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“Abbiamo tradito la generazione Greta Thunberg”

5 Maggio 2023 13 min lettura

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“Abbiamo tradito la generazione Greta Thunberg”

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

“La mia generazione ha tradito quella di Greta Thunberg”. Le parole sono di Pete Betts, “una leggenda della diplomazia climatica e delle Conferenze delle Nazioni Unite sul clima”, come l’ha definito Simon Sharpe, ex funzionario pubblico britannico, nel suo recente libro Five Times Faster

Considerato che Betts è stato per dieci anni direttore internazionale per il clima e l'energia del governo britannico, negoziatore principale alle COP per l'Unione Europea e per il Regno Unito alle Nazioni Unite sul clima e ha gestito finanziamenti internazionali per il clima per un valore di circa 3,5 miliardi di euro, le sue parole sono più di un’amara constatazione personale, sono un messaggio politico che chiama in causa la comunità internazionale. Suonano quasi come un’ammissione del fallimento collettivo di una generazione di leader politici, giornalisti e parti sociali, incapace di cogliere l’importanza cruciale del cambiamento climatico e l’urgenza delle azioni da intraprendere.

“Non ho mai conosciuto Greta, ma credo che abbia fatto un ottimo lavoro per portare il cambiamento climatico all'attenzione dei politici, quando rischiava di sfuggire”, prosegue Betts. “Concordo sul fatto che la mia generazione abbia deluso i giovani. Non credo che ciò sia dovuto a singoli negoziatori, anche se non mi sottraggo alla responsabilità. Suppongo di aver avuto più possibilità di fare la differenza rispetto ad altri. Ma collettivamente li abbiamo traditi, questo è vero”.

In una lunga chiacchierata con la giornalista esperta di cambiamento climatico, Pilita Clark, sul Financial Times, Betts ha raccontato cosa ha imparato nella sua esperienza di diplomatico climatico al servizio di Regno Unito e Unione Europea, mostrando tutta la sua incredulità e frustrazione per l’inazione della nostra società rispetto alla crisi climatica e per l’insipienza di alcuni ministri e leader politici. Il cambiamento climatico, nella migliore delle ipotesi non è riconosciuto come un problema reale, troppo spesso non è considerato una priorità ed è ritenuto sacrificabile sull’altare della sicurezza energetica e del mantenimento di modelli di sviluppo economico, energetico e industriale ormai insostenibili. 

Le COP vengono capite poco e male. “È incredibilmente frustrante vedere quanto poco compresi siano i vertici delle Nazioni Unite. Le ONG e i media non hanno capito come sono cambiati dall'accordo di Parigi del 2015. Le decisioni che contano davvero vengono prese mesi prima dell'inizio di una COP. È allora che la maggior parte dei paesi annuncia gli impegni di riduzione delle emissioni, come previsto dall'Accordo di Parigi.

Quando abbiamo stipulato l'accordo, pensavamo che la società civile e altri soggetti avrebbero esaminato con attenzione gli impegni assunti in materia di clima prima delle COP, in modo da spingere gli Stati a fissare obiettivi ambiziosi e a modificarli se fossero stati ritenuti insufficienti. Ci sbagliavamo. Innanzitutto, gli impegni a volte non arrivano con sufficiente anticipo. Inoltre, nessuno critica gli impegni a meno che non siano stati presi dai paesi sviluppati.

Si dovrebbe puntare maggiormente i riflettori sull'incapacità di Stati come la Cina, le cui emissioni sono superiori a quelle dell'intero mondo sviluppato, di rafforzare seriamente i propri impegni. Dovrebbe essere evidenziato di più quando paesi come il Brasile di Jair Bolsonaro indeboliscono i loro impegni. Invece, alle COP si presta molta più attenzione a cose come ciò che viene detto sui combustibili fossili nella formulazione di una decisione finale di cui nessun singolo paese può essere chiamato a rispondere”.

L'obiettivo di 1,5°C è appeso a un filo. “L'incapacità collettiva degli Stati di trovare un accordo su una riduzione sufficiente delle emissioni da qui al 2030 è estremamente significativa, e la Cina è l'elemento più importante. Non si tratta di puntare il dito contro Pechino. I paesi sviluppati al di fuori dell'Europa, in particolare gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia e il Giappone, non hanno agito per decenni, quando avrebbero potuto farlo a costi molto contenuti. Ma questa è la realtà centrale della situazione in cui ci troviamo e significa che le temperature globali potrebbero aumentare leggermente al di sopra dell'obiettivo di 1,5°C fissato dall'accordo di Parigi, a meno che non si intervenga subito con urgenza.

