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La Direttiva Copyright diventa legge degli Stati europei

20 Marzo 2022 18 min lettura

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La Direttiva Copyright diventa legge degli Stati europei

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Recepimento della Direttiva Copyright

La Direttiva Copyright dell’Unione europea (790 del 2019) è stata gradualmente trasposta nelle legislazioni nazionali. Doveva avvenire entro il 7 giugno 2021 ma molti paesi hanno recepito la direttiva con ritardo. L’Italia solo con il decreto legislativo 177 dell’8 novembre 2021, entrato in vigore il 12 dicembre 2021.

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Le problematiche fondamentali rimangono sul tavolo, in particolare resta irrisolta la questione (derivante dall’art. 17) di come conciliare la libertà di espressione con i nuovi obblighi per le piattaforme di filtrare le opere caricate sui loro server. È importante sempre ricordare che qui parliamo di filtri di caricamento, cioè i contenuti non vengono semplicemente rimossi, ma non sono nemmeno caricati, e quindi non è nemmeno possibile per un utente di internet verificare icto oculi se il contenuto è effettivamente in violazione delle norme. In sostanza si delega l’applicazione del diritto alle piattaforme e noi ci dobbiamo fidare del loro giudizio.

L'industria dello spettacolo giustifica la grave interferenza con la libertà di espressione in base alla necessità di tutelare i diritti fondamentali degli autori, compresa la protezione delle loro creazioni intellettuali. Tuttavia, dalle norme emerge una tutela principalmente concentrata sugli interessi strettamente economici dell’industria, interessi commerciali che non hanno nulla a che fare con gli autori e i creativi, e anche questi ultimi finiranno probabilmente limitati nei loro diritti.

Giusto per fare un semplice esempio, l’esecuzione online di un pezzo di Bach, sul quale ovviamente non insistono più diritti di autore e quindi è libera, potrebbe finire per andare in contrasto con l’esecuzione di un concertista della Universal (sulla quale insistono i diritti quale esecutore) perché determinerebbe una riduzione dei profitti della Universal, per cui corre il rischio di essere eliminata pur non violando alcun diritto d’autore.

Leggi anche >> Le criticità della direttiva sul copyright. Analisi dell’articolo più controverso

Per comprendere meglio la situazione basta tener presente che in Germania si è cercato di dare una tutela speciale nell’ambito della riforma del copyright ai contenuti sportivi anche se gli eventi sportivi non sono coperti da copyright in quanto non sono opere creative (esiste solo un diritto accessorio per le registrazioni televisive degli eventi). L’idea è, alla fine, di tutelare gli interessi economici delle aziende più che i diritti degli autori.

Art. 17: attuazione negli Stati membri

Gli approcci nazionali (vedi infografiche di Communia) nel recepire la Direttiva Copyright si possono inquadrare in tre categorie.

