver commesso, tra luglio 2015 e dicembre 2016, gravi violazioni dei diritti umani ai danni soprattutto delle popolazioni curde nel sud-est della Turchia.

Come si è arrivati all'incursione turca in Siria?

Per capirlo, facciamo un passo indietro. A metà del 2013, spiega la BBC, l'ISIS ha tentato la conquista di tre enclavi curde che confinavano con il territorio sotto il suo controllo nel nord della Siria. I ripetuti attacchi dei miliziani del Califfato, fino alla metà del 2014, sono stati però respinti dall'Yekîneyên Parastina Gel (YPG, Unità di Protezione Popolare), l'ala armata del Partiya Yekîtiya Demokrat (PYD).

Il PYD (in italiano "Partito curdo dell'Unione Democratica") è un'organizzazione politica attiva all'interno della "Federazione del Nord della Siria", una regione non ufficialmente riconosciuta, nata in seguito allo scoppio della guerra in Siria del 2011, nota anche con il nome di "Rojava" e in cui vivono, secondo le stime, tra 500 mila e 1 milione di curdi. Per la Turchia, però, l'YPG e il PYD sono rami del PKK e per questo sono considerati anch'essi organizzazioni terroristiche da combattere.

via The Economist

Nell'estate del 2014, le offensive dei miliziani dell'ISIS puntano alla conquista di zone del Nord dell'Iraq, nel territorio della regione autonoma del Kurdistan iracheno che risponde con l'intervento della propria forza armata conosciuta con il nome di Peshmerga. In diverse aree però l'ISIS riesce ad avanzare, conquistando varie città, con le forze curde costrette alla ritirata. Una coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti d'America con l'allora presidente Barack Obama, interviene con una serie di attacchi aerei contro l'ISIS nel Nord dell'Iraq e inviando anche armi ai Peshmerga e consiglieri militari. A terra, inoltre, in aiuto alle truppe del Kurdistan iracheno arriva anche l'YPG.

Con il passare del tempo, i combattenti curdi, siriani e iracheni, rafforzano il loro coordinamento con la coalizione guidata dall'America contro le milizie dell'ISIS in quei territori. Il New York Times scriveva all'epoca che in Siria l'YPG era diventato "l'alleato più efficace dell'America contro lo Stato Islamico". Ma gli Stati Uniti non hanno mai spiegato ufficialmente nel dettaglio quanto questa collaborazione fosse stretta, per via dei legami del gruppo con il PKK, ritenuto dagli stessi USA un'organizzazione terroristica. Inoltre, questo rapporto tra americani e curdi creava tensioni con la Turchia, che non forniva pienamente il suo appoggio logistico e militare nella lotta contro l'ISIS.

Nel giugno 2015, i miliziani curdi dell'YPG riescono a riconquistare Kobane, città siriana al confine con la Turchia, in mano all'ISIS e altri territori. Il presidente turco Recep Erdoğan aveva chiarito subito che non avrebbe mai permesso la formazione di uno stato curdo "nella nostra frontiera meridionale nel nord della Siria". Circa un mese dopo, la Turchia entra ufficialmente nella coalizione guidata dagli americani contro le milizie dello Califfato e contemporaneamente lancia una serie di attacchi aerei contro postazione curde. Per diversi analisti questa decisione di Ankara era in parte guidata dal voler contrastare le veloci conquiste territoriali ottenute dall'YPG in Siria, spiegava ancora il New York Times. Per la sua partecipazione alla coalizione, la Turchia raggiunge inoltre un accordo con gli Stati Uniti d'America, in cui vengono definiti anche i confini di una safe zone, cioè una fascia protetta libera dai miliziani dell'ISIS ma anche, su richiesta turca, da quelli curdi, lungo un tratto del confine siriano.

Intanto, tre mesi dopo, a ottobre 2015, sempre all'interno della lotta all'ISIS, nasce il Syrian Democratic Forces (SDF), un'alleanza composta da diverse milizie, tra cui anche quelle curde dell'YPG. Come spiega Ruby Mellen sul Washington Post questa nuova alleanza ricevette armi dagli Stati Uniti e sostegno da altri paesi occidentali tra cui Gran Bretagna, Francia e Italia. Le SDF ottennero importanti vittorie contro le principali roccaforti dello Stato Islamico: "La città di Manbij nel 2016; Raqqa, autoproclamata capitale siriana dello Stato islamico, nel 2017; e, nel 2019, la città di Baghouz, una conquista che segnò la fine del dominio territoriale dello Stato Islamico".

