Fuori da qui Post

Il “conflitto” Cina Taiwan e cosa vogliono i taiwanesi

24 Aprile 2023 8 min lettura

Il “conflitto” Cina Taiwan e cosa vogliono i taiwanesi

Iscriviti alla nostra Newsletter

7 min lettura

Taiwan, Repubblica di Cina. O Repubblica di Cina, Taiwan. A Taipei e dintorni, scelte lessicali e ortografiche celano spesso una sfumatura identitaria. Come si capisce già dal suo nome bifronte, non esiste una sola Taiwan. C'è quella di Tsai Ing-wen e del Partito progressista democratico (DPP), per cui la virgola va sempre davanti a "Repubblica di Cina", il nome con cui Taiwan è indipendente de facto. E poi c'è quella di Ma Ying-jeou e del Guomindang (GMD), per cui la virgola va sempre davanti a Taiwan, immaginata ancora come un segmento di un territorio nazionale che comprenderebbe anche la Cina continentale. 

Nelle scorse settimane, le due concezioni sono emerse in tutta la loro evidenza con due visite avvenute in contemporanea. Entrambe, per motivi diversi, storiche. La presidente Tsai ha effettuato un doppio scalo negli Stati Uniti, nell'ambito di un più ampio viaggio in America centrale. Ci sono diversi precedenti in passato, ma mai un leader taiwanese aveva incontrato su suolo americano una carica tanto alta come lo speaker del Congresso. Stavolta, col faccia a faccia tra Tsai e Kevin McCarthy alla Ronald Reagan Library nella Simi Valley, è accaduto.

L'ex presidente Ma, predecessore di Tsai, si è invece recato in Cina continentale. È la prima volta che un leader o ex leader taiwanese mette piede sul territorio amministrato dalla Repubblica Popolare dal 1949, cioè dalla sconfitta di Chiang Kai-shek nella guerra civile contro Mao Zedong. Nel 2015, Ma è stato anche il primo e unico presidente taiwanese in carica a tenere un colloquio diretto con un omologo continentale, durante l'incontro con Xi Jinping a Singapore.

Così come la forma del viaggio di Tsai rientra nella cosiddetta "diplomazia del transito" tra Taipei e Washington (che risolve in maniera creativa l'impossibilità di visite di Stato in assenza di relazioni diplomatiche ufficiali), il tour di Ma è stato descritto come "privato" e spinto da motivazioni "culturali". Con lui c'erano circa una trentina di studenti taiwanesi legati alla sua fondazione, protagonisti di tre incontri con colleghi cinesi di diverse università "continentali". Eppure, Ma ha incontrato due volte Song Tao, neo direttore dell'Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato di Pechino. 

Mentre Tsai parlava con McCarthy di una democrazia "minacciata" da "sfide senza precedenti", dichiarando che "Taiwan è grata di avere gli Stati Uniti al suo fianco", Ma affermava da Nanchino (che durante il suo doppio mandato veniva ancora indicata come capitale della Repubblica di Cina sui libri scolastici) che le persone su entrambe le sponde dello Stretto sono "etnicamente cinesi e condividono gli stessi antenati".

Due istantanee per capire la distanza tra Tsai e Ma, così come tra i segmenti di DPP e GMD che rappresentano. Non solo sul fronte politico, ma anche identitario. Un solco più profondo di un mero posizionamento strategico tra Stati Uniti e Repubblica Popolare. Per Ma e il GMD l'alterità rispetto alla Cina continentale è di tipo politico. Il partito che fu di Sun Yat-sen e Chiang continua a reiterare la validità del cosiddetto "consenso del 1992", un controverso accordo tra GMD e Partito Comunista Cinese (PCC) che riconosce l'esistenza di una "unica Cina", pur senza stabilire quale. È il principio che GMD definisce "una Cina, diverse interpretazioni". Sostanzialmente, un accordo di essere in disaccordo e una presa d'atto della divisione attuale con l'auspicio un giorno di riunirsi. Sotto quale egida, lo si vedrà più avanti. Sfumatura via via erosa dal PCC che descrive il "consenso del 1992" di fatto come il riconoscimento da parte taiwanese di essere parte del territorio cinese. Ergo, della Repubblica Popolare, visto che tutti i paesi al mondo tranne 13 la ritengono la "Cina legittima".