  1. La gran parte degli Stati (Francia, Paesi Bassi, Ungheria, Croazia, Estonia, Malta, Irlanda e Danimarca) ha scelto, pur con alcune differenze, di recepire la normativa senza modifiche. In sostanza tali Stati non forniscono alcun orientamento alle piattaforme su come applicare nel concreto l’articolo 17. In tal modo trasferiscono gli obblighi che la direttiva prevede per gli Stati (“Gli Stati membri devono...”) alle piattaforme del web e ai titolari dei diritti.
    La Francia in realtà si concentra particolarmente sugli strumenti di filtraggio dei contenuti (ah, come sono lontani i tempi quando si diceva che la direttiva non comportava strumenti di filtraggio!).
  2. Alcuni Stati hanno scelto di includere sostanziali modifiche alla normativa, in particolare introducendo delle specifiche salvaguardie per evitare blocchi eccessivi di contenuti. Germania (legge recepimento), Austria e Finlandia, infatti, introducono salvaguardie procedurali e sostanziali dei diritti degli utenti che limitano in modo significativo la capacità delle piattaforme di implementare filtri di caricamento completamente automatizzati per ottemperare agli obblighi di cui all'articolo 17, paragrafo 4. Vi sono, ovviamente, delle differenze, la Germania prevede “usi presumibilmente autorizzati”, l’Austria “usi di piccole parti di un’opera”, ma entrambi i paesi hanno fissato le stesse soglie quantitative: 15 secondi di audio o video, 160 caratteri di testo o immagini fino a 250kb.Quindi, quando viene utilizzato meno del 50% del lavoro originale ed è combinato con altro materiale creato dall’autore del caricamento (il secondo requisito non si applica alle singole immagini in Germania), e sono rispettate le soglie quantitative, i contenuti immessi online si presumono legittimi e quindi non devono essere bloccati dai filtri di caricamento delle piattaforme. Inoltre entrambi i paesi consentono agli utenti di contrassegnare (es. citazione, parodia) gli usi più lunghi delle opere protette come legittimi. Sono tutte le ipotesi nelle quali i contenuti non possono essere bloccati automaticamente e devono essere rivisti manualmente dai titolari dei diritti, rimanendo online fino alla risoluzione della controversia. Gli usi consentiti generalmente sono le rielaborazioni degli utenti a fini di critica, satira o parodia (es. meme). Si tratta di una serie di ipotesi che scoraggiano le false rivendicazioni di violazione del copyright che tanto affliggono le piattaforme online e danneggiano principalmente proprio gli autori e i creativi.
  3. Infine, ci sono altri Stati che sostanzialmente danno maggiore rilevanza agli interessi dei titolari dei diritti. Questi paesi sono la Spagna e l’Italia. Entrambi introducono disposizioni aggiuntive che richiedono che i caricamenti siano bloccati e rimangano indisponibili fino alla conclusione del reclamo relativo al contenuto, se avviato dall’autore del caricamento.

Approccio della Commissione Europea

In tale situazione ben poco armonizzata tra i singoli Stati (lo scopo delle normative europee dovrebbe essere proprio questo), è fondamentale la presa di posizione della Commissione Europea che, in seguito a una consultazione, ha preparato anche una guida all’attuazione dell’art. 17. La Commissione ha chiarito che solo i contenuti illegali possono essere automaticamente bloccati, laddove il blocco di contenuti leciti non è conforme alle norme. Una delle principali problematiche è data dal fatto che nessuno finora ha saputo indicare strumenti differenti dai filtri di caricamento per ottemperare all’obbligo di rimozione previsto. Il problema è che i sistemi di filtraggio algoritmici (software) non sono in grado di comprendere il contesto, per cui non riescono a stabilire correttamente se siamo in presenza di una esenzione prevista dalla normativa in materia di copyright (es. parodia), ma si limitano a verificare se un contenuto è uguale o simile a un altro (matching). Per le aziende dello spettacolo, ovviamente, questo non è un problema, insistendo sul fatto che rimane la possibilità per i soggetti che caricano contenuti di avviare una procedura di reclamo successiva alla rimozione. Ed è qui che entra in gioco l'interpretazione della Commissione che, appunto, chiarisce che il blocco di contenuti leciti non è conforme alla Direttiva, anche se esiste una possibilità di reclamo successivo contro il blocco.

Secondo la Commissione l’art. 17, par. 7, prevede un “obbligo di risultato” che prevale sull’art. 17 par. 4 (obbligo di migliori sforzi - “best effort” nell’originale, che però è stato tradotto non proprio correttamente con “massimi sforzi” nella versione italiana -). Ciò comporta che i contenuti devono rimanere disponibili per tutta la fase della revisione (reclamo) del contenuto, e possono essere rimossi solo se si stabilisce che effettivamente il loro uso è in violazione.

