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Cosa significa l’assalto dell’8 gennaio per il futuro della democrazia in Brasile

17 Gennaio 2023 14 min lettura

Cosa significa l’assalto dell’8 gennaio per il futuro della democrazia in Brasile

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14 min lettura

Il pomeriggio di domenica 8 gennaio, d’improvviso, testate da ogni parte del mondo si sono sintonizzate su Brasilia, dove un’orda di manifestanti vestiti di verdeoro hanno dato l’assalto alla famosa esplanada dei Tre Poteri: il Congresso federale, il palazzo presidenziale del Planalto e la sede della Corte Suprema. I manifestanti hanno distrutto mobili e finestre, rubando una copia della Costituzione federale, danneggiando opere d’arte e facendosi innumerevoli selfie trionfali, divenuti in seguito altrettante prove del crimine.

In Brasile la maglia della nazionale di calcio è diventata un simbolo dell’estrema destra

Nessuno in Brasile può dire che quello che è successo quel giorno non fosse stato ampiamente annunciato. I quattro anni di governo di Jair Bolsonaro sono stati punteggiati da molteplici minacce agli equilibri istituzionali del paese, tanto che era ormai chiaro, durante la campagna elettorale, che l'unico risultato che il bolsonarismo avrebbe accettato e riconosciuto sarebbe stato quello di una vittoria del presidente uscente. La parola “golpe” aleggia ormai da parecchi anni nella politica brasiliana, e i fatti del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill non hanno fatto che rafforzare l’idea che tali episodi si sarebbero prima o poi replicati, magari in forme diverse, nel paese sudamericano, dove tra l’altro il livello di penetrazione dell’estrema destra tra i settori armati della popolazione, tanto nel caso delle forze militari e di polizia, come tra i frequentatori dei club di tiro (moltiplicatisi negli ultimi anni con le politiche di liberalizzazione delle armi), come anche all'interno di gruppi miliziani di tipo paramilitare, è altissimo. Inoltre, come documenta il Washington Post, dietro gli assalti in Brasile ci sarebbero stati contatti stretti tra la famiglia di Bolsonaro, Bannon e l’ex presidente USA, Donald Trump.

Secondo Rodrigo Nunes, la principale differenza tra l’assalto di Capitol Hill del 2021 e quello di Brasilia del 2023 è la tempistica. L’invasione avvenuta a Washington aveva un obiettivo strategico chiaro: impedire l’ufficializzazione da parte del Congresso della vittoria elettorale di Joe Biden, ragion per cui avvenne in un momento in cui le camere erano riunite per l’effettivo passaggio di poteri. In Brasile, invece, l’invasione dei palazzi è avvenuta una domenica pomeriggio, momento in cui quegli stessi edifici si trovavano perfettamente vuoti, e dopo che la finestra temporale a disposizione del bolsonarismo per evitare la formazione di un governo da parte di Lula da Silva era ormai scaduta, tanto che lo stesso Lula era ufficialmente entrato in carica esattamente una settimana prima, con la grandiosa cerimonia del 1º gennaio in cui, complice l’assenza di Bolsonaro, un gruppo di cittadini comuni gli aveva posto la fascia presidenziale al collo.

L’escalation golpista dopo le elezioni

Non che le frange radicali del bolsonarismo non avessero dimostrato la determinazione, e anche una discreta capacità di mobilitazione, per impedire che questo avvenisse. Fin dall’indomani del secondo turno presidenziale del 30 ottobre, che aveva premiato Lula, seppur con un vantaggio minimo (50,9% dei voti), gruppi di sostenitori di Bolsonaro, guidati in prima linea da alcuni camionisti e finanziati e appoggiati dai settori più agguerriti dell’agribusiness, avevano realizzato più di 300 blocchi autostradali in tutto il paese. L’obiettivo dichiarato era convincere l’Esercito a realizzare un intervento federale, giustificato dal caos sociale in cui versava il paese, e impedendo così il passaggio del potere a Lula. Con il paese paralizzato, e mentre una negligente polizia stradale iniziava a sgomberare controvoglia i blocchi per ordine del ministro del Supremo Tribunale Federale (STF) Alexandre de Moraes, nelle settimane successive gruppi di bolsonaristi hanno promosso una serie di accampamenti fissi di fronti al quartier generale delle Forze Armate in numerose città del Brasile. La richiesta esplicita di un golpe militare era solo saltuariamente accompagnata da motivazioni riguardanti supposti brogli elettorali, tra l’altro smentiti da una serie di inchieste ufficiali, realizzate anche dallo stesso Esercito. 