Dopo un eventuale superamento di questo limite, il mondo potrebbe ovviamente darsi una regolata e raggiungere emissioni negative negli anni 2030 e 2040, riportando l'aumento della temperatura al di sotto di 1,5° C. Ma il superamento di 1,5° C comporta il rischio di punti di svolta ecologici irreversibili. I sistemi meteorologici mondiali troveranno un nuovo equilibrio e gli scienziati non sono in grado di prevedere in che modo si differenzieranno.

Molti cercheranno di sfruttare questo momento per sostenere che dovremmo rinunciare all’obiettivo di 1,5° C. Sono le stesse persone che hanno causato il mancato raggiungimento dell'obiettivo. Se sforiamo questo limite, il messaggio da lanciare non è rinunciare, ma raddoppiare il ritmo di riduzione delle emissioni: dobbiamo agire in modo deciso, piuttosto che adottare un approccio costante”.

Anche gli addetti ai lavori non sempre sanno esattamente cosa sta accadendo. “Il processo della COP è molto difficile da seguire per tutti gli interessati. I delegati di 195 Paesi sono organizzati in diversi gruppi negoziali che lavorano contemporaneamente su decine di questioni diverse: finanziamenti, adattamento, misurazione e rendicontazione delle emissioni e così via. È impossibile per un singolo individuo essere al corrente di tutte queste attività.

A ciò si aggiunge il fatto che i governi hanno opinioni molto diverse su quali siano i paesi maggiormente responsabili delle cause del cambiamento climatico. Questo porta inevitabilmente a diffidenza e sospetti diffusi, che i paesi desiderosi di rallentare il progresso possono facilmente sfruttare diffondendo voci sulle posizioni di altre nazioni”.

I leader mondiali possono essere utili o senza speranze. “I leader si comportano in modi molto diversi durante questi vertici. Gordon Brown è stato molto attento ai dettagli della COP 2009 a Copenaghen e ha contribuito personalmente a salvare l'incontro dal fallimento gettandosi nei negoziati. David Cameron ha trascorso gran parte della breve permanenza alla COP del 2015 a Parigi seduto nella tenda VIP ed è stato uno dei pochi capi di governo a non incontrare la sua delegazione. A Glasgow, nel 2021, Boris Johnson e il suo team si sono concentrati quasi esclusivamente sulla produzione di slogan che presentassero la COP come un successo. Johnson ha anche criticato il suo presidente della COP, Alok Sharma, per aver ceduto alle lacrime dopo che un intervento dell'ultimo minuto da parte di India e Cina aveva indebolito gli sforzi per eliminare gradualmente l'uso dell'energia a carbone. A quanto pare, Johnson ha pensato che questo facesse sembrare la COP un fallimento”. 

Ora tocca alla Cina. “È vero che gli Stati Uniti sono il più grande emettitore storico e che negli ultimi 30 anni non hanno fatto la loro parte. Ma oggi il maggior emettitore è di gran lunga la Cina e le decisioni prese a Pechino contano più di ogni altra cosa. (...) I tagli alle emissioni di un paese come il Regno Unito saranno sempre aritmeticamente insignificanti rispetto a quelli della Cina, e il problema del clima non si risolve senza la Cina.

Non sto assolutamente dicendo che non si dovrebbe fare pressione sui paesi sviluppati. (...) Ma dato che la maggior parte delle emissioni globali proviene oggi dalle economie emergenti, è ancora più importante fare pressione sui paesi più ricchi affinché forniscano i finanziamenti per aiutare le nazioni più povere a passare alle energie rinnovabili, che sono più economiche nel corso della loro vita rispetto ai combustibili fossili, ma che all'inizio richiedono molto capitale. Al momento questi finanziamenti sono drammaticamente insufficienti”.

