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Un disastro climatico in slow-motion: la desertificazione del nord-est del Brasile

13 Dicembre 2021 12 min lettura

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Un disastro climatico in slow-motion: la desertificazione del nord-est del Brasile

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Il round-up settimanale sul cambiamento climatico e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Gran parte del nord-est del Brasile, una delle zone aride più densamente popolate del mondo, con circa 53 milioni di abitanti, si sta trasformando in un deserto. Dal 2012 al 2017, la regione è stata colpita dalla siccità più lunga mai registrata. E, quest'anno, un altro lungo periodo di siccità ha peggiorato la situazione.

Di solito quando pensiamo ai deserti, immaginiamo le dune di sabbia ondulata del Sahara. Ma non è questo il caso del processo di desertificazione che si sta verificando dal nord della Cina al nord Africa, dalla Russia al sud-ovest americano. Temperature più elevate e minori precipitazioni si combinano con la deforestazione e l’agricoltura intensiva per lasciare i suoli aridi, senza vita e sostanze nutritive, incoltivabili e privi persino dell’erba per nutrire il bestiame. 

“Abbiamo ormai una quantità di prove che evidenziano come la desertificazione riduca i raccolti e affligga la produzione alimentare. E con il cambiamento climatico, andrà ancora peggio”, spiega al New York Times Alisher Mirzabaev, economista agrario dell'Università di Bonn in Germania, tra gli autori nel 2019 di un rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sulla questione.

“Tra cinquant'anni non ci sarà più un’anima viva qui”, racconta Inácio Batista Dantas, un agricoltore di 80 anni, la cui famiglia vive nella terra di Carnaúba dos Dantas da più di 150 anni. Durante la siccità del 2010, per potersi sostentare e nutrire il bestiame, la famiglia di Dantas ha deciso di vendere il fango presente in un vecchio bacino idrico a un'azienda che produce piastrelle di argilla.

L’ascesa dell’industria della ceramica è l’immagine più evidente degli impatti della desertificazione sugli abitanti della regione di Seridó, un insieme di città polverose, fattorie familiari e fabbriche industriali. Un modo per sopravvivere ma che contribuisce a rafforzare il processo di desertificazione in atto. L’abbattimento degli alberi per il bestiame e l’estrazione dell’argilla porta a un inaridimento ulteriore dei suoli in un circolo vizioso senza fine.

“Stiamo arrivando a un punto di non ritorno”, osserva Humberto Barbosa, uno dei massimi esperti di desertificazione che ha studiato per anni il nord-est brasiliano. Il presidente Jair Bolsonaro non ha adottato misure significative per invertire il processo. Anzi, ha ritirato le normative ambientali e smantellato il dipartimento che coordinava le principali operazioni anti-disboscamento, dando di fatto dando potere a minatori e allevatori e creando le condizioni per un forte aumento della deforestazione in Brasile. Che, oltre a indebolire la capacità della foresta amazzonica di assorbimento dell’anidride carbonica, è anche una delle cause primarie delle desertificazione, privando l'aria di umidità e il suolo di ombra. 

Il circolo vizioso di incendi ed emissioni climalteranti

Un anno di incendi “intensi, prolungati e devastanti” ha generato 1.760 megatonnellate di emissioni di carbonio, più del doppio di quelle prodotte in un anno dalla Germania. È questa la stima del servizio europeo di monitoraggio dell’atmosfera Copernicus.

Gli incendi boschivi non sono solo devastanti di per sé e contribuiscono all'inquinamento atmosferico ma, come mostrano i dati di Copernicus, sono anche una causa significativa dell'aumento delle emissioni di gas serra in tutto il mondo.

Il rischio è che si generi un circolo vizioso senza uscita, per cui l'aumento delle temperature e periodi prolungati di siccità – causati dalla crisi climatica – portano a incendi più frequenti e più intensi che a loro volta aumentano le emissioni globali di gas serra e la concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera, accelerando così processo di riscaldamento delle temperature.

In molte regioni le emissioni di anidride carbonica da incendi boschivi registrate quest'anno sono state le più alte negli ultimi 19 anni, da quando cioè esiste il monitoraggio di Copernicus. Gli Stati Uniti e la Siberia sono state tra le regioni più colpite.

Questi dati evidenziano una volta di più la necessità di intervenire quanto prima nella prevenzione e nella gestione degli incendi prima che questo circolo vizioso diventi ancora più devastante.

