Diritti Digitali Post

Le piattaforme, i giornali e il futuro dell’informazione

18 Dicembre 2022 14 min lettura

author:

Le piattaforme, i giornali e il futuro dell’informazione

Iscriviti alla nostra Newsletter

13 min lettura

Qualità o redditività?

La nostra società ha bisogno dei giornali? Questa è una delle domande più importanti della nostra era. Per rispondere a questa domanda si combattono battaglie miliardarie nei tribunali, e si alimenta una feroce attività di lobbying specialmente a livello internazionale (in Europa per lo più) per ottenere norme che tutelino l’editoria (vedi direttiva copyright). La tesi è che internet avrebbe ucciso i giornali, che le piattaforme del web “rubano” contenuti agli editori, e tutto ciò impoverirebbe la nostra società, con le ricadute negative della moltiplicazione delle fake news e della disinformazione. I giornali muoiono per colpa delle piattaforme del web, e questo devasterebbe la nostra società.

Leggi anche >> La Direttiva Copyright diventa legge degli Stati europei

A questo argomento generale se ne aggiungono molti periferici, come l’elogio del “muro etico” proprio dei giornali. I giornali non solo si occupano di fornire notizie ai cittadini, ma la separazione tra parte editoriale e commerciale (certe volte purtroppo solo presunta) consentirebbe al giornalista di perseguire la verità, qualunque essa sia. Senza doversi preoccupare dell’influenza dell’editore, o di terze parti sull’editore.

Ma la questione non è così semplice. Un punto essenziale è che oggi la qualità del giornalismo è piuttosto irrilevante. La pubblicazione di notizie è un’attività commerciale come tutte le altre, non diversa dall'attività pubblicitaria di Facebook. E in quanto tale resiste solo finché è redditizia. Non importa quanto sia buono il prodotto se poi non attira profitti, ciò che conta davvero, perché rimanga sul mercato, non è la qualità delle notizie, ma la sua redditività.

Il problema è che con l’avvento di internet l’intero mercato dell’informazione è mutato. Un tempo i giornali erano i soli canali pubblicitari, e integravano testi editoriali e pubblicitari in un pacchetto che veniva consegnato ad un pubblico geograficamente vincolato. Se un inserzionista voleva raggiungere un pubblico, doveva per forza utilizzare quei canali. Se l’interesse era di raggiungere il pubblico di una specifica città si sceglieva il giornale locale. E in genere la pubblicità non era personalizzata, ma generalista. Questo stato di cose era estremamente redditizio per gli intermediari come i giornali. Essi creavano contenuti accattivanti da affiancare alle inserzioni (pubblicità contestuale). Il predominio sul mercato era assicurato dal controllo sulla produzione e distribuzione. I lettori compravano il giornale, infarcito di pubblicità, e ciò ne garantiva la redditività e quindi la sopravvivenza. Ma la crescita era limitata dalle difficoltà di scalare la produzione e la distribuzione oltre tale area geografica.

Inserzionisti → media (giornali, televisione) → contenuto + annunci → pubblico (audience)

Questo - ma è altro discorso - determinava anche una restrizione del discorso pubblico (finestra di Overton) ad argomenti “centristi”, perché l’impossibilità di “personalizzare” il discorso, la necessità di rivolgersi contemporaneamente a tutti, costringeva a mantenersi in un ristretto ambito del discorso. Un paio di giornali per città, tre o quattro canali televisivi, tutti centristi e rispettosi dell’autorità. Il “centrismo” era necessario per fare soldi.

Leggi anche >> La disinformazione come fenomeno sociale e l’emersione delle logiche da “branco”

Internet o dell’abbondanza

Con l’avvento di Internet la situazione cambia drasticamente. Internet ha eliminato la “scarsità” delle notizie consentendo una gamma infinita di scelte. È molto più facile, e decisamente meno costoso, pubblicare notizie online, quindi quasi chiunque può farlo, chiunque può essere editore ad esempio aprendo un blog. Inoltre è possibile scalare, cioè raggiungere un pubblico decisamente più vasto senza particolari incrementi di costi. Le “notizie” sono una merce abbondante - a differenza degli eventi sportivi e dell’intrattenimento per i quali si pagano diritti -. Il potenziale lettore ha la possibilità di trovare facilmente notizie, e soprattutto può trovare ciò che davvero gli interessa, invece di doversi accontentare di ciò che c’è sul mercato (pensiamo alla televisione dei primi anni).

