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Perché le elezioni a Taiwan sono importanti

11 Gennaio 2024 13 min lettura

Perché le elezioni a Taiwan sono importanti

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Taiwan, Lai Ching-te eletto presidente

Aggiornamento 13 gennaio 2024: Lai Ching-te, candidato del DDP, è il nuovo presidente di Taiwan. Ma dopo 8 anni il suo partito perde la maggioranza parlamentare. Per gli equilibri parlamentari diventa decisivo Ko Wen-je del Partito popolare, che correndo da solo ha probabilmente favorito la vittoria di Lai alle presidenziali.

“L'economia, i prezzi delle case, l'educazione, la sicurezza. E poi l'identità nazionale”. Pei-yu, 26enne impiegata, elenca a Valigia Blu i temi che le stanno più a cuore in vista delle elezioni presidenziali e legislative di Taiwan. Il voto, in programma il 13 gennaio, è tra i più attesi del 2024. Forse mai come questa volta il mondo osserva con attenzione quanto accade a Taipei e dintorni: dopo anni di crescenti tensioni, la sensazione diffusa è che l'esito delle urne stabilirà non solo il futuro delle relazioni intra-stretto, ma anche gli equilibri in Asia-Pacifico e il rapporto tra Cina e Stati Uniti. 

Eppure, per Pei-yu e tanti altri taiwanesi non è Pechino la priorità assoluta del voto. “Ci servirebbe un presidente razionale e pragmatico, che si occupi dei problemi concreti”, dice il ragazzo che passeggia al suo fianco nel campus della National Taiwan University, la Tai Da come la chiamano da queste parti.

A sentire loro, e tanti altri giovani, le etichette apposte al voto dai due partiti tradizionali sembrerebbero non particolarmente efficaci. Il Partito progressista democratico (DPP, Minjindang), al potere dal 2016, definisce le elezioni una "scelta tra democrazia e autoritarismo" e suggerisce che in caso di vittoria dell'opposizione si andrebbe verso una “unificazione” con la Cina continentale. Il Partito nazionalista cinese (GMD, Guomindang) ritiene invece che si tratti di una "scelta tra guerra e pace", paventando il rischio di un'invasione qualora il DPP restasse al potere per altri quattro anni. Una linea, quest'ultima, appoggiata dal Partito comunista cinese (PCC) che potrebbe iniziare a considerare impossibile una "riunificazione pacifica" con la conferma del DPP. 

La vittoria di Lai Ching-te, attuale vicepresidente e candidato del partito tradizionalmente definito "filo indipendentista", darebbe in effetti un messaggio forte: sarebbe la prima volta che una forza politica ottiene un terzo mandato consecutivo. Non solo. Il DPP lo farebbe con un candidato ritenuto dai più come meno moderato della presidente uscente Tsai Ing-wen, bollato come un "secessionista radicale" da Pechino.

Come si arriva al voto

I taiwanesi sono noti per essere pragmatici. Secondo gli ultimi sondaggi della National Chengchi University sui rapporti intrastretto, condotti nel giugno 2023, circa l'88% sostiene lo status quo: né unificazione con la Repubblica Popolare Cinese, né dichiarazione di indipendenza formale. Tendono dunque a privilegiare leader che danno una prospettiva di stabilità e che sono dotati di una caratteristica ritenuta fondamentale: la prevedibilità. Una qualità peculiare di Tsai, ma che Lai non sempre ha mostrato di possedere. Al quadro disegnato dai sondaggi vanno aggiunti il risultato delle elezioni locali del novembre 2022, con una batosta di proporzioni storiche per il DPP che ha conquistato appena 5 municipalità su 22, nonché una naturale stanchezza e un certo malcontento per alcune politiche del governo, a partire da quelle economico-sociali. 