Rapporto della FAO: il modo in cui viene utilizzata la plastica in agricoltura minaccia la sicurezza alimentare

Secondo un rapporto della FAO, il modo in cui la plastica viene utilizzata nell'agricoltura in tutto il mondo sta minacciando la sicurezza alimentare e la salute umana. Nel 2019, stima il rapporto, esaminato da esperti esterni, sono stati utilizzati 12,5 milioni di tonnellate di prodotti in plastica nella produzione vegetale e animale, e altri 37,3 milioni negli imballaggi alimentari. 

La plastica è un materiale versatile ed economico e facile da trasformare in altri prodotti come teli per serre e pellet di fertilizzanti, rivestiti con polimeri, che rilasciano i nutrienti in modo più lento ed efficiente. “Tuttavia, nonostante i numerosi vantaggi, le plastiche agricole rappresentano anche un serio rischio di inquinamento e danni alla salute umana e dell'ecosistema”, afferma il rapporto.In gran parte si tratta di plastiche monouso che spesso vengono sepolte, bruciate o disperse dopo l'utilizzo. 

C'è una crescente preoccupazione per le microplastiche che si formano quando le plastiche più grandi vengono scomposte. Alcune di queste contengono additivi tossici e possono anche trasportare agenti patogeni che poi rischiano di finire nell’alimentazione di persone e fauna selvatica. Alcuni animali marini vengono danneggiati mangiando plastica, ma si sa poco dell'impatto sugli animali terrestri o sulle persone. “I suoli sono uno dei principali recettori della plastica agricola e sono noti per contenere quantità maggiori di microplastiche rispetto agli oceani. Le microplastiche possono accumularsi nelle catene alimentari, minacciando così la sicurezza alimentare e potenzialmente la salute umana”, spiega Maria Helena Semedo, vicedirettrice generale della FAO.

“Il rapporto vuole lanciare un appello per un'azione decisa per frenare l'uso potenzialmente nocivo della plastica nei settori agricoli”, ha aggiunto Semedo.

​​Il nuovo ministro delle finanze tedesco annuncia miliardi di investimenti per il clima

C’è grande curiosità sulle politiche energetiche che adotterà il nuovo governo tedesco, nato dopo due mesi di negoziati e sedici anni di cancellierato di Angela Merkel.

Subito dopo essersi insediato, il neoministro delle Finanze, Christian Linder (FDP), ha annunciato finanziamenti per 60 miliardi di euro in più in politiche climatiche, provenienti da debiti residui e non utilizzati dal governo nel 2021.

Il governo, formato dal Partito Socialdemocratico (SPD), dai Verdi e dai Liberi Democratici (FDP), questi ultimi più vicini alle imprese, ha stretto un accordo che prevede piani per incrementare le fonti di energia rinnovabile ed eliminare gradualmente il carbone entro il 2030. I sedici anni di cancellierato di Angela Merkel hanno visto la Germania incrementare la produzione di energia rinnovabile e subire critiche aver abbandonato il nucleare e continuato a fare affidamento sul carbone.

Le politiche in materia di energia e trasporti della Germania, la più grande economia europea e il paese maggiormente emettitore di Co2, avranno grandi implicazioni anche per il resto dei paesi europei. 

In questo approfondimento, il sito Carbon Brief ha analizzato lo stato attuale degli interventi per il clima della Germania e le decisioni che ci si potrebbe aspettare dal nuovo governo, alla luce dell’accordo di coalizione stretto dai SPD, Verdi e FDP. L’accordo di governo sottolinea l'importanza di rendere le emissioni della Germania compatibili con un percorso verso l'obiettivo di riscaldamento globale di 1,5°C. Tuttavia, per quanto la Germania stia investendo in modo massiccio in rinnovabili, secondo gli esperti sentiti da Carbon Brief, le azioni indicate nel documento potrebbero non essere sufficienti.

In Scozia finita l’era delle centrali a carbone

Con la chiusura dell’ultima ciminiera ancora in funzione a Longannet, nel Fife, la Scozia ha detto la parola fine alle centrali a carbone.

La prima ministra scozzese, Nicola Sturgeon ha definito la demolizione “una data da ricordare nel percorso che porterà la Scozia a essere una nazione a emissioni nette zero entro il 2045”. Sturgeon ha aggiunto che la Scozia punta a generare metà del suo consumo energetico complessivo da fonti rinnovabili entro il 2030 investendo in energie rinnovabili, idrogeno e la cattura e sequestro del carbonio “senza lasciare indietro nessuno, offrendo posti di lavoro nel settore green, una maggiore sicurezza energetica e benefici per le comunità locali”.