Brasile, la vittoria mutilata di Lula in un paese lacerato

Gli accampamenti di fronte alle caserme e alle sedi militari sono durati due interi mesi, finanziati da imprenditori bolsonaristi, messi in rete in gruppi di WhatsApp e partecipati da gruppi consistenti di militanti, spesso loro stessi ex militari o poliziotti fuori servizio. Nemmeno l’attenzione della popolazione per la Coppa del Mondo ha portato a un vero e proprio svuotamento di questi presidi, sebbene la loro forza e ampiezza si siano dimostrati insufficienti a creare le condizioni per un ribaltamento dei rapporti di forza, in un contesto in cui la vittoria di Lula era stata riconosciuta dall’intera comunità internazionale, dalla quasi totalità dei media e dai principali attori politici e istituzionali del Brasile. È così che, con il passare del tempo, questi gruppi radicalizzati di radicali si sono ritrovati sempre più isolati politicamente, abbandonati dagli stessi quadri dirigenti del bolsonarismo – e dallo stesso Bolsonaro, preoccupato ormai unicamente dalle conseguenze penali sulla sua persona e sulla sua famiglia, una volta persa l’immunità di cui godeva come presidente – e mossi dalla disperazione ad alzare la posta delle loro azioni. In un primo momento, il 12 dicembre, hanno messo a ferro e fuoco con un riot il centro di Brasilia durante la cerimonia di formalizzazione della vittoria elettorale di Lula. Poi, alla vigilia di Natale, quando è stato scoperto un esplosivo in un camion diretto all’aeroporto di Brasilia installato da un piccolo imprenditore del Pará intenzionato a creare le condizioni per uno Stato d’eccezione militare. Infine, con il passaggio di consegne istituzionali già consumato, con la grande manifestazione dell’8 gennaio.

Le complicità istituzionali

Quel corteo a Brasilia era stato convocato nei gruppi di WhatsApp e Telegram dell’infosfera bolsonarista con i nomi in codice di “festa da Selma”, “viaggio alla spiaggia” e “gruppo di caccia e pesca” ma nonostante questo rudimentale sistema di depistaggio l’obiettivo di invadere i palazzi del potere politico e istituzionale era abbastanza esplicito nei messaggi. L’organizzazione della manifestazione prevedeva l’utilizzo di un centinaio di autobus per trasportare i militanti dai più svariati angoli del Brasile alla capitale federale, spesso e volentieri con l’offerta gratuita del costo del biglietto e dei pasti. Nonostante la piena consapevolezza dei pericoli imminenti da parte del governo federale e dal governo statale del Distretto Federale (DF, lo stato di Brasilia), il dispositivo di contenimento della polizia militare del DF è stato ampiamente insufficiente, come è stato evidente a tutti dalle immagini circolate in mondovisione: un numero di poliziotti mobilitati ridotto a un quarto o un quinto di quello pianificato, i cordoni di polizia che hanno pacificamente permesso alla manifestazione di giungere fin dentro la piazza, gruppi di poliziotti fotografati mentre si assentavano al momento dell’assalto, o che addirittura rimanevano a margine a chiacchierare con i manifestanti. La situazione, come è noto, è stata risolta solamente in serata, dopo che in seguito alla redazione di un decreto di intervento federale da parte di Lula, e con la sostituzione dei vertici della polizia del DF e l’arrivo di contingenti di polizia da altri stati della federazione, si è realizzato lo sgombero dei palazzi occupati e l’arresto, nei successivi due giorni, di 1500 manifestanti. 