Se prima compravo un giornale o guardavo un telegiornale con molti argomenti (sezioni, sport, oroscopo, ecc...) che non mi interessano davvero (con uno spreco di soldi), adesso posso cercare solo ciò che mi interessa. Lo spostamento delle notizie dal cartaceo all’online ha permesso la ricerca dei contenuti e quindi un migliore accesso ad essi, grazie ai search engine. Di contro - se ci avete mai fatto caso - in genere i giornali non hanno motori di ricerca interni davvero efficienti, perché l’interesse del giornale non è farvi arrivare subito alla notizia che vi interessa, ma navigare per sezioni e pagine, in modo da costringervi a visualizzare più pubblicità.

Internet consente di trovare i contenuti migliori in base alle tue esigenze e ai tuoi interessi, e l’avvento degli user generated content e del citizen journalism ha permesso la moltiplicazione dei contenuti e l’apertura di spazi di discussione da parte di esperti di singole materie, hanno permesso l’emersione dei “saperi specializzati” e la loro diffusione. In questo quadro il digitale ha ampliato la finestra di Overton, proprio perché non c’è più necessità di limitarsi, potendosi rivolgere a masse molto più grandi, ma nel contempo anche personalizzando l’audience. Non si è più obbligati a rivolgersi a tutti indistintamente, si può selezionare il pubblico. Iniziò Howard Dean nel 2003, perché non aveva i soldi per la pubblicità sulle televisioni, quindi si affidò ai canali digitali. Non ce la fece, ma apri la strada per la campagna di Obama.

Tutto questo, però, alimenta la concorrenza, e fa sì che il contenuto per attrarre lettori deve davvero distinguersi tra i tantissimi presenti online. Tutte le fonti di notizie competono su un piano di parità. La probabilità che un particolare articolo abbia successo non si basa su chi lo sta propagando, ma su quanti utenti sono ricettivi ad ascoltarlo. Il potere si è spostato dal lato dell'offerta al lato della domanda.

Google e Facebook hanno costruito una forte relazione direttamente con gli utenti fornendo contenuti a cui gli utenti tenevano di più, e questo, quindi, ha reso le piattaforme la porta principale di internet per la maggior parte degli utenti, è sulle piattaforme che ormai si trova il pubblico. Il collegamento diretto delle piattaforme con gli utenti è stato un doppio colpo per i giornali, le piattaforme sono in una posizione migliore per servire la pubblicità e gli utenti trovano sempre più tutte le loro notizie e l’intrattenimento tramite Facebook o le altre piattaforme.

L’immediata conseguenza sul mercato pubblicitario è la moltiplicazione dei contenuti a cui legare le inserzioni, per cui il valore delle inserzioni (e quindi il costo) si riduce enormemente. Internet ha creato un serio problema esistenziale per il business delle notizie: ha disaggregato la pubblicità dalla creazione di contenuti. Gli intermediari digitali si pongono tra i miliardi di utenti online e i produttori di contenuti, dei quali gli editori sono solo una parte, e spesso la più costosa. Oggi le piattaforme del web hanno milioni di persone che creano contenuti di ogni tipo (prosumer), spesso anche più appetibili delle notizie, e spesso gratis, ai quali legare le inserzioni pubblicitarie. Questo non vuol dire - chiariamolo subito - che le notizie non hanno più un futuro, ma di sicuro entrano in competizione con tutte le altre categorie di contenuti.

Personalizzazione e scarsità del mercato pubblicitario

E questo ha creato un serio problema per gli “intermediari” della pubblicità, come i giornali. Il business della pubblicità con internet è cambiato nella sua essenza. Se prima la pubblicità dipendeva dalla capacità di raggiungere un pubblico (qualsiasi pubblico), online tale capacità appartiene a tutti o quasi (ovviamente ci sono differenze di scala). Se un tempo raggiungere l’intero elettorato americano era difficile, adesso 150 milioni di persone sono un “pubblico medio” per le piattaforme del web (ma anche per i giornali sul web). Ma ciò che cambia radicalmente è la personalizzazione, solo se hai le informazioni sul tuo pubblico riesci a raggiungere il pubblico che vuoi, e quindi a inviare pubblicità più efficace. Se non hai tali informazioni la pubblicità è inefficace (e quindi anche fastidiosa) e per tale motivo la pubblicità ha un valore (e quindi un costo) molto più basso rispetto al passato.

