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Le guerre culturali all’amatriciana del governo Meloni

15 Settembre 2023 7 min lettura

Le guerre culturali all’amatriciana del governo Meloni

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Giorgia Meloni non ha alcun dubbio: l’Ungheria è il modello da seguire – quanto meno sulla questione demografica.

Intervenendo il 14 settembre del 2023 al Budapest Demographic Summit – un convegno di estrema destra fortemente voluto dal premier ungherese Viktor Orban – la presidente del consiglio ha detto che in Ungheria “si è riusciti a fermare la tendenza in calo della natalità, sono aumentati i posti di lavoro, e anche l’occupazione femminile”.

In realtà, come ha dimostrato un’analisi di Balkan insight, Orban non è affatto riuscito a invertirlo stabilmente: se è vero che tra il 2010 e il 2021 il numero medio di figli per donna è salito da 1.2 a 1.59, nel 2022 è sceso a 1.51. Secondo le proiezioni dell’Istituto demografico ungherese, nel 2050 la popolazione ungherese è comunque destinata a scendere da 9.7 a 8.8 milioni di persone.

I risultati tangibili di Orban sono ben altri: la trasformazione del paese in un’autocrazia elettorale; il sistematico smantellamento delle istituzioni democratiche; la soppressione della libertà di stampa; e l’utilizzo strategico di teorie del complotto antisemite.

Tutto ciò non ha però trovato spazio nel discorso di Meloni. La quale, dopo lo sperticato elogio dell’alleato, ha detto allarmata che “viviamo in un’epoca in cui tutto quello che ci definisce è sotto attacco”, aggiungendo che “senza l’identità siamo solamente dei numeri, strumenti nella mani di chi ci vuole usare”.

Ma chi è che ci vuole usare? La politica non lo ha specificato, ma la platea ha colto perfettamente il riferimento: la “sinistra”, i “globalisti”, le “élite apolidi”, le “grandi concentrazioni economiche”, e più in generale i nemici della cristianità e della tradizione.

Contro di loro, ha chiosato Meloni, serve una “grande battaglia” per “difendere le famiglie, l’identità, Dio e tutte le cose che hanno costruito la nostra civiltà”.

In altre parole: serve una vera e propria guerra culturale – un concetto sempre più usato nel dibattito pubblico occidentale, e sempre più centrale nella propaganda della destra radicale europea e statunitense.

Dagli Stati Uniti all'Europa: cosa sono le “guerre culturali”

Le origini dell'espressione "culture war" risalgono all’inizio degli anni Novanta.

Nel 1991 il sociologo James Davison Hunter pubblica il saggio Culture wars. The struggle to control the family, art, education, law, and politics in America, introducendo il termine al grande pubblico.

Hunter sostiene che una “guerra culturale” non è un semplice disaccordo su questioni politiche e sociali: è piuttosto uno scontro tra visioni inconciliabili del mondo, una lotta tra due fazioni che vedono l’un l’altra come una minaccia esistenziale alla propria sopravvivenza.

Le “guerre culturali” sono combattute, prosegue il sociologo, su una o più “linee di frattura” – che possono essere aborto, matrimonio egualitario, razzismo, legislazione sulle armi e altri temi “polarizzanti”, che ovviamente cambiano in base al contesto storico e nazionale.  

Nel 1992 il termine irrompe per la prima volta sulla scena politica statunitense grazie a Pat Buchanan – un politico paleoconservatore, tre volte candidato alle primarie repubblicane nonché ex consulente di Richard Nixon e Ronald Reagan.

Parlando alla Convention repubblicana che si tiene a Houston, Buchanan afferma che “è in corso una guerra religiosa, una guerra culturale che è importante tanto quanto la Guerra fredda per definire la nazione che vogliamo essere, visto che si tratta di una guerra per l’anima dell’America”.

Il politico invita poi i conservatori ad “imbracciare retoricamente le armi” per “riprenderci le nostre città, riprenderci la nostra cultura e riprenderci il nostro paese”.

Come ha scritto il giornalista Dan Carson sullo Houston Chronicle, il discorso di Buchanan segna “l’inizio di una nuova era della politica americana” contraddistinta “dalle recriminazioni, dal panico morale e dalla demonizzazione della società secolare” – un’era destinata a lasciare un segno profondissimo, culminata decenni più tardi con l’elezione di Donald Trump.

Lo stesso Buchanan, in un’intervista del 2016, sostiene che il 45esimo presidente statunitense gli abbia letteralmente “rubato le idee”: dalla costruzione del muro al confine con il Messico fino alle “guerre culturali”, era tutta farina nel suo sacco.

Solo che all’epoca quelle idee erano del tutto marginali; mentre ora sono al centro del conservatorismo americano.

La battaglia contro la “cancel culture”, l’ideologia “woke” (un aggettivo che significa “risvegliato”, e viene utilizzato per denigrare le persone progressiste) e il “politicamente corretto” – solo per citare tre grandi spauracchi agitati negli ultimi anni – vede impegnati tutti i candidati presidenziali e tutti i media di destra, senza distinzioni di sorta; a riprova che ormai si tratta di una guerra totale, in cui non sono possibili compromessi di sorta con il nemico.

