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Donne e scienza: storie da raccontare

4 Gennaio 2020 12 min lettura

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Donne e scienza: storie da raccontare

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di Tiziana Metitieri e Sonia Mele*

Siamo su uno dei palchi più famosi degli Stati Uniti e una giovane intrattiene il pubblico con indosso un camice bianco e occhialoni in plexiglass trasparenti a protezione dei suoi bellissimi occhi. Si avvicina a un tavolo e da tre beute (ndr, il recipiente con base tronco-conica e collo cilindrico usato frequentemente nei laboratori chimici) fuoriesce un’esplosione di colori: schiuma blu, poi verde e poi rossa.

È l’esperimento chiamato comunemente “dentifricio dell’elefante”: sfruttando la decompressione catalitica del perossido di idrogeno si ottiene un effetto scenografico di grande impatto visivo. La scienziata è la nuova Miss America, Camille Schrier, 24 anni, due lauree, una in biochimica e una in biologia e l’inizio di un dottorato in farmacia. Dal 2018 il concorso di bellezza ha cambiato i criteri di valutazione, togliendo la prova in costume da bagno e quella basata solo sull’aspetto fisico.

Così Camille Schrier ha portato il suo talento, la biochimica, ed è stata incoronata prima Miss Virginia e poi Miss America: «Le altre si mettevano in fila per la competizione di talento con le scarpette e i microfoni per cantare e ballare, mentre io mi sono presentata con le provette e il camice da laboratorio. A volte quelle che sembrano debolezze possono diventare i tuoi punti di forza. Per questo voglio che accettiate quel che vi rende diversi e voglio che facciate esattamente ciò che vi piace fare», ha dichiarato Schrier in un'intervista. «Sono così orgogliosa di rompere gli stereotipi su chi può diventare Miss America» e di dimostrare che «Miss America può essere una scienziata e che una scienziata può diventare Miss America». Il suo messaggio finale, durante l'esibizione al concorso per diventare Miss America è stato di tenere «sempre gli occhi aperti perché la scienza è davvero sempre intorno a noi».

In un'altra intervista Schrier ha spiegato di essere stata motivata nella sua carriera scientifica dalla condizione genetica che le è stata diagnosticata all’età di 11 anni, la sindrome di Ehlers-Danlos, una malattia ereditaria del tessuto connettivo che coinvolge la cute, i tessuti e le articolazioni, che non ha attualmente una terapia. Ora prenderà un anno sabbatico e si dedicherà alla divulgazione della scienza nelle scuole e all’educazione all’uso dei farmaci, inclusi gli oppioidi, per prevenirne l’abuso.

La sfida rimane aperta. Ci ricorderemo di lei in quanto Miss America, o per la sua carriera accademica?

Al momento la scienza non è in grado di prevedere il futuro e questa domanda rimarrà inevasa, ma possiamo dare uno sguardo al passato e cercare di dare una risposta.

Supponiamo di pensare, per gioco, a dieci nomi di scienziati in un minuto: facile, Einstein, Marconi, Fermi, Turing, Dulbecco, Golgi, Pascal, Tesla, Newton, Gauss. E la lista continuerebbe facilmente senza fermarsi a dieci. E per le donne? Probabilmente la lista comincerebbe con Montalcini, Hack, Curie, con qualche tentennamento forse verrebbe in mente Lovelace e il minuto scadrebbe senza aver completato la lista dei dieci nomi. Ma è proprio così? Le donne non hanno raggiunto traguardi di rilievo in campo scientifico? O sono semplicemente soggette all’oblio?

Nel 2018 è stato commissionato un lavoro per dipingere sul muro dello Spallanzani di Roma i volti di tredici scienziati che hanno rivoluzionato la medicina, che hanno fatto la differenza nella ricerca delle malattie infettive: tutti uomini. Dove sono le donne? Ci chiediamo, dove sia, per fare un esempio, Dorothy Crowfoot Hodgkin? Sintetizzò vari antibiotici fondamentali per la cura delle malattie infettive e riuscì a determinare la struttura della penicillina. Nel 1964 vinse anche il Nobel per la chimica. Nonostante abbia raggiunto traguardi notevoli non sembra aver diritto di essere raffigurata sulla Hall of fame dello Spallanzani.

La donna è stata molte volte giudicata per il suo aspetto fisico, per il suo ruolo di regina della casa all’interno della famiglia e anche quando raggiunge successi in diverse discipline, comunque a predominare c’è sempre la lente dell’aspetto fisico.

