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DDL Zan: il rischio di un compromesso al ribasso come per le unioni civili

17 Maggio 2022 7 min lettura

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DDL Zan: il rischio di un compromesso al ribasso come per le unioni civili

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Sei anni fa, l’11 maggio 2016 per la precisione, il Parlamento italiano approvava le unioni civili. Il provvedimento, noto come “Legge Cirinnà”, fu riconosciuto come una svolta epocale sia per la storia dei diritti civili – per la prima volta nel nostro paese si approvava una misura che colmava un vuoto legislativo per gay e lesbiche che intendevano regolarizzare la loro unione – sia per il capitolo del diritto di famiglia, che includeva al suo interno nuove formazioni sancendo anche le convivenze registrate per le coppie eterosessuali e dello stesso sesso.

Eppure nonostante questo innegabile passo in avanti, molte sono le perplessità che quella legge suscitò dentro la comunità che doveva beneficiarne. E molte le zone d’ombra ancora persistenti. Il cammino per la piena eguaglianza per le persone LGBT+ si è di fatto arrestato a quel traguardo. La legge, ricordiamolo, tagliò fuori proprio le famiglie arcobaleno, amputando il capitolo sulle stepchild adoption. Anche grazie al fuoco incrociato di destre, estreme e non, parte del mondo cattolico (anche interno al Partito democratico) e di quel femminismo radicale che ha fatto fronte comune con le frange più conservatrici del paese agitando lo spettro dell’“utero in affitto” (benché la legge Cirinnà non prevedesse la gestazione per altri).

A distanza di sei anni sono doverose alcune considerazioni in merito a quanto c’è ancora da fare. Il governo Renzi, che anche grazie alla fiducia alle Camere si intestò la vittoria sul provvedimento (“ha vinto l’amore”), risultò di fatto ostaggio del suo alleato, il Nuovo centrodestra, che approvò il decreto legge ottenendo la rimozione delle stepchild adoption.

Il suo leader, Angelino Alfano, commentò così: «Sulle unioni civili ha vinto il buonsenso perché è assolutamente di buonsenso dare più diritto ai soggetti anche dello stesso sesso che compongono una coppia, un’unione, e al tempo stesso l’istituto giuridico del matrimonio è ben distinto da quello dell’unione». E ancora: «È stato un bel regalo all’Italia avere impedito che due persone dello stesso sesso, cui lo impedisce la natura, avessero la possibilità di avere un figlio. Abbiamo impedito una rivoluzione contro-natura e antropologica e credo sia stato un nostro risultato».

Ringraziano, nell’ordine: i bimbi e le bimbe arcobaleno, narrati come aberrazione della legge naturale; i genitori omosessuali, raccontati in termini analoghi; le famiglie di tutte queste persone – nonni e nonne, genitori, fratelli e sorelle, e così via – che hanno scoperto di aver messo al mondo soggetti “colpevoli” di eversione contro-natura. E tutte quelle altre famiglie omogenitoriali, sparse per il mondo, che nei loro paesi sono una realtà giuridica ben definita e che non hanno certo portato a nessun ribaltamento delle leggi naturali e dello stato di diritto. Non è un caso che quella italiana fu l’unica comunità LGBT+ che non scese in piazza a festeggiare l’approvazione delle unioni civili, a parte qualche sparuto gruppo di militanti. Le piazze di “Svegliati Italia”, per capirci, prima dell’approvazione ebbero ben altri numeri.

Poi è vero: a distanza di sei anni migliaia sono le coppie che sono riuscite a ottenere diritti, ma ciò non depone a favore di quella legge. Semmai testimonia l’urgenza della stessa. La nostra classe politica aveva davanti a sé due scelte: legiferare nel tentativo di dare piena rappresentanza a quelle coppie e alle loro famiglie, prole inclusa, attraverso lo strumento del matrimonio; oppure pensare a un istituto a parte (le menti più illuminate parlano, a ragione, di unioni di serie B) che andava bene nell’Europa degli anni ‘90, ma poi superato dalla stragrande maggioranza dei paesi in cui si è passati dall’istituto intermedio – con alcune eccezioni, come in Spagna, USA e Sud Africa – al matrimonio egualitario.

In Italia, purtroppo, la classe politica non è in grado di rispondere all’esigenza di cambiamento del paese reale. Anche per altri temi come l’eutanasia, la depenalizzazione delle droghe leggere e riguardo a diritti già acquisiti, come l’interruzione di gravidanza, la classe dirigente sembra voler scendere a patti con quelle frange più reazionarie che mirano, di fatto, a porre un freno nel cammino dell’uguaglianza. O a impedire l’approvazione di leggi di civiltà. L’ultimo esempio di questo scollamento con la società civile – nonostante un’opinione pubblica favorevole che scende in piazza, in massa, per far sentire la sua voce – è stato il vergognoso dibattito su ddl Zan, bocciato tra scroscianti e sguaiati applausi, dopo votazione segreta.