La centrale a carbone Longannet, di proprietà di Scottish Power, era la più grande in Europa. Dal 1970 al 2016, ha prodotto elettricità sufficiente per alimentare un quarto delle case scozzesi. La ciminiera fatta esplodere la scorsa settimana ha dominato lo skyline dell’area per oltre cinquant’anni. Entro il 2024 il Regno Unito chiuderà tutte le centrali a carbone.

Il canto dei pesci ci dice che la barriera corallina indonesiana sta tornando in salute

Dalle urla alle fusa, dai grugniti improvvisi a sonore risate: una serie di suoni, a volte bizzarri, dei pesci ci sta dicendo che la barriera corallina indonesiana sta tornando rapidamente in salute

Qui i suoni delle barriere coralline registrati dai ricercatori 👇

La barriera corallina dell'arcipelago di Spermonde, nell'Indonesia centrale, era stata devastata dalla pesca con l’utilizzo di esplosivi. Il Mars Coral Reef Restoration Project ha ricostruito l’habitat distrutto dalle esplosioni attaccando piccoli pezzi di corallo vivo a telai metallici a forma di stella. La pesca con esplosivi è stata sostituita da metodi di pesca sostenibile gestita dalle comunità locali.

Uno studio condotto dall’Università di Exeter, del Regno Unito, pubblicato sul Journal of Applied Ecology, ha analizzato circa quattro ettari di barriera corallina in via di recupero. Oltre al ripristino dei coralli, i ricercatori volevano verificare se la popolazione che di solito abita le barriere coralline stesse ritornando. 

I suoni sono un segnale di vitalità delle barriere coralline. Coralli, crostacei e pesci producono suoni per richiamare la loro prole che trascorre la prima parte della vita in mare aperto. “Registra i suoni sottomarini sulle barriere coralline è stato spesso sconfortante”, afferma Tim Lamont, autore principale dello studio. “Abbiamo ascoltato le barriere coralline andare in silenzio mentre si degradavano. È stato emozionante ed eccitante poter sentire l’ecosistema riprendere vita”.

Molti dei suoni registrati non erano mai stati ascoltati prima. “Alcuni dei suoni che abbiamo registrato sono davvero bizzarri. Abbiamo ancora molto da imparare su cosa significano e su chi li produce. Ma per ora, è incredibile poter sentire l'ecosistema riprendere vita”, spiega il professor Steve Simpson, dell'Università di Bristol, parte del team di ricerca. Ma, aggiunge Lamont, “il successo delle azioni di ripristino non deve far abbassare la guardia su tutte le minacce alle barriere coralline del pianeta. Se non affrontiamo problematiche come la crisi climatica e l’inquinamento idrico, le condizioni per le barriere coralline diventeranno sempre più ostili e alla fine ripristinarle diventerà impossibile”.

Come sottolineato da più studi, l’aumento delle temperature globali di 2°C potrebbe causare l'estinzione dei coralli di acqua calda. Oltre alla catastrofica perdita di biodiversità, l’estinzione dei coralli pregiudicherebbe l’esistenza delle centinaia di milioni di persone che dipendono dalle barriere coralline per il cibo, il reddito e la protezione dalle tempeste.

Una banca dei semi per salvare 29 specie di piante europee a rischio estinzione

Dalla primula di Palinuro alla felce gigante della Sicilia, LIFE Seedforce, un progetto capeggiato dal Museo delle Scienze di Trento e finanziato dalla Commissione Europea con un budget totale di 7,8 milioni di euro, punta a salvare 29 specie di piante europee (molte delle quali esclusive delle nostre regioni) che rischiano di scomparire a causa del peggioramento dell’habitat provocato dall’uomo.

In che modo? Il sottotitolo del progetto (“Using Seed banks to restore and reinforce the endangered native plants of Italy”) ci dà la risposta: utilizzare le banche dei semi per recuperare e rafforzare le specie native a rischio estinzione. 

Guidato dal Museo delle scienze di Trento, il progetto coinvolge 15 partner italiani e stranieri e riguarderà 10 regioni italiane (Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige, Veneto), Francia (Provence-Alpes-Côte d'Azur), Malta e Slovenia.