“La donna per sua natura vive concentrata nell'orbita della famiglia, che è la sua finalità, vi raccoglie il suo spirito, i suoi desideri, lungamente, pertinacemente convergenti. Donne che sinceramente deviano in compiti professionali, nella concorrenza di uomini, spesso sono piante sterili, o sono anomalie, o stanno nell'anticamera della patologia, come per altro vi si accostano le sfrontatezze, le animalità del naturismo”.

(Cesare Colucci, Lezioni di psicologia sperimentale, 1935)

Nel libro "Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne", pubblicato in italiano a ottobre 2019, Angela Saini scrive che “i medici sostenevano che lo sforzo mentale richiesto dall’istruzione superiore avrebbe potuto distogliere l’energia dal sistema riproduttivo della donna, danneggiandone la fertilità”.

Ma non riguarda solo il passato, visto che una decina di anni fa Enrico Moretti e Andrea Ichino avevano sostenuto che le donne si assentano di più dal lavoro durante le mestruazioni e questo andrebbe considerato nella retribuzione, che non può essere pari a quella degli uomini (si tratta di uno studio pubblicato nel 2009, le cui conclusioni sono state smentite dall'analisi dei dati ripetuta con maggiore rigore metodologico da Mariesa Herrmann e Jonah Rockoff nel 2012).

Già nel 1914 la psicologa Leta Stetter Hollingworth evidenziava la contraddizione degli scienziati quando si sostiene “che le donne non possono perseguire con successo la vita professionale e industriale perché sono inabili e devono riposare per un quinto del loro tempo; tuttavia non si propone che le madri, le donne delle pulizie, le cuoche, le domestiche e le ballerine vengano periodicamente sollevate dalle loro fatiche e responsabilità”.

Uno studio ha analizzato i profili di scienziati e scienziate riportati su 12 giornali da gennaio a giugno del 2006 nel Regno Unito. Le donne, rispetto agli uomini, tendevano a essere rappresentate come eccezionali; inoltre il profilo si focalizzava prevalentemente sull’aspetto fisico e tendeva ad essere sessualizzato.

Un’indagine successiva, condotta sui profili pubblicati sul New York Times dal 2011 al 2018, ha evidenziato un certo progresso rispetto agli anni 1996 e 1997. Tuttavia, le scienziate tendono ancora a essere descritte di più per l’aspetto fisico rispetto agli scienziati (nel 67% e 37% dei profili, rispettivamente) e come super-scienziate o super-donne. In tal modo, si conferma uno stereotipo che vede l’uomo come normalmente adatto alla scienza mentre alla donna occorrono doti superiori, scoraggiando con questa rappresentazione le giovani che vogliano avvicinarsi agli studi scientifici. Restano invece sotto-rappresentati i profili di scienziati e scienziate non bianchi.

Carla Prado, docente e ricercatrice in nutrizione e salute all'università canadese di Alberta, è una delle 10 protagoniste del documentario Ms. Scientist di Brandy Yanchyk, che racconta come sia difficile la carriera di una donna scienziata, tra stereotipi, discriminazioni e molestie. Prado è latinoamericana e così ha dovuto affrontare anche gli stereotipi e le discriminazioni legate all'immigrazione. In più si trucca, veste sempre in colori sgargianti e spesso si è sentita dire che non sembra una scienziata o chiedere se stesse andando a ballare o in laboratorio.

In Italia la situazione non è certo migliore. Basti pensare a tutte le battute sessiste indirizzate all’astronauta Samantha Cristoforetti quando ha preso parte alla missione Futura. Ma la situazione si estende anche alle altre donne che si distinguono per il loro impegno in diversi ambiti della sfera pubblica.

Se guardiamo alla divulgazione della scienza su YouTube, uno studio del 2018 ha evidenziato che le donne tendono a ricevere un maggior numero di commenti per ogni visualizzazione e che in gran proporzione si tratta di commenti ostili, sessisti e mirati all’aspetto fisico. Come ha scritto Monica Panetto, gli “attacchi misogini e razzisti possono far tacere le loro voci online e creare un deterrente alla libertà di espressione”.

I commenti sull’aspetto fisico, la costante messa in discussione della loro intelligenza e del loro valore, le esclusioni subdole, le richieste di fare il caffè sono tipi di comportamento che la maggior parte delle donne ha subito sul posto di lavoro almeno una volta e che molte sperimentano ogni giorno, ha affermato Kathryn Clancy a febbraio 2018 davanti alla Commissione federale statunitense su "Scienza Spazio e Tecnologia" per un'audizione sulle molestie sessuali nel mondo scientifico. Si tratta di comportamenti che riducono la partecipazione delle scienziate alle conferenze, ai progetti di ricerca finanziati e in generale alle opportunità di carriera. Per Clancy, ci sono alcune condizioni che rendono le molestie più frequenti e sono rappresentate da luoghi di lavoro dominati dagli uomini, non solo nei numeri ma culturalmente, e che tollerano le molestie, ignorando le segnalazioni e le denunce, non sanzionando i perpetratori, non proteggendo dalle ritorsioni.

