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Come l’Iran ha usato una rete di centri di tortura segreti per fermare le proteste e spegnere la rivolta

24 Febbraio 2023 5 min lettura

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Come l’Iran ha usato una rete di centri di tortura segreti per fermare le proteste e spegnere la rivolta

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Da quando lo scorso settembre sono iniziate le proteste in Iran, scatenate dalla morte della giovane curda Mahsa Amini, finita in coma mentre si trovava sotto custodia della polizia di Teheran perché “non portava il velo nel modo corretto”, migliaia di manifestanti sono stati fermati dalle forze di sicurezza iraniana e sottoposti ad abusi e forme di tortura non soltanto nelle carceri e nelle stazioni di polizia ma anche in una vasta rete di prigioni clandestine non ufficiali. Il quadro che emerge da un’inchiesta della CNN in questi 4 mesi di proteste è quello di un regime che pratica la tortura in modo sistematico per schiacciare una rivolta che ha segnato un punto di non ritorno nella storia dei movimenti di protesta contro i vertici e la legittimità stessa della Repubblica Islamica. Quella che sembrava partita solo come una nuova e potente ondata di proteste contro l’obbligo del velo ha visto subito giovani donne e uomini fianco a fianco, in una lunga serie di manifestazioni diffuse in tutto il paese. I centri di detenzione non ufficiali - per lo più gestiti dalla potente Guardia Rivoluzionaria e da agenti dei servizi segreti - sono al di fuori del sistema ufficiale iraniano e sfuggono a qualsiasi garanzia di un giusto processo e consentono forme di tortura senza limiti. Le testimonianze di una dozzina di sopravvissuti raccolte da CNN parlano di scosse elettriche, asportazione delle unghie, frustate, percosse che provocano cicatrici e fratture, e violenze sessuali.

Iran, forza e fragilità del sogno di una rivoluzione

Tra le persone detenute, tre manifestanti – Arshia Takdastan (18 anni), Mehdi Mohammadifard (19) e Javad Rouhi (31) – sono stati condannati a morte per “ostilità verso Dio” e “corruzione sulla terra”. Secondo il verdetto, avrebbero “istigato a incendi e ad atti di vandalismo” (tra i quali azioni violente non provate ma anche aver danzato, ballato e gettato veli tra le fiamme) durante le proteste del 21 settembre nella provincia di Manzadaran, nel nord dell’Iran. A Rouhi è stata inflitta una terza condanna a morte per apostasia, dopo che aveva confessato sotto tortura di aver dato fuoco a una copia del Corano. I processi, nel corso dei quali i tre imputati non hanno potuto essere difesi da un avvocato di loro scelta, sono durati una sola udienza di circa un’ora. Takdastan, Mohammadifard e Rouhi hanno fatto appello alla Corte suprema. Per loro, Amnesty International ha chiesto l’annullamento delle condanne a morte. 

Durante la detenzione, scrive Amnesty, i tre giovani hanno subito frustate, scariche elettriche, sospensioni con la testa in giù e ulteriori forme di tortura. Rouhi, arrestato il 22 settembre 2022, è stato tenuto in isolamento per oltre 40 giorni, durante i quali è stato minacciato di morte, con una pistola puntata contro, se non avesse confessato. È stato frustato, colpito con le pistole elettriche, sottoposto a temperature estreme e per due giorni gli è stato posto del ghiaccio sui testicoli. Takdastan, arrestato il 24 settembre e tenuto in isolamento per quasi un mese, ha subito duri pestaggi e minacciato di morte se non avesse confessato. Mohammadifard, detenuto dal 2 ottobre, è stato tenuto in isolamento per una settimana, in una cella infestata da topi e insetti, picchiato duramente e stuprato.

Almeno quaranta manifestanti sono stati condannati a morte dall’inizio delle proteste e più di 100 sono stati accusati di reati che comportano la pena capitale. Le prigioni non ufficiali potrebbero aver agevolato decine di queste condanne a morte, emesse nel corso di frettolosi processi farsa. Secondo le testimonianze raccolte dalla CNN, ai manifestanti veniva quasi sempre chiesto di firmare una confessione forzata in cui si dichiarava di far parte di un gruppo terroristico, di voler rovesciare lo Stato o di seminare disordine, accuse che comportano pene detentive di lunga durata o la condanna a morte.