Come responsabili principali della pessima gestione della piazza da parte della polizia sono stati additati il capo della polizia del DF Anderson Torres e il governatore dello stato Ibaneis Rocha. Il primo, già ministro della Giustizia durante l’ultimo anno e mezzo del governo di Bolsonaro, era appena tornato il 2 gennaio a svolgere il suo precedente ruolo di Segretario di Sicurezza della capitale, richiamato dal neo eletto governatore Rocha. Al momento dell’invasione dell’8 gennaio, Torres si trovava in ferie con la sua famiglia a Orlando, in Florida, proprio la città in cui lo stesso Bolsonaro si era recato la sera del 30 dicembre, abbandonando il suo paese poco prima della fine del suo mandato e con l’intenzione di non passare la fascia presidenziale a Lula. Al momento degli attacchi ai palazzi dell’esplanada, Torres ha pubblicato un tweet in cui ha ripudiato l’avvenimento, ma questo non è stato sufficiente a evitare l’esonero immediato da parte del governatore Rocha. Poche ore più tardi, lo stesso Lula con il suo decreto di intervento federale ha commissariato la polizia del DF. L’Avvocatura dello Stato ha poi chiesto alla Corte Suprema l’arresto di Torres per connivenza con le manifestazioni, e il 10 gennaio il giudice Alexandre de Moraes ha disposto le misure cautelari per Torres e la perquisizione della sua abitazione, durante la quale è stato trovato un documento che prevedeva la soppressione del Tribunale Superiore Elettorale (TSE) all’indomani delle elezioni, documento che Torres, allora ministro della Giustizia, aveva forse l’intenzione di firmare con l’intenzione di annullare il processo elettorale appena concluso. Il 14 gennaio, al ritorno dagli USA, Torres è stato immediatamente arrestato dalla polizia federale.

Rocha è, dal canto suo, un politico del Movimento Democrático Brasileiro (MDB), un partito di centrodestra che fa oggi parte della maggioranza parlamentare del governo di Lula da Silva. Nonostante l’appoggio maggioritario dato dal partito a Lula per il secondo turno delle elezioni, Rocha è rimasto fedele al suo alleato politico Bolsonaro ed è stato lui a richiamare il bolsonarista di ferro Torres a guidare la polizia della capitale. Negli istanti concitati in cui avveniva l’assalto alla piazza dei Tre Poteri, Rocha ha licenziato immediatamente Torres ma questo non gli ha evitato, l’indomani, la sospensione dal governo statale per 90 giorni, decretata da Alexandre de Moraes. 

Tuttavia, se la connivenza da parte della polizia militare del DF è conclamata, più dubbi sono i ruoli e le responsabilità delle forze di sicurezza federali, e in ultima istanza dello stesso governo Lula. Di fatto, l’ABIN (Agenzia Brasiliana di Intelligence, cioè i servizi segreti), avevano avvisato da giorni del pericolo di un attacco ai palazzi istituzionali. Ma il dispositivo d’emergenza previsto dal ministro della Giustizia Flávio Dino è stato altamente insufficiente, mentre d’altra parte stupisce come il Commando Militare del Planalto, la forza di sicurezza destinata alla protezione del palazzo presidenziale, sia entrata in azione solo dopo, e non prima, dell’invasione. Per spiegare l’apparente insuccesso del governo nel fronteggiare le orde bolsonariste e impedire il saccheggio dei simboli dello Stato, si può considerare il brevissimo tempo intercorso dall’entrata in carica del nuovo governo, i cui ingranaggi e catene di comando sono senz’altro da oliare, oltre che una generale sfiducia da parte del governo verso le forze dell’ordine e i militari, egemonizzati da individui di chiara fede bolsonarista e i cui ufficiali e comandanti erano, fino a una settimana prima, espressione di un’estrema destra nostalgica della dittatura militare. Lo stesso uso delle Forze Armate per fronteggiare e disperdere i manifestanti potrebbe essere stato considerato rischioso da parte del governo, per la possibilità di insubordinazione e disobbedienza agli ordini o, viceversa, per l’eventualità che una loro entrata in azione producesse un saldo di morti e feriti destinato solo a rafforzare politicamente il bolsonarismo e mettere in crisi la legittimità del nuovo presidente. 