Il problema per i media tradizionali (giornali e televisioni) con l’avvento di internet è quindi non solo il dover concorrere con una quantità enorme di attori nel mercato della pubblicità (compreso i blog unipersonali), ma anche il sapere ben poco dei loro stessi lettori. La pubblicità online consente di raccogliere (tramite gli script inseriti nei banner pubblicitari) informazioni sui lettori in maniera decisamente più personalizzata (profilazione) di quanto fosse possibile offline. Da un modello nel quale la pubblicità viene inviata ad un pubblico di massa ed è costruita intorno al contenuto e collegata a dati storici aggregati, si è passati ad un modello pubblicitario costruito in base a informazioni personalizzate estratte in tempo reale. Queste informazioni sono in possesso delle aziende del web. Il targeting delle informazioni è la nuova “scarsità” del mercato pubblicitario.

Inoltre il modello pubblicitario online - introdotto da Google intorno al 2002 (Adwords) - consente di pagare solo quella pubblicità effettivamente “vista” o cliccata. Insomma, non stai più acquistando i lettori del Corriere, ma stai acquistando un pubblico interessato ad un determinato argomento (politica, economia, auto, sport...) che legge il Corriere. E il tutto - con AdSense e poi DoubleClick - avviene in maniera automatizzata, in tempo reale. Si chiama programmatic advertising. Anche il più grande dei giornali non ha le informazioni individuali per competere con Google, o con le altre piattaforme che progressivamente sono entrate nel mercato pubblicitario (Facebook focalizzata sul mercato mobile, Amazon con i dati delle vendite, Apple, Microsoft, Twitter...).

In questo quadro Google per gli editori è al contempo:

  • Importante fonte di traffico per i giornali (beneficio diretto);
  • Concorrente diretto per “attenzione” e pubblicità;
  • Servizio per la gestione e vendita della pubblicità (tramite AdSense e Double Click);
  • Partner in varie iniziative per l’innovazione degli editori.

Half the money I spend on advertising is wasted; the trouble is I don't know which half, John Wanamaker

Bisogna però intendersi, il nuovo modello pubblicitario non è nemmeno lontanamente efficace quanto le piattaforme del web sostengono nelle loro mirabolanti pubblicità dei servizi offerti, ma sicuramente tale modello è più efficace del modello utilizzato dai vecchi media, perché la personalizzazione consente di “sprecare” meno pubblicità. Un vecchio adagio recitava: “La metà dei soldi spesi in pubblicità sono persi, ma non sappiamo quale metà”. Inoltre il modello è poco trasparente (più o meno come il modello precedente), spesso gli inserzionisti hanno ben poche informazioni sulle loro inserzioni. Quello che gli editori ottengono collaborando con le piattaforme non è niente altro che una serie di black box controllate dalle stesse piattaforme. Quanto puoi fidarti delle misurazioni fornite dalle piattaforme? È ovvio che queste ultime forniscono agli editori i dati che scelgono di fornire, niente di più (del resto è lì che sta il valore, sono quei dati che costituiscono il vantaggio per le piattaforme e quindi l’asset principale del loro business). E non è detto che siano quelli davvero utili per gli editori.

Ma un punto è certo. Questo tipo di pubblicità è decisamente meno costosa della pubblicità dei media tradizionali, e sicuramente più efficace. Questo permise a Google di ottenere profitti per 1,4 miliardi nel 2002 (quando Adwords diventa Google Ads), mentre oltre 1200 giornali americani insieme raggranellavano solo 1,2 miliardi.

Stima del 2014

La guerra delle news

Potrebbe essere anche vero che la democrazia ha ancora bisogno dei giornali, ma di sicuro non ne hanno bisogno gli inserzionisti.

Che Google sia una fonte importante (valuable) di traffico per i giornali lo ha ammesso anche il CEO di Axel Springer nel 2014, però criticando la sua “posizione dominante”. Ai tempi in cui si avviavano le prime iniziative per introdurre diritti accessori a favore degli editori (poi confluiti nella riforma della direttiva copyright), in Germania l’associazione degli editori VG Media cercò più volte di spingere l’antitrust ad avviare un’azione contro Google, sostenendo che il fatto che Google non pagasse per la pubblicazione degli estratti delle notizie, o che addirittura volesse non pubblicare tali estratti per non doverli pagare (se costretta per legge), fosse un’iniziativa lesiva della concorrenza. Ma l’antitrust tedesco non ritenne tali argomenti validi dal punto di vista giuridico. Del resto Google effettivamente smise di pubblicare gli estratti degli articoli, e Axel Springer dovette ammettere una diminuzione del traffico di quasi il 40% (80% su Google News).