Anche in questo caso la Turchia si era mostrata preoccupata che gli americani stessero fornendo armamenti a un gruppo con all'interno forze dell'YPG, considerate da Ankara costole del PKK. Una questione che, continua Mellen, ha interrogato molti analisti sulla durata effettiva dell'alleanza tra militari americani e curdi, condannata da un alleato della NATO come la Turchia. La risposta è arrivata il 7 ottobre scorso, con l'annuncio del presidente degli Stati d'Uniti d'America, Donald Trump, dell'inizio del disimpegno delle truppe americane al confine tra Turchia e Siria. Una mossa definita dalle forze curde una "pugnalata alla schiena" e un "tradimento" da diversi analisti.

Cosa vuole la Turchia?

Come abbiamo visto la Turchia è fortemente contraria alla presenza di un territorio in mano ai curdi al suo confine meridionale. Nel 2018, ad esempio, i ribelli siriani appoggiati da Ankara hanno conquistato Afrin, città siriana da anni sotto controllo curdo. Da tempo la Turchia chiede una "zona cuscinetto" che principalmente limiti l'espansione curda e l'allontani dalla sua frontiera.

Lo scorso agosto una delegazione americana in Turchia ha iniziato a lavorare con il governo turco per la creazione di questa zona (un progetto a cui il regime di Damasco si è opposto perché ritenuto contrario alla sua sovranità). Per Ankara la zona di sicurezza dovrebbe avere una larghezza di 30, 40 chilometri e un'estensione di oltre 400 chilometri verso il confine con l'Iraq. Una dimensione territoriale, però, contro cui le unità curde si sono sempre opposte.

via BBC

A fine settembre Erdoğan – che nel proprio paese è sottoposto a varie pressioni, tra difficoltà dell'economia turca e le recenti sconfitte elettorali del suo partito ad Ankara e Istanbul – all'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York ha affermato che una safe zone estesa fino a Raqqa al confine tra Turchia e Siria consentirebbe il reinsediamento di circa 3 milioni di rifugiati presenti in Turchia (nel 2016 è stato raggiunto un accordo, criticato da diversi esperti di diritto internazionale, tra Ankara e Unione europea per bloccare il flusso di migranti provenienti dalla Turchia. In cambio, tra le varie cose, sono stati stanziati 6 miliardi di euro per il governo turco per la gestione dei campi profughi sul proprio territorio). Non è chiaro in che modo si potrebbe realizzare un reinsediamento così massiccio, sottolinea l'Associated Press. Per le SDF si tratterebbe inoltre di una violazione di massa dei diritti umani e di un piano di pulizia etnica dei curdi nella Siria del nordest. I negoziati tra Turchia e Stati Uniti non vanno comunque a buon fine.

Il 5 ottobre la Turchia dichiara così che un'operazione militare nel nord-est della Siria sarebbe potuta iniziare in qualsiasi momento, accusando Washington di non aver fatto abbastanza per espellere i combattenti curdi siriani dal suo confine. Due giorni la dichiarazione di Trump, il 9 ottobre, Erdoğan annuncia l'avvio dell'operazione militare al confine della Siria contro i curdi.

Quali sono fino ad ora gli effetti dell'attacco?

Le truppe turche, insieme alle milizie siriane appoggiate da Ankara, sono così entrate in azione il 9 ottobre scorso nei territori della Siria controllati dai curdi. Per contrastare l'avanzata turca i curdi siriani hanno dovuto stipulare un accordo con il regime di Damasco, appoggiato da Mosca, del presidente Bashar al-Assad che, spiega l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), ridefinirà i fronti di guerra e della partita geopolitica in Siria, con l’esercito siriano dispiegato nei territori curdi fino ad oggi controllati dalle SDF e lungo il confine con la Turchia. Mazloum Abdi, comandante delle forze a guida curda in Siria, ha spiegato che, pur non fidandosi di questa nuova alleanza, "i russi e il regime siriano hanno avanzato proposte che potrebbero salvare la vita" ai numerosi civili nei territori da loro controllati.

Secondo le Nazioni Unite, l'azione militare turca ha causato vittime e oltre 160 mila sfollati tra i civili curdi. Inoltre, l'Organizzazione per il divieto delle armi chimiche (OPCW) ha annunciato un'indagine per capire se la Turchia nei suoi attacchi ha usato armi non convenzionali, dopo l'accusa e la denuncia di alcuni funzionari curdi e la loro richiesta di ispettori internazionali per svolgere esami su alcuni feriti.

Qual è la stata la reazione all'attacco turco?

Con una dichiarazione, il Consiglio dell'Unione europea ha condannato l'atto militare turco, chiesto il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe. Diversi paesi europei – tra cui Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Paesi Bassi – hanno ufficialmente sospeso il commercio di armi con Ankara e concordato di preparare un elenco di altre possibili sanzioni.