Emerge con evidenza che l’approccio austro-tedesco apparirebbe l’unico realmente conforme alle argomentazioni svolte dalla Commissione Europea e quindi alla Direttiva Copyright così come è nel testo attuale (frutto di una serie di compromessi). Di contro Italia e Spagna ritengono che il loro approccio sia conforme allo spirito della legge. In realtà tali Stati si riferiscono all’intento del testo originario, laddove durante la gestazione della normativa è apparso evidente che senza un corretto bilanciamento con i diritti fondamentali dei cittadini l’intero articolo non avrebbe potuto esistere all’interno dell’ordinamento europeo. In particolare la relazione JURI del luglio 2018 fu respinta dalla plenaria del Parlamento Europeo, e la riformulazione contiene modifiche significative alle garanzie dei diritti dell’utente e lo specifico obbligo di proteggere gli usi legittimi, compresi quelli soggetti a eccezioni e limitazioni, obbligo che viene trasposto direttamente nel paragrafo 7 dell’articolo. Ed è solo grazie a tale obbligo che la normativa è stata approvata. Per cui non esiste alcun dubbio che il legislatore europeo intendesse il paragrafo 7 come una disposizione indipendente che crea un obbligo autonomo (cioè garantire che “la cooperazione tra la condivisione di contenuti online i fornitori di servizi e i titolari dei diritti non impediscono la disponibilità di opere […] caricate dagli utenti, che non violano il diritto d'autore […], anche quando tali opere […] sono coperte da un'eccezione o limitazione”) per gli Stati membri.

Per cui l’art. 17 di oggi è qualcosa di diverso, una norma di compromesso che mira a bilanciare non più solo gli interessi delle aziende (piattaforme e aziende dell’intrattenimento) ma anche i diritti fondamentali dei cittadini. Perciò il nuovo art. 17 introduce delle garanzie originariamente non previste e mirate espressamente a preservare i diritti dei cittadini.

Polonia vs Unione Europea

La situazione è complicata al punto che quasi certamente sarà la Corte di Giustizia dell’Unione europea a sciogliere i nodi della regolamentazione. Infatti attualmente pende una causa intentata nel 2019 dal governo della Polonia contro il Parlamento e il Consiglio dell’Unione Europea, avente ad oggetto proprio l’art. 17 della Direttiva Copyright riformata. Il governo polacco ritiene (causa C-401/19) che l’art. 17 violi i diritti fondamentali dei cittadini europei, e quindi chiede di annullare l’obbligo di filtraggio di cui all’articolo in questione (art. 17 par. 4 lettere b) e c)), poiché porterebbe alla censura e alla limitazione della libertà di espressione dei cittadini, diritti garantiti dall'articolo 13 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE. La Commissione Europea, la Francia e la Spagna sono intervenuti nella causa in favore degli accusati. La spaccatura che si è realizzata nell’attuare la direttiva si rivede pedissequamente all’interno di questa causa.

Nell’udienza del 10 novembre (siamo in attesa della sentenza) si è potuto osservare come la Polonia porti avanti con puntiglio le sue argomentazioni. Pur rilevando che non vi è un obbligo giuridico, si osserva che di fatto l’articolo in questione non può essere rispettato se non tramite l’introduzione di sistemi algoritmici di filtraggio dei contenuti. Il sistema disegnato dalla direttiva sposta dai titolari dei diritti alle piattaforme l’obbligo di pattugliare l’ecosistema online (cioè è il legislatore europeo che chiede alle piattaforme di diventare gli sceriffi del web), laddove le piattaforme, per non dover rispondere della presenza di contenuti illeciti, saranno fortemente incentivate a rimuovere tutto ciò che è dubbio. Ciò porta, evidentemente, a una fortissima limitazione dei diritti fondamentali dei cittadini che finiscono per essere subordinati agli interessi meramente economici delle aziende. Si tratta di argomentazioni non nuove, per chi ha seguito le vicende della riforma della direttiva copyright.

La Commissione, il Parlamento e il Consiglio hanno risposto sostenendo che l’articolo accusato contiene sufficienti garanzie interne per evitare limitazioni ai diritti fondamentali dei cittadini. In particolare, la Commissione evidenzia argomentazioni analoghe a quelle svolte nelle linee guida pubblicate. Di contro Francia e Spagna, anche in contrasto con le massime istituzioni europee, sostengono che le limitazioni sono giustificate dall’obiettivo che l’articolo 17 cerca di raggiungere. L’obiettivo sarebbe quello di riequilibrare il potere della grandi piattaforme e quello dei titolari dei diritti (e non più esigenze di tutela dei diritti degli artisti). I due Stati hanno sostenuto che in ogni caso di conflitto tra i diritti dei titolari del copyright e i diritti degli utenti, devono sempre prevalere i primi. È, purtroppo, un’argomentazione che non tiene minimamente in considerazione i diritti dei cittadini, ma si rifà ad una concezione della direttiva che vede solo aziende contrapposte. Che poi in realtà era l’idea originale della direttiva, ma che, per fortuna, è stata almeno in parte corretta durante il suo percorso.