Il governo Lula ne è uscito rafforzato?

Non è tuttavia improbabile che il mancato intervento da parte del governo sia stato anche il risultato di una scelta ponderata di lasciar fare, consumare l’assalto e la distruzione fino alle sue estreme conseguenze, e ottenere così una legittimità maggiore e consensuale per la repressione su vasta scala al bolsonarismo nei giorni e nelle settimane seguenti. Che si tratti di una scelta consapevole o di uno scherzo del destino, infatti, è indubbio che Lula da Silva esce fortemente rafforzato da questa vicenda. Affermatosi nelle urne con un vantaggio estremamente ridotto, in un paese polarizzato e tremendamente diviso, Lula ha iniziato il suo nuovo governo nel mezzo di conflitti intestini all’interno del suo stesso gabinetto presidenziale, con scontri tra ministri progressisti e conservatori, con una certa sfiducia dei mercati finanziari, un bolsonarismo attivo nelle strade e un esercito sempre sull’orlo dell’insubordinazione. 

In queste condizioni tutt’altro che rosee, le vicende dello scorso 8 gennaio hanno unificato gran parte del paese e della classe politica intorno al presidente e hanno dato margine all’STF e allo stesso governo di sferrare un attacco repressivo al bolsonarismo che, fino al giorno prima, era impensabile. Secondo un recente sondaggio, infatti, il 93% della popolazione disapprova l’assalto bolsonarista di Brasilia, mentre la marcia collettiva lungo la rampa del Planalto di Lula, della presidente dell’STF Rosa Weber, dei ministri e dei governatori di tutti gli stati della federazione, incluso il bolsonarista governatore di San Paolo Tarcísio Gomes de Freitas, ha cristallizzato un’unione delle istituzioni brasiliane intorno al presidente. 

Allo stesso tempo, le vicende dell’8 gennaio hanno permesso al Supremo Tribunale Federale e al governo di imporre lo sgombero di tutti gli accampamenti bolsonaristi di fronte alle caserme militari. Non senza, tuttavia, un momento di ulteriore apprensione quando, nella notte dell’8 gennaio, un primo tentativo di sgombero da parte della polizia militare dell’acampada al quartier generale di Brasilia aveva incontrato un’opposizione diretta da parte dell’Esercito, che aveva reclamato per sé il diritto a liberare l’area (in quanto suo territorio di competenza), cosa che tuttavia ha fatto il giorno seguente. 

L’attacco fascista di Brasilia si è risolto dunque, in un primo momento, con un’indiscutibile vittoria del governo Lula, che esce rafforzato dalla prima grande sfida del suo mandato. Tuttavia, le incognite e i problemi posti alla società brasiliana, ed espressi con chiarezza dagli avvenimenti dell’8 gennaio, lasciano sul campo una serie di incertezze e crisi accese o sul punto di esplodere. Il primo grande problema sarà capire come si muoverà la galassia bolsonarista. Sempre secondo Rodrigo Nunes, il post-elezioni ha significato allo stesso tempo una sconfitta politica e una vittoria sociale del bolsonarismo. 

Politicamente, il bolsonarismo ha perso peso istituzionale, con l’abbandono delle sue principali figure, che si stanno svincolando dalle base,i visto il costo politico troppo alto di rivendicare e appoggiare le azioni golpiste. A livello sociale, tuttavia, ha dimostrato una notevole forza di attrazione nel generare adesione, organizzazione dei suoi nuclei di base e coinvolgimento costante e per certi aspetti perfino messianico dei suoi attivisti. 