Per Tsai e il DPP invece il senso di alterità non è solo politico, ma anche culturale e identitario. L'attuale presidente non può in realtà essere definita indipendentista in senso stretto. Non è mai stata a favore di una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan che avverrebbe tra l'altro dalla Repubblica di Cina e non dalla Repubblica Popolare. Secondo Tsai, non c'è bisogno di un passo così drastico perché Taiwan è già indipendente de facto come Repubblica di Cina. Un'entità che però non percepisce come interdipendente con la Cina continentale. Da qui, il mancato riconoscimento del "consenso del 1992" che Pechino fissa come prerequisito al dialogo.

Questa distanza non solo politica, ma pure identitaria, deriva anche da una serie di vicissitudini storiche. A partire dalla dichiarazione d'indipendenza del 1895, quando Taiwan e le isole Penghu vengono consegnate dai Qing all'impero giapponese potenza coloniale. La capitale è Tainan, a oggi fulcro del sentimento identitario taiwanese e roccaforte del DPP. L'esperienza dura solo cinque mesi, poi il Giappone seda la rivolta. Ancora di più incide il metodo di governo del GMD, che entra in possesso di Taiwan e Penghu alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per i nazionalisti, i taiwanesi sono soprattutto collaborazionisti dell'Impero giapponese e vengono subito esclusi dalle cariche apicali della vita politica e pubblica. Tante imprese vengono confiscate e consegnate a imprenditori continentali legati al partito. Le proteste sono soffocate nel sangue dall'amministrazione di Chien Yi. Col cosiddetto "incidente del 28 febbraio del 1947" e quanto ne segue i leader della rivolta e le élite locali vengono massacrati. Inizia l'epoca del "terrore bianco" e della legge marziale, abolita solo nel 1987. Per oltre quattro decenni, il GMD trasferitosi con tutto il suo apparato statale e militare a Taiwan è il partito unico. È qui che si crea la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han. Una divisione e una tensione intraetnica che getta i semi del nazionalismo taiwanese e dello sviluppo di un'identità "altra" rispetto a quella cinese.

Perché Taiwan è così importante per la Cina (e per gli USA)

Divisione e tensione molto sopite oggi, dopo l'avvento della figura chiave di Lee Teng-hui (primo presidente democraticamente eletto e primo leader nato a Taiwan) e con il consolidamento della democratizzazione. Nel frattempo, il DPP ha contribuito a forgiare un'identità "altra" rispetto a quella cinese. Chen Shui-bian, presidente dal 2000 al 2008, cambia la denominazione di aziende e luoghi pubblici. Vengono rivisti i testi scolastici che fin lì insegnavano la storia e la geografia della Cina continentale. Per la prima volta vengono affrontati pubblicamente gli orrori del terrore bianco, con rivalutazione in negativo della figura di Chiang Kai-shek anche nella narrazione mainstream

Pur se con sfumature diverse e con minore imprevedibilità, lo stesso processo è tornato a verificarsi con l'avvento di Tsai. Nei sette anni dalla sua elezione del 2016, il governo ha usato con maggiore convinzione due diversi canali: avanzamento dei diritti civili e produzione culturale. Sui diritti, l'episodio più significativo è senz'altro la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, avvenuta nel 2019: i primi in Asia a compiere questo passo. La decisione ha proiettato con maggiore convinzione Taiwan nell'orbita delle democrazie internazionali e aumentato il suo soft power anche con una indiretta contrapposizione nei confronti della Repubblica Popolare. Molti film e serie televisive taiwanesi degli ultimi anni hanno raccontato storie legate alla comunità LGBTQ+. Mentre il governo ha incentivato e sostenuto finanziariamente produzioni come la serie Seqalu – Formosa 1867 (uscita su Netflix a fine 2021), in cui si pone l'accento sulle diverse vicissitudini storiche e si sottolinea la varietà etnica e culturale dell'isola. 