Google aveva promesso che avrebbe smesso di pubblicare annunci pubblicitari accanto a contenuti che negano il cambiamento climatico, ma queste policy continuano a essere violate

Nell'ottobre 2021, Google ha promesso di non pubblicare più annunci pubblicitari accanto a contenuti che negano l'esistenza e le cause del cambiamento climatico, in modo che i sostenitori di queste false affermazioni non possano più guadagnare sulle sue piattaforme, compresa YouTube. Ma il monitoraggio di una coalizione di organizzazioni ambientaliste e il Center for Countering Digital Hate ha rilevato che le promesse di due anni fa continuano a essere disattese. 

In un rapporto pubblicato il 2 maggio, sono stati individuati 100 video, visualizzati almeno 18 milioni di volte in totale, che violano la politica di Google. Gli autori dello studio hanno trovato video accompagnati da pubblicità di grandi marchi come Adobe, Costco, Calvin Klein e Politico. Anche una pubblicità del motore di ricerca di Google è apparsa prima di un video che affermava che non c'era consenso scientifico sui cambiamenti climatici. Sono stati identificati, inoltre, altri 100 video che non violavano esplicitamente le politiche di Google, ma che rispondevano a una definizione più ampia di disinformazione climatica che avrebbe dovuto essere coperta. Tra questi vi erano anche video di Exxon Mobil e Fox News.

Un video su YouTube intitolato “Chi è Leonardo DiCaprio”, che riporta una sfilza di affermazioni secondo cui il cambiamento climatico è una bufala e il mondo si sta raffreddando, contiene una pubblicità della Paramount+ per il film "80 for Brady", con Lily Tomlin, Sally Field, Rita Moreno e Jane Fonda.

Proprio Jane Fonda si dedica da tempo in prima persona alla lotta contro il cambiamento climatico. “Sono sconcertata dal fatto che una pubblicità per uno dei miei film appaia in uno di questi video e spero che YouTube interrompa immediatamente questa pratica”, ha dichiarato Fonda, che ha definito aberrante il fatto che “YouTube violi la sua stessa politica” facendo girare video di bufale sul clima con annunci pubblicitari, dando al contenuto ulteriore validità mentre “il pianeta sta bruciando”.

“Ci chiediamo quale sia l'attuale livello di applicazione delle policy da parte di Google”, ha dichiarato in un'intervista Callum Hood, responsabile della ricerca del Center for Countering Digital Hate.

È difficile valutare la portata della disinformazione su YouTube, hanno detto i ricercatori, perché guardare i video è un lavoro che richiede molto tempo e l'accesso ai dati è limitato, il che costringe a cercare faticosamente sulla piattaforma con parole chiave. “Riteniamo che probabilmente si tratta solo della punta dell'iceberg", ha aggiunto Hood, riferendosi a ciò che lo studio è riuscito a rilevare.

Michael Aciman, portavoce di YouTube, ha dichiarato in un comunicato che l'azienda consente “dibattiti politici o discussioni su iniziative legate al clima, ma quando i contenuti oltrepassano il limite della negazione del cambiamento climatico, rimuoviamo gli annunci pubblicitari da quei video. Applichiamo questa politica in modo rigoroso, ma la nostra applicazione non è sempre perfetta e siamo costantemente impegnati a migliorare i nostri sistemi per individuare e rimuovere meglio i contenuti che violano la politica. Per questo motivo accogliamo con piacere i feedback di terze parti quando pensano che ci sia sfuggito qualcosa”. Aciman ha aggiunto che YouTube ha rimosso gli annunci pubblicitari da diversi video segnalati dai ricercatori, compreso quello che promuoveva "80 for Brady".

Sotto alcuni dei video sul clima che i ricercatori hanno trovato - alcuni con pubblicità e altri senza - YouTube ha inserito un riquadro "contesto" con informazioni autorevoli, segnalando che sapeva che i video contenevano affermazioni false o almeno contestate. "Il cambiamento climatico si riferisce a variazioni a lungo termine delle temperature e dei modelli meteorologici, causate principalmente dalle attività umane, in particolare dalla combustione di combustibili fossili", ha scritto YouTube, collegandosi a un sito delle Nazioni Unite sull'argomento.

Il ruolo di ENI nella crisi del Pakistan

L'ENI ha guadagnato circa 550 milioni di dollari non mantenendo le commesse con il Pakistan e poi rivendendo il gas naturale liquefatto (GNL) promesso al Pakistan negli ultimi due anni ad altri e contribuendo ad aggravare la carenza energetica del paese asiatico. È quanto sostengono l’organizzazione non profit Sourcematerial e Recommon, un gruppo ambientalista italiano.