https://mimiandeunice.com/

Per chi ha letto le relazioni delle varie sottocommissioni europee, invece, è facile notare che l’argomento francese non avrebbe pregio perché si pone in contrasto con il problema fondamentale delle tecnologie di riconoscimento dei contenuti, e cioè l’impossibilità di stabilire se un contenuto è lecito in relazione al suo uso (es. parodia). Non si tratta solo di come i titolari dei diritti possono esercitare i loro diritti, si tratta dei diritti dei utenti che verrebbero annichiliti dallo strumento scelto.

Emergono quindi delle evidenti contraddizioni tra le parti in causa, ma dall’udienza risulta chiaro che la Corte prende molto sul serio il ricorso della Polonia. Si è anche fatto ampio riferimento alle argomentazioni dell’avvocato generale Saugmandsgaard (parere AG Saugmansgard), che è fortemente critico nei confronti degli obblighi delle piattaforme per vigilare sulle violazioni del copyright dei loro utenti. Inoltre l’AG si è anche mostrato scettico sul fatto che il paragrafo 4 dell’articolo 17 non si traduca in un obbligo generalizzato di monitoraggio dei contenuti degli utenti, monitoraggio vietato dalle norme europee.

L’argomentazione tecnica riguarda il rapporto tra i paragrafi 4 e 7 dell’articolo contestato, che si è svolta nei termini che abbiamo sintetizzato più sopra. Sia la Commissione che il Consiglio hanno sostenuto che il meccanismo deve essere interpretato nel senso che il filtraggio sia limitato ai soli usi manifestamente in violazione del copyright, prevedendo una revisione umana (e quindi non algoritmica) nei casi dubbi laddove i contenuti devono rimanere disponibili (visibili online) fino alla soluzione della controversia.

In sintesi (qui l’ampia analisi di Communia) le argomentazioni svolte dall’AG e portate avanti dalle istituzioni europee sono le seguenti:

  • Le piattaforme possono bloccare preventivamente solo i contenuti la cui illegittimità sembra manifesta in base alle informazioni fornite dai titolari dei diritti;
  • Le piattaforme non possono escludere l'applicazione di eccezioni al diritto d'autore;
  • La semplice accusa di violazione del diritto d’autore non è sufficiente a bloccare un contenuto.

Questo perché anche gli utenti delle piattaforme hanno dei diritti, tra i quali anche il diritto di fare affidamento sulle eccezioni al copyright, e le piattaforme devono agire con diligenza anche nei confronti del loro utenti, e non solo nei confronti dei titolari dei diritti. Quindi eventuali usi trasformativi di opere come i remix, o brevi estratti di opere di altre persone devono essere esclusi dai filtri di caricamento.

Insomma, il sistema richiesto dai titolari dei diritti, che prevede il blocco dei contenuti spostando sugli utenti l’onere di avviare un reclamo per rendere di nuovo disponibili contenuti online, finirebbe per avere un “chilling effect” sulla libertà di informazione, diminuirebbe l’attività degli utenti e i contenuti (che sarebbe spesso pubblicati con enorme ritardo) finirebbero per non essere più di interesse per il pubblico.

Infine, l’AG ha anche precisato che la portata delle misure di filtraggio deve sempre essere delimitata dal divieto generale di filtraggio (art. 17, par. 8), per cui a una piattaforma può essere richiesto solo di ricercare contenuti che siano stati preventivamente accertati illegali da un tribunale o siano palesemente illeciti senza necessità di contestualizzazione. Cioè i fornitori di servizi di condivisione non possono essere obbligati ad una valutazione indipendente della liceità dei contenuti, trattandosi di questioni legali complesse.