Consapevole delle difficoltà del partito a lei più inviso, la Cina ha adottato una strategia parzialmente diversa rispetto a quella del 2019, nell'anno precedente alle ultime elezioni presidenziali del 2020. In quell'occasione Pechino aveva assunto una linea molto aggressiva. Sul fronte militare, regolarizzando le manovre di jet e navi all'interno dello spazio di identificazione di difesa aerea di Taipei. Sul fronte politico e retorico, Xi Jinping pronunciò il suo discorso più duro ed elaborato su Taiwan. Il 2 gennaio 2019, nel 40esimo anniversario del primo messaggio ufficiale della Cina continentale ai "compatrioti taiwanesi" del 1979 (subito dopo l'avvio delle relazioni diplomatiche con gli USA), il presidente cinese affermò che la “questione” non poteva essere “tramandata di generazione in generazione” e che lo status quo si poggiava su un processo “irreversibile” verso la “riunificazione”. Prospettando ai taiwanesi un futuro basato sul modello di “un paese, due sistemi”, lo stesso di Hong Kong. Pochi mesi dopo quel discorso, nell'ex colonia britannica partì la dura repressione delle proteste di massa che ha di fatto portato alla cancellazione dell'opposizione politica e civile, col sostanziale “prepensionamento” dell'autonomia di Hong Kong. Tutto ciò favorì in modo decisivo la vittoria del DPP e la riconferma di Tsai.

Memore di quanto accaduto quattro anni fa e consapevole che più mostra i muscoli e più tradizionalmente i taiwanesi se ne allontanano, Pechino ha provato a cambiare approccio in vista del voto del 13 gennaio. Dopo le vaste esercitazioni dello scorso aprile, in risposta al doppio transito di Tsai negli USA e il suo incontro con l'ex presidente del Congresso americano Kevin McCarthy, non sono state messe in atto fin qui azioni particolari sul fronte militare. Certo, più facile evitarlo con il “new normal” imposto dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi, con l'Esercito popolare di liberazione che ha ulteriormente aumentato la propria presenza sullo Stretto e al di là della "linea mediana", confine non riconosciuto ma ampiamente rispettato fino ad agosto 2022. Ma le “occasioni” per dare nuove prove di forza non sono state colte, su tutte il doppio transito negli USA dello stesso Lai, avvenuto lo scorso agosto. Al basso profilo mantenuto da Lai e dall'amministrazione statunitense durante la visita, ha fatto seguito una risposta molto contenuta cinese, limitata a una giornata con un numero più elevato di "incursioni" aeree rispetto alle settimane precedenti. A una decina di giorni dalle urne, però, sono apparsi quattro palloni aerostatici sopra Taiwan. Il ministero della Difesa di Taipei ha affermato che si trattava di palloni "meteorologici", ma a molti è sembrato un potenziale test. Nell'estate del 2022, l'esercito taiwanese ha chiarito che qualsiasi manovra di velivoli all'interno dello spazio aereo sarebbe stato trattato come un "attacco". Pochi giorni dopo, è stato abbattuto un drone civile senza pilota mentre volava su Kinmen, piccolo arcipelago a pochi chilometri dalla città cinese di Xiamen ma amministrato da Taipei. Pechino aveva archiviato rapidamente il caso, avvertendo però che in caso di danni arrecati a mezzi militari o statali ci sarebbe stato il rischio di una crisi. 

Perché Taiwan è così importante per la Cina (e per gli USA)

Sul piano retorico, nel suo discorso di fine anno, Xi ha ribadito che la “riunificazione” è una “necessità storica”. Non certo una novità, tanto che l'affermazione è stata largamente ignorata dai taiwanesi. Significativa è stata, però, l'assenza di un nuovo discorso su Taiwan in occasione dell'anniversario del 2 gennaio, anche stavolta numero tondo (45esimo), con Xi che ha preferito lasciar parlare un funzionario di più basso livello.

Maggiori sforzi, invece, sul fronte economico. A settembre, il Comitato centrale del Partito comunista cinese e il Consiglio di Stato hanno pubblicato congiuntamente un documento di pianificazione contenente 21 punti specifici per trasformare la provincia del Fujian in una zona dimostrativa per lo “sviluppo integrato” con Taiwan. Il Fujian è la provincia meridionale che si affaccia sullo Stretto e da cui provengono gran parte degli antenati degli abitanti di Taiwan, che ancora oggi hanno spesso diversi parenti o amici che vivono o lavorano nel Fujian. I 21 punti del documento includono programmi per espandere i legami sociali, culturali ed economici tra Taiwan e il Fujian e l'impegno a creare un ambiente politico più “rilassato”, in modo che le persone di Taiwan possano facilmente recarsi o lavorare e risiedere nel Fujian. I residenti taiwanesi non dovranno più registrarsi per la residenza temporanea nel Fujian e saranno inclusi nello schema del welfare locale, compresi l'assistenza sanitaria e l'accesso ai servizi per i cittadini. Come sempre, alla carota viene accompagnato il bastone, visto che nelle settimane seguenti è stata paventata la costruzione di ponti tra il Fujian e gli avamposti taiwanesi di Kinmen e Matsu, nonché di una linea ferroviaria tra le coste cinesi e l'isola principale di Taiwan. Una prospettiva che a Taipei viene vissuta come un piano di inglobamento più che di integrazione.