L’errore commesso dagli editori è stato quello di legarsi inestricabilmente alle piattaforme del web (anche gli editori – es. Axel Springer e News Corp - che hanno accusato strenuamente Google e Facebook di “furto di contenuti” hanno collaborato attivamente con le piattaforme -). Da un lato gli editori non possono fare a meno del traffico che veicolano le piattaforme (“Google non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo bisogno di Google” Dopfner, CEO di Springer, 2014), dall’altro però le piattaforme hanno monopolizzato il mercato pubblicitario così sottraendo nel complesso risorse agli editori. Se un solo editore avesse smesso di passare per tali piattaforme la riduzione del traffico fornito da queste ultime avrebbe portato il singolo editore ad avere seri problemi a mantenersi in un mercato dove tutti gli altri usufruiscono dei servizi delle piattaforme.

Le scelte poste in essere dagli editori in termini di pubblicità col tempo sono diventate strutturali e sono state inglobate nell’ecosistema pubblicitario (e quindi informativo), così progressivamente rendendo editori e piattaforme del web inestricabili tra loro. Gli editori devono ottimizzare i loro siti e la presentazione delle notizie per i servizi delle piattaforme, e ciò va rifatto ogni volta che si ha un aggiornamento dei servizi della piattaforme (gli algoritmi). E nessuna azione individuale presa da un editore può impensierire una piattaforma come Facebook, nemmeno la BBC o il Times. Le piattaforme, ovviamente, vogliono che gli editori partecipino, ma se uno non lo fa per le piattaforme non cambia sostanzialmente nulla.

In questo modo le piattaforme del web stanno ristrutturando l’ecosistema digitale a loro immagine (così come del resto gli editori ristrutturavano gli ecosistemi televisivi a loro uso e consumo), e gli editori e gli inserzionisti sono sempre più costretti ad adattarsi alle piattaforme (purtroppo al momento esistono pochissimi studi che trattano l’argomento) e al loro modo di gestire l’ambiente (il mercato pubblicitario).

È un grave errore sostenere che il problema dell’ecosistema digitale è che le piattaforme si “appropriano” dei contenuti altrui. In realtà le piattaforme non fanno altro che esercitare le loro attività economiche al fine di fare profitti, esattamente come gli editori. Il problema non sta nel fatto che Google e le piattaforme del web “rubano” i contenuti, in quanto gli editori ne ottengono un vantaggio economicamente evidente dalla pubblicazione dei loro prodotti (per estratti) sulle piattaforme del web. E questo è un vantaggio anche per gli utenti, per i cittadini in generale, che hanno un accesso molto più ampio e variegato alle notizie (in contrasto con chi sostiene che i social “isolano” le persone in una bolla ideologica mettendogli di fronte solo ciò che conferma le loro idee). Il problema sta nel fatto che gli editori sono costretti ad adattarsi alle metriche delle piattaforme, cosa che sul lungo periodo determina ovvi conflitti. Finché gli editori usufruiscono dei servizi delle piattaforme, una piattaforma può - semplicemente modificando i parametri dell’algoritmo di ricerca - rendere i contenuti di un editore o di una specifica categoria più o meno visibili sul web, con ciò decretandone la vita o la morte. Dirottare profitti dalle piattaforme agli editori, come con la direttiva copyright, non farà altro che acuire il vero problema, la dipendenza degli editori dalle piattaforme.

Di contro gli editori, pur avendo alcuni di essi intrapreso da anni una guerra con le piattaforme del web, non hanno mai smesso di usufruire dei servizi di tali aziende (per il traffico, per le partnership...), e non si sono mai mossi all’unisono tra loro. Questo perché (a prescindere dal fatto che un’azione collettiva da parte degli editori potrebbe anche costituire un cartello rilevanti ai fini antitrust) comunque c’è un incentivo a collaborare con le aziende del web, e tale incentivo è maggiore quanto più grandi sono gli editori. In genere i vantaggi maggiori, infatti, li ottengono gli editori che hanno una posizione più rilevante sul mercato, a discapito dei piccoli editori.

