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Agire su impunità, omertà e complicità del sistema: le attrici di Amleta contro gli abusi nel teatro e nel cinema

17 Gennaio 2023 5 min lettura

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Agire su impunità, omertà e complicità del sistema: le attrici di Amleta contro gli abusi nel teatro e nel cinema

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La notizia della morte di Gina Lollobrigida arriva sul finale della conferenza stampa indetta da Amleta e Differenza Donna, impegnate in questi giorni un un’azione collettiva di denuncia degli abusi sessuali nel mondo del teatro e del cinema. Lollobrigida, che ha attraversato quasi un secolo di storia del paese e del cinema italiano e internazionale, aveva novant’anni quando durante una puntata di Porta a porta raccontò dello stupro subito quando ne aveva solo diciotto da parte di un calciatore della Lazio “molto famoso”. Era il maggio del 2018, il caso Weinstein era scoppiato da pochi mesi e l’argomento degli abusi sessuali sul lavoro continuava a dominare i media: nemmeno a quel punto, dopo tutto quel tempo, Gina volle (o poteva) fare il nome dell’uomo che l’aveva violentata.

Se in questi giorni stiamo tornando a parlare di molestie è con un occhio diverso rispetto a quello che avevamo nel 2017, all’epoca in cui #quellavoltache e #metoo (e l’analogo #balancetonporc in Francia) tirarono fuori migliaia di storie di abusi. Eppure, la sensazione è sempre quella di dover ricominciare da capo a spiegare ogni cosa, chiarire i punti oscuri e scalare dalla base la montagna del dubbio, dello scetticismo, del “te la sei cercata”. Le leggi non sono cambiate: come fa presente Maria Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna, la molestia sessuale continua a non essere presente nel nostro ordinamento come reato distinto dalla violenza sessuale, e i termini di legge per denunciare un abuso sessuale sono incongrui con la necessità di elaborare il trauma e trovare non solo la forza di denunciare, ma anche e soprattutto quella di riconoscersi come vittima di quella violenza.

La necessità di tempo, più tempo per elaborare, comprendere ed eventualmente denunciare è il filo conduttore di tutte le testimonianze lette durante la conferenza stampa dalle attrici dell’associazione Amleta, vestite rigorosamente di nero (il colore adottato anche dalle colleghe statunitensi sui red carpet all’epoca di MeToo e della costituzione dell’associazione Time’s Up). Alcuni abusi sono avvenuti alla fine degli anni ’90, di altri invece non si conosce la collocazione temporale precisa, tutti sono vivi e dettagliati e crudi al punto che Cinzia Spanò, presidente di Amleta, ha deciso di presentare gli aneddoti in forma ridotta per risparmiare ai presenti almeno parte della violenza che contengono. Storie senza nomi, né delle vittime né degli abusanti: l’esperienza insegna che a rimetterci non sono mai i secondi. Amleta e Differenza Donna lo sanno bene, e per questo hanno scelto di proteggere le identità delle vittime e di usare le loro storie per evidenziare la pervasività del fenomeno,

Il catalogo è lo stesso di sempre, eppure come sempre non manca di suscitare rabbia e frustrazione: ragazze attirate con l’inganno nei teatri o negli appartamenti dei loro stupratori, pittori che minacciano le loro modelle mentre le stanno molestando, addetti al casting che sfruttano il loro ruolo per farsi inviare foto di nudo e audio di orgasmi simulati. Il contatto intimo viene per lo più estorto con la manipolazione: all’attrice viene chiesto di essere “libera”, di allenarsi a “sedurre” l’uomo che ha davanti per poterlo poi fare con il pubblico. A volte invece ci si appella ai rapporti di potere: “Vuoi fare l'attrice? E allora non sei tu a decidere cosa mostrare di te.” In quasi tutti i casi, la leva è quella della professionalità: se non fai quello che ti dico, allora non sei in grado di fare questo mestiere.

Tutto intorno, un sistema che sa degli abusi, li copre, li giustifica, in molti casi li facilita: avviene così nel cinema come in qualsiasi altro ambiente dove il potere è concentrato in mani maschili, e la possibilità di mantenere o meno un lavoro dipende da decisioni individuali sulle quali è difficile sindacare senza essere tacciate di essere lamentose.