Un noto avvocato iraniano, Saeid Dehghan, ha dichiarato di essere in grado di confermare che almeno due manifestanti condannati sono stati torturati in luoghi di detenzione non ufficiali prima di firmare confessioni forzate che sarebbero poi state utilizzate per giustificare le loro condanne a morte. 

Secondo due fonti a conoscenza dei fatti, Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini - due manifestanti messi a morte rispettivamente all'età di 21 e 39 anni - sono stati entrambi torturati in luoghi di detenzione non ufficiali prima di essere trasferiti nella prigione di Karaj, a sud di Teheran. Karami era un campione di karate iraniano-curdo. Suo padre ha dichiarato a Mizan Online, un'agenzia di stampa affiliata alla magistratura iraniana, che Karami è stato picchiato così violentemente durante l'interrogatorio che i suoi carcerieri lo hanno lasciato in strada pensando che fosse morto, prima di arrestarlo di nuovo. 

La CNN è riuscita a localizzare circa una quarantina di queste prigioni non ufficiali. Molte si trovano all'interno di strutture governative come le basi militari e quelle delle Guardie Rivoluzionarie. Altre sono prigioni clandestine di fortuna, a volte magazzini, stanze vuote all’interno di edifici o addirittura scantinati di moschee. In genere sono state utilizzate per trattenere alcune ore o alcune settimane i tanti manifestanti arrestati, spesso bendati, in modo tale da non poter riconoscere il luogo in cui si trovavano.

Come accaduto a Fatemeh che racconta alla CNN di essere stata bendata con un hijab e portata su un tetto di una di queste prigioni improvvisate nel nord di Teheran. A un certo punto l’hijab è scivolato e ha potuto osservare in una stanza di un altro edificio vicino al suo “uomini con le mani legate dietro la schiena, completamente nudi e che sanguinavano dalla schiena”. Fatemeh ha detto di essere stata liberata a mezzanotte. I suoi rapitori le hanno ordinato di correre lungo un vicolo buio e hanno minacciato di spararle se si fosse voltata indietro.

A differenza di Fatemeh, Kayvan Samadi, studente di medicina, non è stato bendato. Dice di ricordare nei minimi dettagli lo spazio in cui è stato tenuto prigioniero: la coperta sporca e cucita che fungeva da materasso, i volti di chi lo interrogava e l'armadio che conteneva gli strumenti di tortura, tra cui cacciaviti e pungoli. “Mi hanno dato scosse elettriche alla nuca, al collo e alla schiena”, racconta. “Ricordo vividamente che mi hanno dato scosse ai genitali per diversi secondi. Quando sono stato slegato, non ero in grado di stare in piedi. Ero così debole che i soldati mi hanno trascinato in cella”.

Samadi è stato rilasciato su cauzione tre settimane dopo il suo arresto. Non è chiaro perché sia stato lasciato andare, nonostante non abbia firmato una confessione. È fuggito dall'Iran poco dopo il suo rilascio e afferma di aver dormito in più di 15 rifugi da allora pur di sfuggire a nuove reclusioni.

I centri di detenzione non ufficiali non sono un fenomeno nuovo in Iran. Human Rights Watch, Amnesty International e il Kurdistan Human Rights Center hanno documentato per anni gli abusi perpetrati in questi luoghi. Tuttavia, avvocati e attivisti affermano che la proliferazione di questi luoghi durante le proteste per Mahsa Amini non ha precedenti.

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“La differenza principale rispetto alle proteste degli anni scorsi è la portata di queste manifestazioni. Il regime sentiva che questa volta sarebbe stato rovesciato. Dovevano fermare le proteste ad ogni costo”, spiega Boedi, fuggito dall’Iran.

La brutalità della torture e le minacce della repressione hanno avuto un effetto deterrente sulle proteste anche se il dissenso non è scomparso e la crudeltà del regime ha alimentato un risentimento ancora più forte.

Immagine in anteprima via iranhumanrights.org

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