A fine 2022, secondo i dati annuali della National Chengchi University, il 60,8% degli abitanti si percepisce come "solo taiwanese". Quando sono iniziate le rilevazioni nel 1992, era il 17,6%. In 30 anni chi si identifica come "solo cinese" è passato dal 25,5% al 2,7%. C'è comunque ancora un 32,9% che si definisce "sia taiwanese sia cinese". Si tratta quindi un 35% circa di popolazione che si identifica ancora come "cinese". Questo non significa che più di un taiwanese su 3 voglia la "riunificazione" (o "unificazione" come la chiamano a Taipei), ma il senso di appartenenza culturale (se non politico) alla sfera cinese fa emergere anche la seconda ragione per cui nemmeno il DPP ha sinora mai davvero voluto procedere a una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan: oltre all'ovvio timore di un'azione militare di Pechino per il superamento della famigerata "linea rossa", c'è anche la consapevolezza che sul fronte interno la società non è ancora pronta a un passo del genere. Se non a patto di rinfocolare forti tensioni ora attenuate.

D'altronde, la stragrande maggioranza dei taiwanesi vuole il mantenimento dello status quo. Sempre secondo le ultime rilevazioni della National Chengchi e relative a fine 2022, ben l'88,6% degli intervistati è a favore dello status quo. Pur con diverse sfumature: il 28,7% vuole lo status quo e decidere successivamente (rimandando dunque un momento decisivo che dovrà comunque prima o poi arrivare), il 28,5% vuole invece lo status quo a tempo indefinito (negando dunque la necessità di una resa dei conti tra "unificazione" o "indipendenza"). Il 25,4% sceglie invece lo status quo "andando verso l'indipendenza", il dato più cresciuto rispetto all'8% della prima rilevazione del 1994. Il 6% invece vuole lo status quo "andando verso l'unificazione". In questo caso, il dato si è dimezzato dopo il 2019 e i fatti di Hong Kong, uno spartiacque al momento cruciale. Vedere andare sostanzialmente in frantumi il modello "un paese, due sistemi" (lo stesso che nei piani di Pechino andrebbe applicato anche a Taiwan) è stato per molti un punto di non ritorno sulla possibilità di immaginare una futura unione con la Repubblica Popolare. 

Fatti che hanno favorito in maniera decisiva la vittoria di Tsai alle presidenziali del 2020 e che hanno portato per una breve parentesi anche il GMD a interrogarsi sull'opportunità di continuare a sostenere o meno il "consenso del 1992". Una parentesi poi conclusa con la restaurazione di Eric Chu, tornato presidente del partito nell'autunno del 2021. Molto residuali la percentuali di chi vuole l'indipendenza "il più presto possibile" (4,6%) e l'unificazione "il più presto possibile" (1,2%).

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Risposte, dunque, piuttosto compatte che, tra le pieghe, celano comunque sentimenti identitari piuttosto diversi, riportati in superficie dalla doppia visita di Tsai e Ma. Nessuno dei due, comunque, sarà un attore protagonista delle elezioni in programma nel gennaio 2024. E nessuno dei due interpreta in pieno il sentimento dei rispettivi partiti. Il candidato del DPP sarà William Lai, figura più radicale dell'attuale presidente. Nel 2019 le correnti capitanate dall'uno e dall'altra sono arrivate a un passo dalla scissione. In passato Lai aveva fatto affermazioni, queste sì, indipendentiste. Salvo smussare la sua retorica una volta diventato vicepresidente. Scelta che conta poco per Pechino, che lo ritiene una figura più imprevedibile di Tsai. Lo stesso anche per un segmento di taiwanesi, in attesa di capire chi sarà il candidato del GMD. Il favorito sembra il popolare ex poliziotto e sindaco di Nuova Taipei, Hou Yu-ih, mai sbilanciatosi su temi identitari e intra-stretto. Già venuto allo scoperto sulle intenzioni di candidatura Terry Gou, il patron della Foxconn, principale fornitore di iPhone per Apple. Gou ha enormi interessi in Repubblica Popolare ma è anche vicino a Donald Trump, che l'ha ricevuto alla Casa Bianca nel 2019. Ma piace meno all'opinione pubblica taiwanese. 

Il voto del 2024 è stato già bollato in maniera antitetica dai due partiti principali. Ma ha parlato di scelta tra "guerra e pace", dove ovviamente la vittoria del DPP potrebbe portare secondo l'ex presidente a un conflitto sullo Stretto. Lai ha risposto definendola invece una scelta tra "totalitarismo e democrazia", alludendo al fatto che un'eventuale vittoria del GMD porterebbe a una "riunificazione". Quasi nove taiwanesi su dieci, invece, sperano che entrambi abbiano torto. E che continuino a contare le sfumature.

Immagine in anteprima: Frame video BBC

Segnala un errore