Nonostante l'assenza di dialogo politico, la Repubblica Popolare resta il primo partner commerciale di Taiwan, a sua volta con un ruolo importante per l'economia di Pechino anche sotto il profilo tecnologico, visto il dominio dei colossi di Taipei nel comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip (ne parlavamo in questo articolo). 

Il colpo mortale all’industria dei semiconduttori inflitto dagli Usa alla Cina

A tre settimane dal voto, invece, Pechino ha annunciato la sospensione delle riduzioni tariffarie previste per 12 categorie di prodotti taiwanesi tutelati fin qui da un accordo commerciale firmato nel 2010 col governo dialogante di Ma Ying-jeou. Poco dopo ha però revocato il divieto di importazione di pesce, confermando un approccio sfaccettato, mirato a ricordare i “rischi” militari ed economici della vittoria del DPP e i possibili benefici di un riavvicinamento che potrebbe potenzialmente garantire un ritorno al potere del GMD.

Chi sono i candidati

Tenendo presente tutti questi elementi, verrebbe da pensare che il DPP farà fatica a vincere le elezioni. E invece, il suo candidato Lai è considerato il favorito. La sua vittoria non è scontata, ma tutti i sondaggi pubblicati prima dell'inizio del periodo di silenzio elettorale, cominciato il 3 gennaio, lo davano in testa con un vantaggio che variava da un minimo di tre a un massimo di dieci punti. A favorire Lai sono intervenuti due fattori: l'emersione di un terzo incomodo serio per le presidenziali, tanto da avere ambizioni di vittoria, e successivamente la rottura dell'alleanza tra i due candidati dell'opposizione. 

Il “terzo incomodo” in questione è Ko Wen-je, leader e fondatore del Partito popolare di Taiwan (TPP, Minzhondang in cinese mandarino). Ex medico ed ex sindaco di Taipei, si presenta come una "terza via" in grado di scardinare lo storico bipolarismo della politica taiwanese. Ko insiste sulla sua carriera non politica come punto di forza e si definisce come una voce pragmatica e anti ideologica. Ingredienti che lo hanno reso popolare soprattutto presso l'elettorato più giovane, da tempo a caccia di novità e disilluso dopo che l'attivismo del "movimento dei girasoli" del 2014 è stato di fatto assorbito e normalizzato dall'esperienza di governo del DPP. Restano però inevasi e irrisolti molti dei temi per cui i giovani di un decennio fa scendevano in piazza contro il GMD: salari bassi, prezzi delle case alti, impossibilità a costruirsi un futuro e una famiglia. 

Dopo mesi di indiscrezioni, il 15 novembre Ko aveva accettato un accordo col GMD per un candidato unico alle presidenziali e una coalizione alle legislative. Uno sviluppo che sembrava rendere pressoché certa la vittoria dell'opposizione. Ma ad appena 24 ore dalla scadenza del 24 novembre per la presentazione ufficiale delle candidature, l'intesa è naufragata. Ufficialmente, perché non è stato trovato un accordo sul candidato presidente. In realtà, secondo quanto raccontano diverse fonti sentite da Valigia Blu al corrente del contenuto dei colloqui, Ko avrebbe “semplicemente” cambiato idea sulla possibilità di fare da vice al candidato del GMD. Rinunciando forse a una posizione di potere per i prossimi quattro anni, ma tenendosi aperta una porta per una eventuale vittoria nel 2028. Tra le proposte principali di Ko c'è quella di una riforma del sistema presidenziale, con l'elevazione del ruolo del Primo Ministro e dello yuan legislativo, il parlamento unicamerale.