E si tratta pure di una guerra globale: anche la destra radicale europea ha adottato in pieno la retorica apocalittica della “guerra culturale”, adattandola ai contesti locali – incluso, per l’appunto, quello italiano.

Giorgia Meloni, la destra USA e le "guerre culturali"

Meloni ha sempre dimostrato una grande dimestichezza con il concetto, ben prima di arrivare a Palazzo Chigi.

Oltre ad aver collaborato con Steve Bannon (l’ex consigliere strategico di Trump) nel suo velleitario tentativo di federare i partiti di destra europei, la presidente di Fratelli d’Italia ha partecipato a più riprese alla CPAC (Conservative Political Action Conference, il più importante convegno dei conservatori americani) sia negli Stati Uniti che in Ungheria.

Nella sua autobiografia Io sono Giorgia, Meloni ha inoltre utilizzato termini trumpiani e complottisti come Deep State (“Stato profondo”) per indicare il presunto sistema occulto di potere di cui sarebbe complice la sinistra; parlato di “dittatura del politicamente corretto” da scardinare; e attaccato i “sacerdoti” del pensiero “liberal e globalista” che nega “il ruolo e il valore delle identità”.

Poco prima delle elezioni politiche del 2022, inoltre, aveva confermato di seguire da vicino il dibattito politico statunitense sul tema. “Guardando al Nord America”, aveva detto in un’intervista a La Voce di New York, “ci batteremo per la difesa dei simboli e dei monumenti che […] sono stati al centro di vergognose pratiche di ‘cancel culture’”.

Dopo l’affermazione elettorale, la promessa è stata mantenuta: il governo Meloni ha fatto della guerra culturale una delle sue cifre più visibili e distintive – con il supporto entusiasta della stampa di destra.  

Gli assi su cui si muove questo conflitto sono molteplici; qui di seguito elenco i più ricorrenti.

Anzitutto, c’è quello dell’identità italiana – che si declina in varie forme: quella nazionale, minacciata dall’esterno (i “burocrati di Bruxelles” e i loro folli regolamenti contro le automobili diesel) e dall’interno (i “disfattisti” che osano fare domande sui dati deludenti del turismo); quella religiosa, intaccata da “sedicenti nuove libertà o diritti”; e quella culinaria, insidiata dalle “bistecche sintetiche” e dagli insetti che le multinazionali e l’Unione Europea vogliono imporre in ossequio al “fanatismo ultra-ecologista”.

Poi c’è quello della famiglia – intesa solo ed esclusivamente nella sua accezione “naturale” – che è assediata dalla perfida “ideologia gender” e dall’onnipotente “lobby LGBT”, che vuole far crollare il tasso di natalità attraverso l’aborto e traviare i minori con, ehm, Peppa Pig.

Di fronte a un attacco così massiccio, non si può che rispondere per le rime: e dunque diventa doveroso negare il diritto all’aborto con varie misure legislative, e bloccare la registrazione all’anagrafe dei figli delle coppie omogenitoriali.

Un altro fronte particolarmente caldo – o meglio: sempre caldo – è quello dei confini. Anche in questo caso si parla di zone interne da “bonificare”, come Caivano (e chi avanza critiche sulle modalità è subito tacciato di complicità con la camorra); e di confini esterni da proteggere da chi vuole “sostituire etnicamente” il popolo italiano e chi compie “atti di guerra” organizzando gli sbarchi di migranti per “mettere in difficoltà il governo”.

Infine, la “guerra culturale” meloniana è quasi del tutto imperniata sull’opposizione del “pensiero unico” – un’espressione dai contorni vaghi e indefiniti, e quindi perfetta per essere strumentalizzata.

Secondo la narrazione della destra, completamente mutuata da quella statunitense, la libertà d’espressione sarebbe sostanzialmente preclusa a chi non si allinea ai dettami del “politicamente corretto” che, per riassumere brutalmente, vanno dal colore della pelle della Sirenetta fino alla legge Mancino contro i discorsi d’odio.

Chi dice o scrive certe cose (tendenzialmente razziste, omolesbobitransfobiche, misogine e sessiste) assurge così allo status di pensatore “non conforme” e conquista le stimmate di martire della censura – o della “nuova inquisizione spagnola”, come l’ha definita il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano.

Peccato che la censura sia del tutto inesistente, come hanno dimostrato in maniera piuttosto plateale le vicende del generale Roberto Vannacci e dell’ex presidente della Rai Marcello Foa, premiati rispettivamente con un'interminabile battage a reti unificate e con una trasmissione radiofonica da cui tuonare contro il “politicamente corretto”.

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Ed è proprio da questi casi che emerge il carattere vittimista e paradossale della “guerra culturale” italiana.

Ossia un conflitto del tutto immaginato, portato avanti da una destra che usa voracemente il potere per attaccare i nemici di turno e piegare la realtà alla propria propaganda, ma che al tempo stesso continua a dipingersi come una minoranza oppressa e indifesa.

Immagine in anteprima via Tuscia Web

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