L’argomento che, da parte di certa classe politica, si oppone all’affermazione dei diritti fondamentali viaggia su un doppio binario. Quello del benaltrismo, per cui ci sono provvedimenti più importanti a cui mettere mano, la cui urgenza torna in mente solo quando si tratta di negare quei diritti, per poi dimenticarsene subito dopo (ed è argomento tipico delle destre). Quello del compromesso al ribasso, in nome del male minore, per cui è sempre meglio una cattiva legge che nessuna legge (in voga in certe frange presenti nei banchi del centro-sinistra, tra cattodem e sedicenti forze liberali).

Certo, il buon senso porta a credere che di fronte al niente è sempre meglio ottenere qualcosa. “Il meglio è nemico del bene” è il mantra riciclato in occasione dei tentativi di mediazione. Peccato che, nel contesto italiano, il processo non sembra quello di un disegno progressista per cui si comincia con un passo per poi continuare il percorso. La dinamica, invece, sembra opposta: isolata la richiesta da parte della società civile, si fa di tutto per depauperarla di alcuni capitoli fondamentali per poi cristallizzare il dibattito pubblico e fermare così il rinnovamento.

Di fatto, la legge sulle unioni civili ha decretato lo stop a ogni discussione sul matrimonio egualitario e sulla tutela dell’omogenitorialità. Anzi, proprio su questo frangente si fanno sempre più aggressive le richieste di quelle forze che chiedono di rendere “reato universale” il già citato “utero in affitto”. Progetto portato avanti proprio dall’estrema destra, nel nostro paese - ancora in convergenza con certo femminismo radicale, quella sinistra “rossobruna” che guarda a destra sui diritti civili, e su chi si professa liberale solo a parole.

Tale doppio binario, un pendolo che oscilla tra la noia del benaltrismo e il dolore del compromesso, ritorna anche oggi con il rilancio del ddl Zan. Anche su questo provvedimento e sul suo iter parlamentare possiamo riconoscere la stessa dinamica che ha caratterizzato il dibattito sulla legge Cirinnà. Tra urla e insulti, in Parlamento, con le forze contrarie – le stesse di allora – che paventano derive antropologiche inesistenti. E se nel 2016 lo spettro erano le famiglie arcobaleno, oggi ad agitare il sonno è la questione dell’identità di genere.

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Se ieri bastava che una coppia omosessuale avesse prole per rappresentare una minaccia per milioni di famiglie “tradizionali”, oggi basta che una persona transgender definisca il suo genere a prescindere dal sesso assegnato alla nascita per cancellare milioni di donne nel nostro paese. Un déjà vu inquietante che avvelena il dibattito pubblico. E che lascia intendere che accontentarsi di misure cosmetiche o a diritti parziali sia il primo passo verso l’affermazione della piena uguaglianza. Riguardo alla legge contro i crimini d’odio abbiamo, per altro, un vistoso precedente: proprio il ddl Scalfarotto, approvato alla Camera tra mille mediazioni e un sostanziale depotenziamento, poi arenato in Senato. Meglio una legge imperfetta che nessuna legge, ci raccontarono allora: peccato che non si arrivò a niente, nonostante questo ritornello.

E non solo: un ulteriore rischio è quello di tagliar fuori dalla tutela giuridica proprio le categorie più fragili. Inserire il termine “transfobia”, eliminando il concetto di identità di genere, depotenzierebbe l’azione della magistratura. «La locuzione “contro tutte le discriminazioni motivate da omofobia e transfobia” del testo Scalfarotto non si può utilizzare da un punto di vista giuridico. Perché in una proposta di legge si devono inserire termini neutri, per garantire la tassatività dell’azione penale» ricordava, tempo addietro, proprio Alessandro Zan. Affermazione confortata dal giurista Angelo Schillaci. Si rischia, insomma, di escludere dalla tutela effettiva proprio le persone transgender, tra le più colpite dai reati d’odio.

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E così come allora si fecero fuori i diritti di migliaia di bambini e bambine che non vedono riconosciuti la responsabilità di entrambi i genitori, questo clima avvelenato rischia di far saltare un provvedimento che tutelerebbe le persone disabili dall’abilismo e le donne dalla misoginia.

A sei anni da quel traguardo, insomma, nulla è cambiato sul fronte dei diritti che restano da conquistare. E la prima a sostenere che quella legge va superata, dimostrando notevole lungimiranza politica, è proprio colei che più si è battuta per la sua approvazione: la senatrice Monica Cirinnà. Insomma, che ancora a sei anni da quel voto alla Camera si sia fermi a quel livello di dibattito non lascia ben sperare. È la responsabilità è tutta di una classe politica che si trastulla nell’altalena del benaltrismo e della logica del male minore. Sacrificando diritti fondamentali e identità sull’altare del compromesso al ribasso. Il paese reale, per fortuna, è migliore. Anche se, purtroppo, non basta.

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