Secondo l’AG sono gli Stati e dover stabilire regole chiare e precise che disciplinino le misure di filtraggio, in tal modo negando che possano delegare il compito agli intermediari della comunicazione. Insomma, non devono essere i privati ad ergersi come sceriffi del web, non è compito loro e non lo potrebbero fare anche perché peccano della necessaria indipendenza per sostituirsi ai giudici. L’AG non analizza, però, le regole previste nelle linee guida della Commissione in quanto pubblicate successivamente al suo parere. Anche se secondo l’analisi di Communia la versione finale della guida della Commissione non soddisferebbe i requisiti dell’AG in quanto la proposta che i parametri per la protezione dei diritti degli utenti potessero essere concordati tra le parti interessate del settore e eccezioni di vasta portata alla regola secondo cui solo i contenuti in violazione manifesta possono essere bloccati, non sarebbero in linea. L'AG ritiene che il blocco di contenuti non manifestamente illeciti semplicemente sulla base dell'affermazione di “un rischio di danno economico significativo da parte dei titolari dei diritti” non è accettabile. In breve, l’AG disegna un meccanismo nel quale occorre distinguere chiaramente tra contenuti manifestamente illeciti (da bloccare) e contenuti leciti o semplicemente ambigui (che non vanno bloccati preventivamente).

Se la Corte dovesse accogliere le argomentazioni dell’AG (cosa che spesso accade), il risultato sarebbe che gli unici Stati membri a essere conformi alla direttiva saranno l’Austria e la Germania. Inoltre, eventuali indicazioni di parametri tecnici finirebbero per emergere quali standard di filtraggio automatizzato dei contenuti nell’ecosistema digitale europeo.

Come funzionerà?

Ma come funzionerà tutto questo nella pratica? In realtà già ne abbiamo un’idea perché l’utilizzo di sistemi di filtraggio da parte delle grandi aziende del web è cosa comune, data l’enorme quantità di contenuti riversati ogni secondo sui loro server, che rende impossibile verificarli tramite controllo umano.

Quando Google acquisì YouTube, cercando di evitare problemi legali coi titolari dei diritti d’autore, introdusse il sistema di filtraggio Content ID, un filtro automatizzato che scansiona i caricamenti degli utenti per verificare se anche solo una parte del caricamento corrisponde a materiale inserito nei suoi database dai titolari dei diritti. Una corrispondenza porta o al blocco del contenuto oppure il titolare dei diritti può decidere di monetizzare il contenuto stesso, così sottraendo all’utente che ha caricato il contenuto il guadagno derivante dalle inserzioni pubblicitarie. Nel 95% dei casi i titolari dei diritti scelgono di monetizzare (quindi non rimuovono) il contenuto e purtroppo sono documentati tantissimi casi nei quali il filtro non funziona adeguatamente. Ciò dipende da una serie di fattori, innanzitutto i sistemi di filtraggio non sono in grado di comprendere il contesto, per cui non verificano se un contenuto è lecito in quanto il suo uso è permesso dalle leggi, ma vi sono stati anche casi di veri e propri abusi, come ad esempio richieste di monetizzazione di video contenenti le fusa di un gatto oppure della coltivazione dell’insalata (quindi con vento in sottofondo). Ciò comporta che vengono sottratti soldi ai creativi e dirottati alle grandi aziende del copyright. I creativi, gli artisti, ben poco possono, perché dovrebbero avviare una costosa causa per sperare di riottenere i loro giusti profitti, ovviamente dopo molto tempo (quindi meno dell’1% delle rimozioni viene contestata). Di contro, una condanna dei titolari dei diritti per abusi non si ha quasi mai. WatchMojo, uno dei più grandi canali YouTube, ha stimato che in sei anni circa due miliardi di dollari in pubblicità sono andati ai titolari dei diritti invece che agli artisti.

Anche la piattaforma Twitch si è ritrovata in rotta di collisione con le aziende del copyright, ed è stata costretta a firmare delle licenze pagando così le etichette per evitare accuse legali. Adesso ha adottato le medesime politiche di YouTube. E anche Snap ha intrapreso la stessa strada.