“Nell'ambiente di lavoro, si crea un'atmosfera sessista, piena di battute e linguaggio volgare, che contribuisce a rafforzare il disagio delle donne e anche in alcuni casi la convinzione, forse non espressa ma spesso implicita, che la posizione raggiunta e il lavoro svolto non sono una "cosa per donne", scrive Sveva Avveduto, presidente dell’associazione Donne e Scienza, nell’introduzione alla monografia sulle molestie nel mondo scientifico e accademico.

Sono, dunque, dei fattori contestuali più che dei fattori individuali a determinare la scarsa presenza delle donne nei livelli più alti della carriera accademica e in alcune discipline scientifiche.

“Questa osservazione – scrive ancora Saini – è sostenuta da recenti ricerche che mostrano come le persone spesso considerino la genialità una caratteristica maschile. Uno studio del 2015, pubblicato sulla rivista Science, ha analizzato la possibilità che l’aspettativa che i maschi siano più brillanti influenzi l’equilibrio di genere rispetto ad alcune materie. […] I ricercatori hanno chiesto agli accademici di trenta discipline negli Stati Uniti se ritenevano che essere uno studioso nel loro campo richiedesse un’attitudine speciale. Hanno scoperto che in quelle discipline in cui si pensava fosse necessario un talento innato per ottenere successo, erano presenti meno donne. Nelle materie che richiedevano un grosso impegno c’era una presenza femminile maggiore”.

Quello che è certo è che le donne hanno dovuto lavorare molto per poter continuare a sviluppare le proprie ipotesi e teorie scientifiche, pubblicarle e presentarle nei consessi accademici. E tutto il lavoro che hanno compiuto nel passato ha lasciato poche tracce.

Tranne rare eccezioni, sui libri di scienze delle scuole e nei manuali universitari non si trova menzione ad esempio di Maria Manasseina che, oltre a scrivere il primo manuale sistematico sul sonno, fu la prima a formulare l’ipotesi chimica della fermentazione alcolica per la quale il premio Nobel sarebbe però stato assegnato più di 25 anni dopo a Eduard Buchner; né di Silvia De Marchi che, nella sua breve vita, condusse ricerche pionieristiche sulla psicologia della testimonianza e sulle stime di grandezza nella percezione visiva; e neppure di Augusta Dejerine Klumpke (della quale il 15 ottobre 2019 abbiamo celebrato i 160 dalla nascita a Parigi) che fu una neurologa e neuroanatomista straordinaria, principale autrice, secondo gli storici, del manuale sull’Anatomia dei centri nervosi anche se il suo nome non è in primo piano.

Sono tre delle pioniere delle neuroscienze in Europa che fanno parte del nostro progetto di ricerca storica, iniziato nel 2016 (anche con Morgana Favero) e premiato dalla FENS -Federation of European Neuroscience Societies, che ha lo scopo di riportare alla luce i lavori e le vite di scienziate dimenticate che hanno contribuito agli sviluppi da diversi ambiti di quelle che sono oggi le neuroscienze sperimentali e applicate.

Se far conoscere lo straordinario lavoro delle pioniere delle neuroscienze degli inizi del XX secolo potrà toglierle dall’oblio e farle studiare ai giovani studenti e studentesse e alle future scienziate e scienziati, quali sono le misure attuali per ridurre il divario di genere e per incrementare la diversità nel mondo accademico e scientifico?

Da un lato, vi è un cambiamento culturale che procede attraverso l’educazione e le iniziative di portare la scienza nelle scuole. E queste iniziative hanno avuto un effetto nell’aumento del numero di laureate che ottengono un dottorato di ricerca e nel numero di donne presenti nei vari livelli della carriera accademica, come emerge dal rapporto "She Figures 2018", pubblicato dalla Commissione Europea nel febbraio 2019. Tuttavia, secondo lo stesso rapporto il miglioramento è troppo lento e non incide su tutti i settori disciplinari allo stesso modo.

Cosa fare allora? Allo stato attuale, si investono soldi pubblici per creare maggiore opportunità nell’accesso agli studi universitari, ma nella formazione post-laurea iniziano a ridursi gli effetti positivi che diventano sempre più esigui nei livelli successivi della carriera accademica (in Europa, la percentuale di professoresse di ruolo è tra il 20% - 33%, con ampie variazioni tra i settori disciplinari).