Se già prima delle elezioni era possibile intravedere l’esistenza di un bolsonarismo oltre Bolsonaro, il processo insurrezionale e “dal basso” del neo-fascismo brasiliano ha acquisito negli ultimi due mesi e mezzo un grado di maturità e organizzazione inediti. E rappresenta un riferimento politico importante per quei settori sociali – frazioni dell’agribusiness, membri di club di tiro, parte delle forze dell’ordine, gruppi miliziani e paramilitari, settori illegali dell’economia estrattiva, pezzi di lavoro autonomo e di piccola e media impresa, evangelici fanatici – che hanno finora rappresentato la base del “capitano” ma che potrebbero in futuro affidarsi a qualcun altro, magari ancora più radicale, se dovessero sorgere nuove condizioni per un loro ritorno alla politica mainstream.

Se quindi da un lato la principale sfida del nuovo governo sarà far fronte a un neofascismo militante con radicamento popolare, altrettanto importante sarà l’opera di de-bolsonarizzazione delle istituzioni brasiliane, a partire dalle forze dell’ordine e soprattutto dall’Esercito. Nel governo Bolsonaro, la presenza di militari in cariche civili a livello federale è arrivata a quasi 7000 persone, collocate spesso in funzioni strategiche, 11 delle quali addirittura ministri. Ma il potere e l’influenza dei militari nelle istituzioni brasiliane e nella società nel suo insieme vanno molto oltre questi numeri e vanno considerati storicamente. 

La ricostruzione repubblicana: necessaria ma insufficiente

Fin dal termine della lunghissima dittatura militare del 1964-85, le Forze Armate hanno mantenuto un discreto controllo sul processo di transizione alla democrazia e si sono garantite un’immunità pressoché completa in relazione ai crimini commessi durante il loro regime. A differenza degli altri paesi del Cono Sud, che hanno avuto l’istituzione di serie commissioni della verità per indagare sulle violazioni dei diritti umani, in Brasile quasi nulla in questo senso è stato fatto, e l’instaurazione tardiva di una commissione da parte di Dilma Rousseff nei primi anni 10 ha avuto vita breve ed è stata chiusa anzitempo per pressione degli stessi vertici militari. Durante i governi Lula (2003-10) e Dilma (2011-16), lo stesso Partito dei Lavoratori ha contribuito enormemente ad accrescere la forza e l’influenza dell’esercito nella gestione di popolazioni vulnerabili, prima mandando un contingente militare ad Haiti a direzione di una missione ONU, poi formando le Unità di Polizia Pacificatrice (UPP) per mettere sotto controllo la delinquenza organizzata nelle favelas di Rio de Janeiro. 

Molti dei generali formatisi con tali missioni hanno poi assunto ruoli di rilievo nel governo Bolsonaro. A inizio 2018, con la minaccia del generale Villas Boas all’STF perché confermasse la prigione preventiva di Lula da Silva e gli impedisse di partecipare alle elezioni poi vinte da Bolsonaro, è stato chiaro a tutti che l’esercito era tornato in maniera diretta sulla scena politica brasiliana. Durante tutto il periodo di governo di Bolsonaro, ci sono state minacce e allusioni da parte di militari emeriti circa un possibile golpe militare nel caso in cui altri poteri fossero stati troppo d’intralcio ai loro progetti. 

Sebbene non manchino simpatie esplicite per l’ex presidente da parte di vertici militari, è chiaro che la carta Bolsonaro rappresentava per questi più un cavallo vincente in termini elettorali per portare avanti agende proprie, piuttosto che un leader indiscusso. Ciò rende possibile una certa relazione pragmatica con il nuovo governo Lula, tuttavia impone anche limiti strettissimi e pressoché invalicabili a qualunque tipo di democratizzazione delle Forze Armate da parte della politica. 