La procedura dovrebbe essere di questo tipo:

  • Un utente carica un contenuto su una piattaforma;
  • Il contenuto viene analizzato da un software di filtraggio algoritmico che lo compara a tutti i contenuti inseriti in un database da parte delle aziende del copyright, database messo a disposizione delle piattaforme (le piattaforme ne estraggono degli hash per poter procedere con l’operazione di comparazione);
  • In caso di esito positivo, la piattaforma verifica se è stata acquistata una licenza per quel contenuto;
  • In caso negativo il contenuto viene bloccato, a meno che non sia “presumibilmente consentito” in base ai parametri impostati nel sistema di filtraggio.

In breve i filtri di caricamento sostituiranno avvocati e giudici nello stabilire se un contenuto è lecito o meno, decisioni per le quali nelle aule di giustizia occorrono anni.

Quindi tutto dipenderà dalla decisione della Corte europea. Se vincerà la linea italiana e spagnola ci sarà probabile un impatto negativo sulla libertà di espressione dei cittadini, e sui diritti degli artisti indipendenti. Se vincerà la linea austro-tedesca, l’impatto potrebbe essere limitato, ma rimarrebbe comunque la tendenza delle piattaforme a rimuovere tutto ciò che è dubbio, in considerazione del fatto che avviare azioni di reclamo è sempre dispendioso, quanto meno in termini di tempo.

“In un mondo in cui la tecnologia chiede a tutti noi di creare e diffondere il lavoro creativo in modo diverso da come è stato creato e diffuso prima, che tipo di piattaforma morale sosterrà i nostri figli, quando il loro comportamento normale è considerato criminale?”
Lawrence Lessig (Remix , xvii)

Art. 15: attuazione negli Stati membri

Il recepimento della Direttiva Copyright in Italia, e in particolare delle norme a tutela dell’editoria, ha trovato ampi consensi tra le associazioni degli editori. A leggere i toni trionfalistici della stampa l’impressione è che il consenso fosse unanime. Ma chi ha seguito le vicende della direttiva sa bene che esistono molte voci contrarie, al punto che l’Italia votò contro la Direttiva, voci che, purtroppo, non trovano praticamente spazio alcuno sui giornali.

E tra le voci critiche si può annoverare anche l’AGCM (Autorità Garante Concorrenza e Mercato) che nel suo parere (pag. 27 e ss.) ha evidenziato come “lo Schema di decreto in esame introduce, in recepimento delle disposizioni della citata Direttiva, previsioni che, oltre ad essere estranee – e pertanto - non conformi ai principi indicati dall’articolo 9 della Legge di delegazione (articolo 77, comma 1, Cost.), sono altresì idonee a restringere ingiustificatamente la concorrenza”.

Lo scopo della Direttiva, come ormai emerge chiaramente, è quello di bilanciare il potere della grandi aziende del web con quello delle aziende tradizionali, sia titolari dei diritti che editori. E in quest’ottica si è realizzato un diritto del tutto nuovo all’interno della normativa in materia di copyright. Questa nuova norma altera il regime vigente, in base al quale il responsabile di una violazione del diritto d’autore è chi carica online il materiale in violazione, mentre la piattaforma ha solo l’obbligo di rimuovere il contenuto una volta avvertita della violazione. È un diritto accessorio a favore degli editori, in base al quale essi dovranno autorizzare espressamente ogni ripubblicazione di una notizia. Quindi la riproduzione degli articoli degli “editori” sarà soggetta a una licenza, tranne nel caso in cui si tratti di estratti molto brevi, cioè “qualsiasi porzione di tale pubblicazione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità”, come definito nella legge di recepimento.

Leggi anche >> Perché l’accordo sulla Direttiva Copyright è pessimo

La legge di recepimento disegna un ruolo del tutto peculiare per l’Agcom. In particolare l’Agcom dovrà emanare un regolamento per l’individuazione dei criteri di riferimento per stabilire l’equo compenso. Se entro 30 giorni dalla richiesta di avvio dei negoziati tra le piattaforme e gli editori non si è raggiunto un accordo, sarà l’Agcom a valutare la conformità delle proposte, eventualmente anche indicando d’ufficio l’ammontare dell’equo compenso (ovviamente rimane la possibilità di impugnare la decisione dell’Agcom dinanzi alle sezioni specializzate del tribunale). L’Agcom vigilerà sull’adempimento dell’obbligo di informazioni a carico della piattaforme, che devono mettere a disposizione degli editori tutti gli elementi per una corretta valutazione dell’equo compenso. Infine, l’Agcom potrà imporre sanzioni in caso di inadempienza degli obblighi di informazione.