Su tanti altri temi c'è una sostanziale comunione di vedute col GMD, il cui candidato è Hou Yu-ih, ex poliziotto e attualmente sindaco di Nuova Taipei. Uno di questi temi è l'energia: entrambi i candidati dell'opposizione sono a favore del mantenimento delle tre centrali nucleari attualmente operative e chiedono anzi l'apertura di nuove centrali. Il DPP segue invece la sua tradizionale linea di no al nucleare, sbandierando il risultato di un referendum del 2018 e reiterando il suo obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica attraverso una transizione basata sulle rinnovabili. Non abbastanza secondo GMD e TPP, che sottolineano inoltre la grande dipendenza di Taiwan dalle fonti importate. Un rischio per la sicurezza, amplificato dalle esercitazioni cinesi dell'agosto 2022 che hanno simulato un blocco navale. Nell'ipotesi di un isolamento reale, nel giro di tre settimane le riserve energetiche potrebbero essere già sulla strada dell'esaurimento. Hou fa leva sulla sua carriera passata per cavalcare il tema della sicurezza, mentre insieme a Ko critica il DPP per la mancata soluzione della questione abitativa e attacca il candidato di maggioranza per una presunta proprietà immobiliare di famiglia non dichiarata. 

Lai punta invece, come sempre fatto dal DPP, sull'elemento identitario. Non a caso lo slogan ufficiale della sua candidatura è "team Taiwan", che correda anche le divise ufficiali della sua squadra. Il vicepresidente ha passato tutta la campagna a descriversi in perfetta continuità con Tsai in materia di politiche intrastretto. Obiettivo: convincere gli elettori, ma anche Washington e forse Pechino, che non farà colpi di testa. Ergo, non farà passi verso la dichiarazione di indipendenza formale. Nei suoi otto anni al potere, Tsai ha parzialmente rivisto la tradizionale posizione del DPP, richiamandosi alla cosiddetta "teoria dei due Stati" formulata da Lee Teng-hui prima del suo ritiro. Secondo il primo presidente taiwanese eletto democraticamente nel 1996, e secondo Tsai, a Taiwan non serve una dichiarazione di indipendenza formale perché è de facto già indipendente, seppure come Repubblica di Cina. Va dunque tutelato lo status quo. 

Rispetto a quanto sostenuto dal GMD, il DPP non riconosce però il consenso del 1992, un accordo di principio tra le due sponde dello Stretto secondo cui esiste una sola Cina di cui Taiwan fa parte, pur senza stabilire quale. Si tratta di quello che il GMD chiama “unica Cina, diverse interpretazioni”. Una sorta di reciproca “tolleranza” della rispettiva esistenza e amministrazione sul continente (da parte di Pechino), Taiwan, Kinmen e Matsu (da parte di Taipei), in attesa di trovare una soluzione futura. Un artefatto concettuale che, complici le crescenti tensioni con gli USA e il governo del DPP, inizia ad andare stretto a Xi, il quale comunque il consenso del 1992 la base di qualsiasi forma di dialogo con Taipei. 

Il DPP non riconosce questa base di partenza e si dice pronto al dialogo, ma “senza precondizioni”, chiedendo di fatto a Pechino di riconoscere la realtà dell'esistenza di “due entità non interdipendenti l'una dall'altra”. Una posizione giudicata già “secessionista” dal Partito comunista, così come quelle di tutti i candidati alla presidenza secondo quanto affermato da Lai, ma che ha una sua versione più radicale: la richiesta di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Un'aspirazione che Lai aveva suggerito di avere in passato e che lo aveva portato a scontrarsi con la corrente più moderata del DPP guidata da Tsai, tanto che il partito rischiò la scissione dopo la sconfitta alle elezioni locali del 2018. Per favorire il ricompattamento, Tsai promise a Lai la vicepresidenza per il suo secondo mandato: di fatto, l'anticamera della candidatura presidenziale. 

Dal 2019 in poi, Lai ha profondamente smussato la sua retorica allineandosi a Tsai. Ma rispetto alla presidente uscente utilizza molte meno volte il nome ufficiale di Repubblica di Cina nei suoi discorsi. La differenza la si nota anche sui rispettivi profili social. Tsai si definisce “presidente della Repubblica di Cina (Taiwan)”. Lai, invece, si descrive come “vicepresidente di Taiwan R.O.C.”. Dettagli che possono sembrare piccoli, ma che in una situazione delicata e complessa come quella taiwanese diventano rilevanti. Non è un caso che Lai abbia scelto Hsiao Bi-khim come sua vice. Vicinissima a Tsai, per alcuni addirittura sua confidente, Hsiao è stata fino a novembre la rappresentante di Taipei negli Stati Uniti. La sua nomina può servire anche e soprattutto a rassicurare Washington, che secondo alcuni conosce bene e si fida di Hsiao ma che non ha apprezzato alcune uscite di Lai. Come quando espresso il desiderio che in futuro il presidente taiwanese possa entrare alla Casa Bianca. Una speranza che significherebbe l'avvio di relazioni diplomatiche ufficiali, dunque il superamento della linea rossa di Pechino. 