Secondo le due organizzazioni, tra la fine del 2021 e l'inizio del 2023 la major italiana dell'energia non ha consegnato una serie di spedizioni programmate nell'ambito di un contratto per la fornitura di un carico di GNL al mese. In quel periodo, le navi di GNL dell'ENI hanno smesso di andare in Pakistan e si sono dirette in Turchia.

Nel 2017, si legge nel rapporto congiunto di Sourcematerial e Recommon, “ENI si è aggiudicata una commessa di lungo termine per la fornitura di gas liquefatto (GNL) al Pakistan fino al 2032. Ma da quando i listini energetici si sono impennati, la multinazionale italiana ha mancato diverse consegne di gas, mettendo a repentaglio gli approvvigionamenti del paese, che ora si trova allo stremo”. Sebbene la crisi pakistana abbia radici profonde e sistemiche, prosegue il rapporto, “ENI ha una responsabilità diretta per quanto sta accadendo nel paese”. Dall’autunno del 2021 in poi, la società italiana avrebbe mancato oltre un terzo delle consegne previste da contratto, ovvero 8 sulle 20 pattuite.

L'ENI nega di aver tratto vantaggio dalla situazione, e tutti i carichi non consegnati al Pakistan erano al di fuori del ragionevole controllo dell'azienda, riporta Bloomberg. “Solo quando non erano disponibili soluzioni commerciali reciprocamente accettabili, sono state applicate le disposizioni contrattuali per la mancata consegna”, ha dichiarato la società in risposta al rapporto.

Le cancellazioni sono avvenute quando i mercati globali del gas hanno iniziato a restringersi nel 2021, con l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia nel 2022 che ha scatenato una corsa al GNL causando carenze per gli acquirenti che non potevano più permettersi il carburante. I contratti del Pakistan, legati ai tassi del petrolio, prevedevano una penale relativamente modesta del 30% in caso di cancellazione, rendendo redditizio per i fornitori abbandonare legalmente le spedizioni. Il governo pakistano ha dichiarato che “la mancata fornitura di carichi di GNL da parte dell'ENI è una questione contrattuale coperta da disposizioni di riservatezza".

Il calo delle consegne al Pakistan ha aggravato i blackout diffusi nel paese, perché l'importatore statale non è riuscito a trovare forniture alternative. 

Secondo quanto riferito da operatori a Bloomberg, anche l'ENI stava lottando con una carenza di forniture a seguito di problemi di produzione presso l'impianto di GNL in Nigeria, che hanno portato a una riduzione delle spedizioni alla società romana. 

Il ritorno di El Niño potrebbe portare a nuove temperature record nel 2023

Secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), è probabile che il modello meteorologico El Niño nell'Oceano Pacifico si sviluppi nel corso dell'anno e possa contribuire all'aumento delle temperature e portare nuove ondate di calore. 

L'OMM ha dichiarato che dopo tre anni di modello meteorologico La Nina nell'Oceano Pacifico, che spesso abbassa leggermente le temperature globali, c'è il 60% di possibilità che si trasformi in El Niño, la sua controparte più calda, nel periodo maggio-luglio di quest'anno. Questa probabilità aumenterà al 70-80% tra luglio e settembre.

Le condizioni di caldo eccezionale dovrebbero essere determinate dalla fine del “triplo-tuffo” de La Niña (un evento molto raro chiamato così perché caratterizza tre stagioni invernali per l’emisfero settentrionale e tre estive per quello meridionale, registrato solo altre due volte prima di oggi, tra il 1998 e il 2001, e tra il 1973 e il 1976) e da una rapida transizione verso condizioni più calde di El Niño. 

“Avere tre anni consecutivi con un evento della Niña è eccezionale. La sua influenza di raffreddamento sta temporaneamente rallentando l’aumento delle temperature globali, ma non fermerà o invertirà la tendenza al riscaldamento a lungo termine“, aveva affermato lo scorso anno Petteri Taalas, segretario generale dell’OMM. “Il peggioramento della siccità nel Corno d’Africa e nel Sud America meridionale porta i segni distintivi di La Niña, così come le precipitazioni sopra la media nel sud-est asiatico e in Australasia. Il nuovo aggiornamento La Niña purtroppo conferma le proiezioni climatiche regionali secondo cui la devastante siccità nel Corno d’Africa peggiorerà e colpirà milioni di persone”.