Principali fornitori di armi alla Turchia dal 2008 al 2018, via AFP

Come risposta la Turchia ha condannato a sua volta la posizione dei paesi europei, definendo "inaccettabile che l'Ue mostri un approccio protettivo nei confronti di elementi terroristici" e minacciando di "aprire le porte" e mandare in Europa i 3 milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti d'America, inizialmente è sembrato che dessero indirettamente il via libera all'invasione turca con l'annuncio da parte del presidente Trump del dislocamento di truppe dalla Siria nord-orientale, salvo poi precisare con una nota del Dipartimento della difesa che non ci sarebbe stato nessun sostegno all'operazione turca. Sempre Trump, inoltre, in un tweet, ha dichiarato che se Ankara avesse fatto un'azione considerata da lui "off limit" avrebbe "distrutto e cancellato" l'economia della Turchia. Il presidente statunitense ha poi successivamente emanato una serie di sanzioni, come il raddoppio delle tariffe siderurgiche, l'annullamento dei negoziati riguardanti un accordo commerciale con la Turchia e sanzioni ai ministri turchi della Difesa, degli Interni e dell'Energia.

C'è il rischio di un ritorno dell'ISIS in Siria?

Secondo diversi analisti, tra i maggiori rischi dell'invasione militare turca nei territori curdi nella Siria del nord, c'è quello di rafforzare le possibilità di una riorganizzazione più rapida del cosiddetto "Stato Islamico", che potrebbe approfittare del caos creatosi. Le forze curde e arabe dell'SDF gestiscono e sorvegliano circa 11.000 terroristi dell'ISIS, tra cui 2 mila foreign fighters, nelle prigioni del nord-est siriano. Secondo quanto riferito da fonti locali, almeno 750 persone con sospetti legami con lo Stato islamico sono fuggite da un campo nel nord-est della Siria.

via The Guardian

Hassan Hassan, un esperto di ISIS al Centre for Global Policy, ha dichiarato che il gruppo terroristico – non ancora sconfitto definitivamente in Siria – potrebbe trarre beneficio dall'incursione turca: «Le forze della SDF avevano informazioni di intelligence aggiornate e ben documentate sulle persone che si erano unite all'ISIS e sulla sua struttura. La Turchia, invece, non ha accesso a molte di queste informazioni».

Raggiunta una tregua di cinque giorni, ora che succede?

Nove giorni dopo l'annuncio dell'operazione militare turca, il 17 ottobre, il vice presidente americano Mike Pence, recatosi nel frattempo ad Ankara, ha annunciato di aver raggiunto con il governo turco un accordo di cessate il fuoco nel nord della Siria.

Il testo – composto da 13 punti – prevede una tregua di cinque giorni per consentire agli Stati Uniti di facilitare il ritiro delle forze YPG da territori siriani controllati dai curdi al confine turco. È stato anche concordato un cessate il fuoco permanente quando sarà completato tutto il ritiro dell'YPG. Nel documento si legge che Stati Uniti hanno già iniziato a facilitare il ritiro delle forze curde dall'area della "safe zone". L'amministrazione statunitense, inoltre, ha riconosciuto "legittime" le "preoccupazioni di sicurezza della Turchia" sul proprio confine meridionale e si è impegnata a bloccare le sanzioni stabilite nei confronti della Turchia, una volta sospesa definitivamente l'operazione militare di Ankara in Siria. Mazloum Abdi, comandante delle forze a guida curda in Siria, ha definito la tregua un "accordo provvisorio", suggerendo una partecipazione dei curdi all'accordo raggiunto: "Sono tre giorni che ci stiamo lavorando".

Durante i due primi giorni dall'annuncio di Pence, curdi e Ankara si sono accusati a vicenda di aver violato il cessate il fuoco. Successivamente è iniziata l'evacuazione dei territori da parte dei combattenti curdi. Associated Press racconta che stanno lasciando l'area anche i civili curdi perché senza la protezione di gruppi militari alleati, temono di subire le violenze delle milizie siriane appoggiate dalla Turchia.

Un alto ufficiale delle SDF, Redur Khalil, ha affermato che le forze curde si ritireranno da una zona larga circa 120 chilometri e profonda 30 chilometri tra Ras al-Ayn e la città di Tel Abyad più a ovest. La Turchia ha già specificato che la safe zone dovrà essere più ampia, comprendendo l'intero confine nord-orientale. Per questo motivo, la questione non sembra risolta, perché il territorio richiesto da Ankara è molto più lungo di quello stabilito nell'accordo tra Turchia e Stati Uniti d'America.