Gli scenari post voto

La possibile, o probabile, vittoria di Lai pare destinata ad aprire una nuova fase di turbolenze sullo Stretto. Secondo diversi osservatori, Pechino potrebbe mostrare il suo disappunto aumentando la pressione militare su Taiwan. Oltre a nuove esercitazioni, una delle ipotesi per il post voto è l'incursione di un drone militare nello spazio aereo di Taipei: per la prima volta un velivolo armato di Pechino supererebbe il limite delle 12 miglia nautiche dalle coste dell'isola principale. Possibile anche l'avvio di una serie di ispezioni delle navi che si muovono lungo lo Stretto, una mossa forse meno visibile dalla comunità internazionale rispetto al lancio di missili balistici o ai blocchi navali, ma con effetti molto concreti sullo status quo. Le azioni più rilevanti potrebbero verificarsi soprattutto durante la fase di transizione e a cavallo dell'insediamento del nuovo presidente, prevista per il 20 maggio, più che nell'immediato post voto.

La presidenza Lai rappresenterebbe anche una complicata sfida alla stabilizzazione dei rapporti tra Cina e Stati Uniti, obiettivo proclamato da Xi e Joe Biden durante il recente summit di San Francisco. L'aumento della pressione militare di Pechino porterebbe Washington ad accelerare ulteriormente la vendita e l'invio di armi a Taipei, col DPP che si dice pronto al dialogo con Pechino ma allo stesso tempo ritiene che la deterrenza passa attraverso un rafforzamento delle proprie difese. L'opzione della “riunificazione attraverso l'uso della forza” non sarebbe forse inevitabile, ma certamente Xi non vuole farsi trovare impreparato. Anche in tal senso va forse letta la recente nomina a ministro della Difesa di Dong Jun, ex comandante della Marina con esperienza nel teatro orientale dell'esercito, quello che ha in carico Taiwan. Al suo posto è arrivato Hu Zhongming, con esperienza nel settore dei sottomarini, pochi mesi dopo che Taipei ha varato il suo primo sottomarino autoctono.

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Una vittoria di Hou potrebbe invece portare a una drastica riduzione delle tensioni, quantomeno nel breve periodo. Il GMD si propone di riavviare tutta una serie di accordi commerciali, culturali e turistici. Ma anche nel principale partito di opposizione sanno che non è possibile tornare alla grande distensione dell'era Ma, culminata con il primo storico incontro tra i leader delle due sponde nel 2015 a Singapore. Con Hou presidente, Xi ridurrebbe il pressing militare ma potrebbe alzare quello politico, cercando un accordo che nemmeno il GMD (che rifiuta “un paese, due sistemi”) sarebbe intenzionato a concedere. La possibile affermazione di Ko porterebbe invece ancora più incognite, visto che il leader del TPP non si è mai espresso chiaramente sul “consenso del 1992”, anche se in passato ha affermato che Taiwan e Cina continentale appartengono alla “stessa famiglia”. A preoccupare qualche taiwanese c'è la sensazione che Ko abbia una limitata capacità negoziale. Basti pensare che per giustificare il suo imprevisto accordo (poi rimangiato) col GMD, aveva spiegato di essersi sentito messo “sotto pressione” dagli interlocutori del partito. Difficile capire come potrebbe reggere un ipotetico negoziato con Pechino.

Attenzione poi all'esito delle elezioni legislative. Secondo quanto risulta a Valigia Blu, né il DPP né il GMD si aspettano di ottenere la maggioranza assoluta. Ciò significa che il TPP potrebbe giocare un ruolo decisivo sugli equilibri politici dei prossimi quattro anni. Ma, soprattutto, l'ipotetica presidenza Lai potrebbe essere azzoppata sin dall'inizio. Con una serie di conseguenze e ostacoli sulla strada di alcune riforme, a partire da quelle in materia di difesa. Uno scenario che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe cercare di far leva sulle divisioni interne, presentando allo stesso tempo Lai come una sorta di "usurpatore" che governa con una minoranza e col consenso di poco più di un taiwanese presentatosi alle urne su tre. In una democrazia, potrebbe accadere anche questo.

Immagine in anteprima: frame video NHK World Japan via YouTube

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