Oltre all’esercito, un’altra istituzione che in questi ultimi anni ha assunto ruoli sempre più forti sul piano politico, prevaricando spesso e volentieri aree di competenza che non le appartenevano, è stata la magistratura. Già nel 2018, il pool dell’operazione Lava Jato guidato dal giudice conservatore Sergio Moro aveva avuto un ruolo determinante nel condannare senza prove Lula e favorire l’elezione di Bolsonaro. Sotto quest’ultimo, gli indirizzi della Corte Suprema si sono spostati verso un contrasto esplicito ai tentativi autoritari del presidente e sono stati necessari a frenare minacce golpiste. Tuttavia, come argomenta il filosofo Pablo Ortellado, le inchieste del giudice Alexandre de Moraes, oltre a essere state condotte in maniera non convenzionale, hanno concentrato uno straordinario potere nelle mani di un’unica persona. Un esempio è l’autorizzazione da parte di Alexandre de Moraes lo scorso 12 dicembre di disporre di intercettazioni e accedere ai dati non solo di otto persone indagate, ma anche tutti coloro che comunicavano con loro. 

Anche il commissariamento immediato decretato per ordine di un unico giudice di un governatore democraticamente eletto come Rocha è un fatto politico eccezionale che dimostra il grado di discrezionalità, potere e autonomia acquisiti dalla magistratura brasiliana. Se in un contesto come quello attuale questi fatti possono essere giustificati o anche celebrati in nome del pericolo fascista, è facile immaginare quali siano i rischi posti da un uso futuro di questi espedienti contro organizzazioni di lavoratori e movimenti sociali di sinistra. Il coro unanime che si alza in questi giorni per la promulgazione di una legge che rafforzi la già dura normativa antiterrorismo promossa da Dilma Rousseff nel 2016 per contrastare la rivolta sociale scoppiata tre anni prima, sta lì a dimostrare i limiti insiti al delegare al potere giudiziario l’instaurazione di uno stato d’eccezione permanente. 

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Combattere la minaccia bolsonarista con misure dure che responsabilizzino chi ha commesso crimini e disincentivino azioni del genere nel prossimo futuro è oggi necessario. Ma la passività dimostrata dai movimenti sociali e dai partiti di sinistra di affidare il contrasto al fascismo all’azione della magistratura o al solo processo elettorale, con la speranza di mantenere di nuovo e indefinitamente il PT al potere, è un’illusione. 

Come hanno dimostrato i pochi ma significativi casi di liberazione dei blocchi stradali bolsonaristi da parte di ultras organizzati o abitanti di piccole comunità di provincia, è quanto mai urgente che in Brasile i movimenti si dotino di strumenti di antifascismo militante e dal basso, per non rimanere succubi e politicamente ricattabili dai politici “progressisti” e dalle istituzioni “liberali”. Inoltre, è evidente anche che il neofascismo in Brasile non verrà sconfitto se non si affronteranno le cause profonde che l’hanno fatto emergere: le tremende disuguaglianze di razza, genere e classe che attraversano la società, la crisi economica, sociale ed ecologica in corso e il profondo risentimento ed egoismo sociale del tutti contro tutti di cui si alimenta l’estrema destra. Per tutto ciò, la tradizionale politica conciliatrice di Lula e l’obiettivo di ricostruzione delle fondamenta repubblicane che si propone oggi il PT appaiono obiettivi insufficienti e quasi contradditori. In fin dei conti, è stato próprio dai limiti e dalle contraddizioni di una democrazia incompiuta e di una politica di inclusione sociale limitata a politiche assistenziali e priva di riforme strutturali che aggredissero le fondamenta della disuguaglianza sociale, che è emerso il bolsonarismo. Per dirla con Thiago Cannettieri, ricostruire non significherebbe infatti, a rigore, rimettere in piedi le condizioni della catastrofe in corso?

Immagine in anteprima: TV BrasilGov, CC BY 3.0, via Wikimedia Commons

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