Altra questione rimasta in sospeso è come sarà gestito il resto del confine nord-orientale in mano ancora alle forze guidate dai curdi, soprattutto dopo l'alleanza con il regime di Damasco (appoggiato dalla Russia) contro la Turchia. Per oggi è previsto un incontro a Mosca tra Erdogan e il presidente russo Vladimir Putin. Sempre AP riporta che un portavoce turco ha affermato che il presidente Erdoğan dirà a Putin di non voler né forze siriane né curde lungo il confine perché in quel caso il suo piano di reinsediare oltre 3 milioni di rifugiati non si potrebbe realizzare perché quest'ultimi non vorrebbero andare in territori controllati da questi combattenti.

via The Guardian

Nelle prossime settimane sono attesi incontri anche con il primo ministro del Regno Unito Boris Johnson, il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel.

Cosa prevede l'accordo tra Russia e Turchia sulla Siria nord orientale?

Dopo un incontro durato 6 ore a Sochi, in Russia, il presidente turco Erdogan e quello russo Putin hanno raggiunto un accordo sulla situazione nel nordest della Siria.

I due paesi – si legge nel documento – riconoscono “l'unità politica e l'integrità territoriale della Siria e la protezione della sicurezza nazionale della Turchia” e prolungano di altre 150 ore la sospensione dell’operazione militare turca per permettere alle forze curde dell’YPG di lasciare i territori indicati per una distanza di 30 km dal confine turco siriano. Quelle zone saranno poi controllate da pattuglie congiunte di Russia e Turchia. La Russia ha accettato inoltre che le truppe turche controllino l’area conquistata negli scorsi giorni, che si estende per 120 km tre le città siriane di Ras al-Ain e Tal Abyad. In questo modo la Turchia ha ottenuto quella safe zone che chiedeva da tempo, anche se di dimensioni minori rispetto la richiesta iniziale. Il Guardian sottolinea che resta comunque ancora non chiaro cosa accadrà ai consigli militari locali istituiti dalla SDF nelle zone di confine precedentemente sotto il loro controllo e alle unità non curde della SDF.

via Associated Press

La BBC riporta che il presidente siriano Bashar al-Assad si è detto preoccupato per le interferenze straniere in Siria. Il Cremlino – alleato del regime siriano – ha fatto però sapere che Assad "ha espresso il suo pieno sostegno per i risultati” dell’accordo raggiunto. Secondo l’Associated Press e altri analisti, ad oggi Turchia e Russia risulterebbero i veri vincitori perché Erdogan otterrebbe il controllo esclusivo sulle aree del confine siriano conquistate durante l’incursione militare turco, mentre le forze governative russe e siriane controllerebbero il resto della regione di confine.

Dal canto suo, il presidente americano, Donald Trump, si è detto soddisfatto dell’attuale situazione, affermando in conferenza stampa, mercoledì 23 ottobre, che gli Stati Uniti d’America hanno svolto «un ottimo lavoro» e di «aver salvato molte vite»: «Lasciamo che qualcun altro combatta per questa landa desolata macchiata di sangue». Trump ha aggiunto anche che gli Stati Uniti revocheranno tutte le sanzioni contro la Turchia «a meno che non accada qualcosa di cui non siamo contenti».

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Pochi giorni prima, il 16 ottobre, alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, democratici e repubblicani avevano però votato insieme una risoluzione non vincolante che condannava le decisioni di Trump e affermava l’opposizione del Congresso al ritiro delle forze armate americane dalla Siria settentrionale. Inoltre, per l’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria, James Jeffrey, il ritiro delle truppe statunitensi ha creato un problema nella lotta all’ISIS.

Mazloum Abdi, comandante della SDF a guida curda, ha ringraziato Trump, aggiungendo che il presidente americano ha promesso anche “di mantenere una partnership con l’SDF e supportarla a lungo termine in vari ambiti”. Cosa questo significa nel dettaglio, però, non è ancora chiaro, sottolinea Vox. Abdi ha parlato anche con il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu dell'accordo raggiunto con la Turchia, esprimendo riserve su alcuni punti. Nella conversazione il ministro ha assicurato il comandante curdo che la polizia militare russa garantirà la sicurezza dei civili nelle zone di confine tra Siria e Turchia definite nell’accordo tra Mosca e Ankara, riporta AP. Inoltre, secondo Shoigu, Abdu ha ringraziato la Russia per aver contribuito a porre fine ai combattimenti e per proteggere il popolo curdo.

Foto in anteprima via Ansa

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