Nel nostro paese vivono 104 specie vegetali di interesse comunitario (Direttiva 92/43/CEE), in gran parte endemiche, cioè esclusive di un determinato territorio. Secondo l'ultimo rapporto sullo stato di attuazione della Direttiva, 58 specie sono in cattivo stato di conservazione: la testa di drago nell’arco alpino, la genziana ligure, la sassifraga del monte Tombea, la primula di capo Palinuro, la bocca di leone di Linosa, il ginestrone delle Isole Eolie, la felce gigante della Sicilia e il ribes della Sardegna, per fare alcuni esempi.

A peggiorare l’habitat di queste specie vegetali concorrono più fattori: l’isolamento e la scarsità delle singole specie, l’abbandono delle pratiche agricole e territoriali tradizionali, il pascolo eccessivo e l’invasione di specie aliene, infine il calpestio causato dall’incremento delle attività turistiche.

Per eliminare o attenuare queste minacce, il progetto punta a proteggere queste aree dal pascolo eccessivo e dal calpestio con recinzioni e l’eradicazione sostenibile delle specie aliene invasive, controllando la rivegetazione (attraverso la rimozione di arbusti e alberi e il taglio dell’erba, aumentando la popolazione delle singole specie a rischio estinzione.

Qui l'audio della puntata di Radio 3 Scienza dedicata al progetto.

Lasciare la tua isola o restare per lottare? Il dilemma degli abitanti delle Isole Saposa nel Pacifico

“Mio padre sarà come il capitano del Titanic. Quando l'isola di Toruar sparirà, finirà sott’acqua con lei”. Francis Tony è sepolto a Toruar, un’isola del gruppo delle Isole Saposa, a sud di Boungaville, a est della Papua Nuova Guinea. Il mare è ormai a cinque metri dalla sua tomba ma, come racconta al Guardian suo figlio Christopher Sese, la famiglia non ha intenzione di spostare le ossa di Tony sulla terraferma.

Le Isole Saposa sono uno dei complessi intorno alla Papua Nuova Guinea che stanno scomparendo o stanno diventando inabitabili a causa dell’innalzamento del livello del mare, aumentato nel mare dell’Oceano Pacifico a un ritmo tra le due e le tre volte superiore alla media globale, il che significa che negli ultimi 30 anni c'è stato un aumento netto di 0,3 metri. Gli impatti più evidenti sono l'erosione costiera e l'inondazione delle falde acquifere. L'acqua salata penetra nelle falde acquifere, rendendo l’acqua inadatta all'uso domestico e lasciando le comunità dipendenti dall'acqua piovana per bere. Questo significa che le comunità non possono coltivare.

“Prima che potessimo piantare banane, c'erano alcune palme da cocco e meloni. Avevamo anche i manghi. Ma ora non possiamo piantare nulla qui perché il terreno non è più fertile, c’è solo sabbia”, racconta Bobby Soma, nato a Toruar nel 1962 e trasferitosi sulla terraferma. Ora gli isolani devono fare affidamento sui prodotti dell'orto della terraferma per integrare la loro dieta. Non c'è speranza che la gente di Toruar possa rimanere ed essere autosufficiente. 

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Gli effetti del cambiamento climatico sono un argomento all’ordine del giorno anche a scuola. “Di solito dico ai ragazzi che, poiché i mari stanno consumando il suolo e la nostra terra si sta riducendo, e poiché la popolazione sta crescendo, in futuro ci sposteremo sulla terraferma”, dice Arani Kaitov, un insegnante di scuola sull’isola.

In tutti questi anni il capo riconosciuto dell’isola, John Wesley, ingegnere civile, ha cercato di fare del suo meglio per coinvolgere la comunità in piccoli progetti per salvare Toruar, come la costruzione di una diga con vecchi sacchi di riso da 10 kg pieni di coralli morti e conchiglie per arginare l'innalzamento del livello del mare. Ha presentato anche diverse proposte a enti locali, nazionali e internazionali per essere supportato nel monitoraggio della protezione del suolo. Ma ormai, spiega Wesley, non ci sono alternative all'abbandono delle isole: “Dobbiamo pensare ai nostri figli, alle nostre generazioni future. Se ci trasferiamo sulla terraferma ora, forse il nostro futuro sarà molto migliore”.

Immagine in anteprima: frame video New York Times

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