I nuovi “intermediari” della pubblicità (es. Google, Facebook...) hanno vinto la guerra della pubblicità online non perché rubano contenuti, o per chissà quale nefandezza, semplicemente, in un ecosistema dove non esiste più la “scarsità” di canali di distribuzione, hanno fornito un valore aggiunto alle inserzioni pubblicitarie. Quello che è davvero cambiato con internet è che si è introdotta una forma di concorrenza tra i “canali” pubblicitari, non più solo giornali e televisione. In internet ciò che scarseggia non sono le “news”, bensì l’attenzione.

E sono le grandi piattaforme del web ad avere l’attenzione del pubblico, dell’audience, il grande pubblico è sui social, non sui giornali. E i giornali devono scegliere quali sono le loro priorità. In genere gli approcci sono due, con diverse gradazioni. Da un lato un approccio “off-site, che privilegia la condivisione dei contenuti dappertutto, sulle piattaforme del web, sui social. È tipico degli editori che nascono digitali (es. BuzzFeed). L’altro approccio è “on-site, che privilegia il mantenimento dei contenuti sul sito del giornale, e le restrizioni alla condivisione. In questo caso l’editore preferisce focalizzarsi su abbonamenti e paywall. L’approccio off-site si focalizza sulla scala e genera profitti per lo più tramite la pubblicità (pochi centesimi a pagina), l’on-site si basa più sulla fiducia dei lettori, si focalizza su un pubblico relativamente minore ma costante, che deve necessariamente generare profitti per pagina maggiori affinché il giornale si possa mantenere (Rasmus Kleis Nielsen, Sarah Anne Ganter, The power of platforms). Il problema è sempre lo stesso, in un ecosistema dove è facile trovare notizie gratis, fidelizzare i lettori è difficile. Per reggersi con un approccio on-site è necessario avere una generosa quantità di contenuti esclusivi.

In molti casi l’approccio è ibrido, spesso muta col tempo a significare un approccio dinamico, adattivo, ma talvolta anche un’assenza di vera e propria strategia, un’incomprensione delle dinamiche del mercato digitale. Tutti gli editori partono dall’idea che non vogliono cedere il loro pubblico alle piattaforme, cosa che accade con un approccio off-site. Ma non sempre gli editori hanno le armi giuste per combattere questa battaglia.

Viviamo in un mondo con una concorrenza senza precedenti per l’attenzione, laddove le tecnologie digitali hanno portato, in internet, l’abbondanza dei contenuti (si, anche quelli malevoli, è l’inestricabile altra faccia della medaglia), e una reale libertà di esprimere le proprie opinioni. All’abbondanza dal lato dell’offerta non corrisponde una equivalente crescita dal lato della domanda, si acuisce il distacco tra chi si informa e chi non si vuole informare.

Se i giornali sono in crisi, paradossalmente il giornalismo non lo è, probabilmente sta solo subendo una mutazione genetica, è sempre più legato a piccole imprese, talvolta con autori singoli esperti di un solo argomento. Potendo raggiungere lettori dovunque nel mondo possono reggersi nell’ecosistema digitale, cosa che non era possibile nell’ambiente pre-internet. Anche se occorre dire che ci sono forze che cercano di deviare questo percorso al solo fine di prolungare la sopravvivenza del vecchio modello editoriale. Alcune norme (come la direttiva copyright) nascono proprio da quest’ultima prospettiva. Forse non dobbiamo preoccuparci troppo se un domani scompariranno i giornali, ciò che conta davvero è difendere il giornalismo, che è ben altra cosa.

Approfondimenti:

>> Il business della pubblicità online incentiva contenuti di bassa qualità e l’uso spudorato dei nostri dati

>> Protezione dei dati personali: l’intero sistema di pubblicità online viola la legge

>> Ombre e criticità del sistema pubblicitario digitale: un futuro senza annunci personalizzati è possibile?

>> Il futuro della pubblicità online è nei dati in poche mani e nelle piattaforme chiuse

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

>> Le breaking news e la manipolazione dell’opinione pubblica

>> Disinformazione e manipolazione. Il pericolo è il microtargeting degli annunci politici

Immagine in anteprima via World Economic Forum

Segnala un errore