Una prima azione che ha dimostrato la sua efficacia nei paesi e nei contesti in cui è stata applicata è quella delle quote di genere. Ma da sola non è una misura sufficiente e non sul lungo periodo, a meno che non sia applicata alla nomina dei professori ordinari, come sollecitano Filandri e Pasqua in un recente studio che dimostra il divario di genere nella valutazione delle candidature, a parità di produzione scientifica.

Altre misure radicali sono state attuate in alcune università europee, che hanno riservato per un tempo definito alcune candidature solo alle donne. È il caso dell’Università Tecnica (TU) di Eindhoven in Olanda che, da luglio 2019 e per sei mesi, ha aperto le candidature per posizioni di ricercatrici e professoresse nell’ambito del programma Irène Curie solo “alle persone che si identificano come donne”.

Queste azioni, precedute da altre analoghe nelle università olandesi, sono state osteggiate perché discriminatorie ma, come è stato dimostrato a livello giudiziario, si tratta di misure correttive di una discriminazione in atto da decenni verso gruppi sottorappresentati formulate nel pieno rispetto delle norme europee.

Anche l’Irlanda ha annunciato un’iniziativa governativa per riservare un numero di cattedre solo alle donne, con l'obiettivo di arrivare entro il 2024, al 40% delle posizioni di professore ricoperte da donne.

Per l’Italia, a settembre 2019 sono state pubblicate dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) le Linee guida per il Bilancio di Genere negli Atenei italiani per implementare e monitorare la diffusione e l’utilizzo del Bilancio di Genere, già previsto dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 3 luglio 2003, “quale strumento fondamentale per inserire la parità di genere nella più ampia strategia di sviluppo degli Atenei”. Il gruppo di lavoro, presieduto dalle rettrici Paola Inverardi (Università dell’Aquila), Maria Cristina Messa (Università di Milano Bicocca) e Aurelia Sole (Università della Basilicata), si è riunito per la prima volta a gennaio 2018, su iniziativa del Presidente della CRUI Gaetano Manfredi, appena nominato Ministro di Università e Ricerca.

Figura 1: forbice delle carriere relative a tutti gli Atenei italiani (dato cumulativo) e dettaglio con il riferimento alle aree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Fonte dati: http://dati.ustat.miur.it/dataset file: “Personale docente di ruolo e ricercatore per area disciplinare”.

Come scrive nella prefazione la Coordinatrice Francesca Caroccia, dotarsi del Bilancio di genere permetterà “non solo di conoscere più a fondo la propria istituzione, acquisendo consapevolezza della situazione di genere negli Atenei coinvolti, ma anche di valutarne le politiche e i programmi e di stabilire le priorità alla luce degli obiettivi di eguaglianza costituzionalmente garantiti, promuovendo un’azione integrata per l’attuazione di politiche pubbliche più efficaci ed efficienti”.

Figura 2: Percentuale di uomini e di donne sul totale delle persone che ha registrato un passaggio di ruolo nell’Ateneo X, anno 2018.

Al momento, non si tratta di azioni radicali né di risorse finanziarie mirate ma di una proposta che dovrà essere accolta dai diversi Atenei.

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«Credo fermamente che la diversità in un gruppo di ricerca rafforzi il gruppo. È un po' più difficile gestire ma è molto più creativo, flessibile e solido», ha affermato Jocelyn Bell Burnell, astrofisica britannica vincitrice nel 2018 del prestigioso Special Breakthrough Prize in Fisica che ha deciso di destinare i 3 milioni di dollari del premio a un fondo per sostenere i dottorati di ricerca di studenti e studentesse appartenenti a gruppi sotto-rappresentati in fisica. Burnell, scopritrice delle pulsar, scoperta che però valse il premio Nobel al suo supervisore a Cambridge, ha spiegato che il fondo da lei creato serve «a dare una possibilità a persone che altrimenti non potrebbero averla» e ha aggiunto che, se non ci sono molte donne in fisica, è «perché la società in Gran Bretagna afferma che la fisica sia una disciplina per uomini. Bisogna essere abbastanza accorte e forti per non lasciarsi scoraggiare».

*Progetto WiNEu, Untold stories: the Women pioneers of Neuroscience in Europe

Immagine in anteprima: Scienziate del passato e del presente: (da in altro a sinistra verso destra) Jane Goodall, Rachel Carson, Mary Leakey, Mae Jemison, Marie Curie, Rosalind Franklin – via National Geographic

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