In sintesi il nuovo ruolo dell’Agcom prevede funzioni di assistenza negoziale o mediazione tra le parti (le parti sono gli editori e piattaforme, non certo i cittadini), di elaborazione linee guida e parametri di riferimento, e infine anche di decisione dei ricorsi proposti dalle parti private. In sostanza l’Agcom, pur non essendo dotata di requisiti di indipendenza e imparzialità propri dei giudici ordinari, assume parte del ruolo dei giudici, così spostando la regolamentazione del diritto d’autore in ambito amministrativistico.

In tal senso appare illuminante il parere dell’AGCM che, come detto, è parzialmente negativo in quanto la legge di recepimento introduce elementi non previsti dalla Direttiva e individua dei meccanismi negoziali che finiscono per limitare la libertà contrattuale degli operatori economici. Il riferimento è al ruolo dell’Agcom che in ultima istanza finirà per imporre le sue scelte alle parti. Secondo l’AGCM l’intervento pubblicistico incide sul funzionamento dei mercati. Tra l’altro i parametri utilizzabili per la definizione dell'entità dell’equo compenso sono parametri (es. durata dell’attività) idonei a determinare discriminazioni a favore degli editori incumbent rispetto a nuovi entranti nel mercato.

E infine, anche la definizione di “estratti molti brevi” appare generica e di difficile applicazione prativa, contribuendo all’incertezza del diritto.

L’AGCM rileva che le modalità di recepimento dell’articolo 15 in Italia non trovano riscontro in nessuna delle esperienze maturate in altri paesi che già hanno concluso l’iter di recepimento, e si trova in contrasto anche con le linee guida della Commissione europea (questo è con riferimento all’articolo 17).

Come funzionerà?

L’attuazione dell’articolo 15 in Italia è già iniziata, e abbiamo descritto le conseguenze e le implicazioni in un altro articolo al quale si rimanda:

Leggi anche >> Facebook e l’applicazione della Direttiva Copyright: cambiano le regole per le notizie

Conclusioni

Le criticità della Direttiva Copyright sono già state discusse in passato. Tuttavia, il recepimento negli Stati europei ha fatto emergere ulteriori problemi, il primo dei quali è che non ci sarà una effettiva armonizzazione delle norme in Europa, visto che ogni paese avrà una sua specifica implementazione. Questo in realtà non sembra un problema per editori e aziende del copyright, anzi la separazione dei mercati è un affare per chi negozia licenze, potendole moltiplicare. Sarà, invece, un problema per le piattaforme, che dovranno implementare diverse attuazioni a seconda degli Stati. In base alla impostazioni le piattaforme potrebbero trovarsi con contenuti da rimuovere in alcuni paesi e da non rimuovere in altri. Ad esempio, un contenuto dubbio e contestato dovrebbe essere oscurato immediatamente in Italia, ma rimarrebbe online in Germania.

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Altro problema è dato dall’emergere di una forte conflittualità tra i governi e le istituzioni europee, in particolare paesi come l’Italia recepiscono le norme in alcuni casi in contrasto con le linee guida della Commissione, e in altri casi andando oltre quanto previsto dalla Direttiva medesima. Emerge quindi l’intento di piegare il diritto d’autore a un obiettivo puramente economico, in un’ottica di restituzione ai vecchi intermediari (europei per lo più) di un maggiore potere nella contrapposizione con le piattaforme del web (per lo più americane). In tutto ciò risulta non pervenuto l’obiettivo di accrescere l’accesso alla cultura e alla conoscenza che, in fin dei conti, è il motivo per il quale nacque il diritto d’autore secoli fa. Alla fine il quadro che disegna la Direttiva Copyright è quello di monopoli imposti per la creazione o il mantenimento di rendite di posizione a scapito dei diritti dei cittadini in un gioco per caricare il peso delle vecchie industrie sulle nuove.

Leggi anche >> Tornano le proteste dei cittadini contro la direttiva copyright: in pericolo i nostri diritti

(Immagine anteprima via Wikimedia Commons)

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