L’indagine condotta da Amleta, pur con tutti i limiti che può avere un rilevamento fatto su base volontaria, ha portato a raccogliere 223 casi di molestie e violenze agite in larga maggioranza da uomini (solo in due casi le abusanti sono donne) su donne (il 93% delle vittime). I registi costituiscono il 41,26% degli abusanti, seguiti da altri attori (il 15,7%), dai produttori (il 6,28%) e dagli insegnanti delle accademie (il 5.38%). A queste percentuali si aggiungono episodi in cui ad agire gli abusi erano casting director, agenti e manager, aiuti regista e casting, critici, giornalisti e addirittura gli spettatori.

Il corpo dell’attrice si ripropone quindi come corpo che richiama l’oggettificazione, che viene percepito come “disponibile”, non a seguito dell’espressione di suo desiderio o di un consenso ma perché di quel corpo si può disporre senza conseguenze: chi abusa sa di poter contare su una solidarietà sociale diffusa, quella che ancora associa all’attrice la nomea della poco di buono, della ragazza leggera che se avesse voluto evitare di essere molestata avrebbe potuto fare la commessa. La narrazione della donna di spettacolo che “la dà via” per ottenere una parte (e che quindi è anche sleale verso le altre donne, quelle “brave”, quelle che “non scendono a compromessi”) è basata sulla versione di chi commette gli abusi o ne è in qualche modo complice. 

Dagli aneddoti emerge che le abusate non hanno ricavano nulla da quei contatti indesiderati, nulla che non fosse un trauma duraturo e la perdita del lavoro. Molte abbandonano il loro percorso di carriera. La maggior parte sono giovanissime, facilmente ricattabili. La società patriarcale ha poco interesse per le donne come individui, ancora meno per la loro arte: al contrario, è sempre pronta a glorificare il grande regista noto per commettere abusi. Poco importa quale sia il costo umano di quell’arte, e di quante donne siano state sacrificate per ottenerla.

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Interrogato negli scorsi giorni sulla questione, il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha dichiarato che “si attiverà” perché le aziende e i teatri con uno storico di abusi non ricevano più finanziamenti pubblici. Peccato che la legge sia già chiara in questo senso e che, come hanno fatto notare Elisa Ercoli (presidente di Differenza Donna) e l’avvocata Chiara Colasurdo, il problema sia l’applicazione delle norme vigenti. In altre parole: prima di tutto bisogna accertare gli abusi. Come, se denunciarli espone chi li subisce a potenziali ritorsioni e danni professionali? Un sistema basato sulla complicità finisce sempre per punire chi parla e proteggere chi esercita un potere che è visto come naturale, non un abuso ma un benefit. “I nati nel ’59 tengon corsi di teatro, quando va bene si rimorchiano le allieve”, recita un verso di Velleità de I Cani.

“Noi non siamo vittime, siamo ribelli” tuona Maria Teresa Manente, come in risposta a una domanda che aleggia nell’aria ormai da anni: oltre alla cultura, ci mancano anche le parole per identificare chi subisce una violenza. Parole non colpevolizzanti, che non indeboliscano, che non si sostituiscano all’identità della persona intera. La cultura anglosassone usa “survivor” per descrivere chi ha attraversato un trauma: la traduzione italiana, “sopravvissuta”, è afflitto da connotazioni da naufragio, da catastrofe naturale, da attentato. La sopravvivenza di chi ha subito una violenza non gode della stessa solidarietà o della stessa narrazione epica, è uno sforzo solitario, quotidiano, mai davvero compiuto. L’unico modo per renderlo una questione collettiva è agire sull’impunità, sull’omertà, sulla complicità del sistema: a teatro, al cinema, nei camerini e negli uffici, nei negozi e negli alberghi, nelle strade e nelle case. Perché come dice Cinzia Spanò: “A teatro, anche i silenzi sono battute.”

(Immagine in anteprima via YouTube)

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