Parlando con i giornalisti a Ginevra, Wilfran Moufouma Okia, capo della divisione dei servizi regionali di previsione climatica dell'OMM, ha detto che non esiste una stima attuale di quanto El Niño spingerà le temperature verso l'alto.

Secondo una stima di Carbon Brief, il 2023 potrebbe essere uno dei quattro anni più caldi mai registrati, con una piccola possibilità di essere il più caldo in assoluto. Tuttavia, “siccome l'effetto di El Niño sulle temperature globali si manifesta solitamente l'anno successivo alla sua comparsa, l'impatto potrebbe essere più evidente nel 2024”, ha commentato un funzionario dell’OMM.

Come i molluschi stanno migrando sul Great Pacific Garbage Patch, la più grande isola di plastica al mondo, generando nuovi ecosistemi

La Great Pacific Garbage Patch, chiamata anche “Pacific Trash Vortex”, è la più grande chiazza di spazzatura presente negli oceani. Si trova nell’oceano Pacifico, tra la California e l’Arcipelago Hawaiano, e si sposta seguendo la corrente oceanica del vortice subtropicale del Nord Pacifico. È composta prevalentemente da plastica, metalli leggeri e residui organici in decomposizione. 

Tuttavia, secondo quanto osservato da uno studio recente, ora intorno a questa immensa isola di plastica sta nascendo un nuovo ecosistema. Anemoni di mare grandi quanto un'unghia o grandi o il palmo di una mano; briozoi bianchi e laccati; idroidi che spuntano come piume arancioni; anfipodi simili a gamberi; ostriche giapponesi; cozze. Nessuna di queste creature appartiene a questo luogo ma in qualche modo hanno imparato a sopravvivere in mare aperto, aggrappandosi alla plastica. 

E non solo: ora vivono fianco a fianco nella Great Pacific Garbage Patch con creature che normalmente abitano in mezzo all'oceano. Gli ecosistemi costieri e di mare aperto si stanno confondendo in un unico ecosistema legato alla plastica. “Come esseri umani, stiamo creando nuovi tipi di ecosistemi che potenzialmente non sono mai stati visti prima”, spiega Ceridwen Fraser, biogeografa dell'Università di Otago, che non ha partecipato allo studio. Il Garbage Patch, lungi dall'essere una landa desolata, è il luogo di un esperimento attivo di biologia.

Gli scienziati che hanno condotto questo studio sono stati inizialmente incuriositi dai detriti dello tsunami giapponese del 2011. Anche dopo sei anni, i detriti continuavano ad arrivare negli Stati Uniti carichi di creature originarie della costa giapponese. Gli scienziati hanno contato più di 60 specie di molluschi. Se i molluschi e i crostacei, che vivono di solito sulle coste, sono riusciti a sopravvivere a una traversata oceanica di sei anni grazie alla plastica, quanto potrebbero sopravvivere ancora? Potrebbero vivere in alto mare in modo permanente? 

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Molti degli oggetti del Garbage Patch che gli autori dello studio hanno trovato ricoperti di molluschi provengono dall'industria della pesca: reti, boe, corde, casse, coni per le trappole. Questi oggetti non si decompongono rapidamente proprio perché sono progettati per resistere a lungo nell'acqua di mare. Fanno parte di un'industria che ha distrutto gli ecosistemi oceanici, allontanando miliardi di pesci e crostacei dal loro habitat. Ora i resti di plastica stanno contribuendo a creare nuovi ecosistemi che mai avremmo voluto immaginare, sconvolgendo quelli esistenti.

Come le pompe di calore possono aiutare le città a ridurre le emissioni di carbonio

Le pompe di calore sono una soluzione chiave per contribuire a ridurre le emissioni di carbonio. Invece di creare calore, lo spostano da un luogo all'altro e hanno un'impronta di carbonio molto più bassa. Ma possiamo renderle accessibili a tutti? Un documentario prova a spiegarlo. 

Immagine in anteprima via surfertoday.com

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