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Come Trump reagisce alle critiche, mettendo in crisi media ed esperti

20 Gennaio 2017 8 min lettura

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Come Trump reagisce alle critiche, mettendo in crisi media ed esperti

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La vittoria elettorale di Donald Trump ha messo in crisi molte certezze sulla comunicazione politica.

In alcuni casi l'effetto del successo del tycoon repubblicano ha creato una sorta di effetto-panico, soprattutto tra i consulenti politici la cui utilità è stata persino messa in discussione: Trump ha infatti vinto utilizzando un budget più basso rispetto a quello impiegato da Mitt Romney nel 2012 e spendendo un terzo in meno rispetto a Hillary Clinton.

Inoltre, per lunghi mesi, si è teorizzato che Clinton avesse una comunicazione e un'organizzazione della campagna elettorale molto scientifica, mentre Trump fosse invece il campione della mossa a effetto e dell'improvvisazione: in realtà, come è stato ampiamente dimostrato, la capacità del neo-presidente degli Stati Uniti di utilizzare i dati laddove era davvero necessario farlo (cioè vincendo negli Stati in bilico, in particolare nel Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Florida, necessari per ottenere la maggioranza dei grandi elettori senza ottenere la maggioranza assoluta dei voti) si è rivelata superiore a quella dei ben più accreditati avversari.

In altri casi invece la sfida che il modello-Trump ha lanciato al giornalismo e alla comunicazione politica per come è stato immaginato sinora è grande e gli effetti di questa sfida sono ancora tutti da decifrare.

L'elemento su cui Trump si è mostrato maggiormente 'disruptive' a livello comunicativo è rappresentato dalla gestione delle polemiche politiche e in particolare dalle tecniche, dai tempi e dallo stile di reazione da lui adottato quando si è ritrovato sotto pressione. Ronald Klain sintetizza la portata del cambiamento di paradigma imposto da Trump nel sommario di un illuminante articolo scritto per Politico:

For decades, certain rules governed how politicians dealt with controversy. Until Trump came up with new rules of his own.

Se la durata del ciclo di una notizia passa da 24 ore a 24 minuti, come descritto da Christian Salmon nel suo La Politica nell'Era dello Storytelling e se i punti di ingresso e di uscita di una notizia dal dibattito pubblico sono più di uno (attraverso i media tradizionali, attraverso i siti Internet, attraverso i social media; attraverso i propri account personali, attraverso quelli dei propri sostenitori o dei propri oppositori) è evidente che la velocità di risposta diventa LA variabile principale da tenere sotto controllo, e la scelta di non offrire una qualche reazione a un attacco diventa un'opzione sostanzialmente non percorribile.

Se una notizia è ritenuta tale da un numero sufficiente di utenti e dalle loro comunità di riferimento, è evidente che la vecchia tattica che consisteva nello stringere i denti aspettando che i giornali del giorno dopo parlino d'altro non funziona più. Ecco i principali sconvolgimenti del playbook della polemica politica operati da Trump secondo Klain:

Il modello prima di Trump: le scelte controverse non si spiegano
Il modello di Trump: si dà sempre una spiegazione

Ronald Reagan affermava che una scelta che esponeva un politico a rischi di reputazione poteva essere affrontata in tre modi: o aspettando in silenzio lo scorrere del tempo, o chiedendo scusa, o contrattaccando senza entrare nel merito. Ciò che però non andava fatto era dare una spiegazione. Il motto di Reagan era: “if you are explaining, you are losing”. Questa regola aveva un suo senso in un sistema nei quali la triade classica che forma l'opinione pubblica, ossia media-politica-cittadini, prevedeva una negoziazione di senso tra media e politica i cui risultati erano poi rappresentati nella scena pubblica e messi a disposizione dei cittadini che potevano fruire di quella rappresentazione in una forma sostanzialmente passiva.

I social media rompono questo schema: oggi la negoziazione di senso che definisce "di cosa si parla oggi" vede i cittadini co-protagonisti grazie alle tecnologie digitali. Trump ha capito molto bene questo e ha capito che offrire una qualsiasi risposta, anche la più surreale o apparentemente insostenibile, ottiene due immediati risultati: toglie pressione da parte dei propri sostenitori (che si aspettano una risposta anche solo per poter difendere il candidato) e li 'arma' alla battaglia con gli avversari. Questo secondo risultato rappresenta una novità dirompente nei meccanismi di influenza e di persuasione: se è vero (come le ricerche sull'attendibilità delle figure professionali indicano da tempo) che "l'uomo qualunque" è più credibile rispetto a un giornalista, far sì che un utente generico possa dire la propria sui propri account partendo da una linea ufficiale emanata dal candidato vuol dire avere buone chance di sfidare l'informazione giornalistica, anche se vera, con una propria versione alternativa delle cose, anche se falsa o incompleta.

10. Veracity Index 2016

 

Il modello prima di Trump: quando si sbaglia si chiede scusa
Il modello di Trump: non si chiede scusa ma si rilancia

La difesa della 'faccia' (o più tecnicamente l'accountability) nei confronti dell'opinione pubblica richiederebbe, in teoria, l'ammissione dei propri errori in tutte le circostanze in cui è necessario scusarsi. Trump ha però messo in discussione questa tesi: a suo avviso l'offerta di scuse da parte del mondo dell'economia e della politica in questo momento storico non è quasi mai un atto emotivamente sentito dallo scusante ma è piuttosto una modalità automatica e spesso tardiva per provare ad aggirare un problema senza provare a risolverlo. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stato accusato esattamente di questo, cioè di essersi scusato solo dopo aver realizzato di non poter fare altro (e facendolo solo per evitare le dimissioni) in seguito alla sua dichiarazione sugli italiani che emigrano all'estero per cercare lavoro.

Donald Klain ha calcolato che Clinton si è scusata più di una dozzina di volte nel corso della campagna elettorale, mentre Trump ha sempre preferito mantenere la sua posizione, se non addirittura rinforzarla, quando gli si chiedeva di tornare sui suoi passi: lo ha fatto quando ha definito 'stupratori' gli immigrati così come non è arretrato dopo aver attaccato frontalmente il repubblicano John McCain, candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel 2008, "colpevole" di essere stato catturato durante la guerra del Vietnam.

Il modello prima di Trump: si mettono in ordine tutte le informazioni che si hanno a disposizione, e solo allora si interviene
Il modello di Trump: si reagisce nel più breve tempo possibile

Uno degli aspetti più sottovalutati dell'utilizzo in prima persona di Twitter da parte di Donald Trump riguardava la sua capacità di entrare nel dibattito pubblico con largo anticipo rispetto ai suoi avversari. Il presidente americano è infatti arrivato spesso per primo sulla notizia, anche in assenza di informazioni certe su ciò di cui stava parlando: ad esempio il presidente americano parlò subito di terrorismo islamico dopo la tragedia del club gay ad Orlando, anche se i legami tra quell'episodio e l'appartenenza del killer all'ISIS non sono mai stati dimostrati. Nonostante questo, Trump rivendicò subito dopo di avere avuto "ragione" sul movente della tragedia, rilanciando ulteriormente un suo posizionamento politico basato su una notizia non verificata.

Donald Klain spiega con grande efficacia le ragioni di questa scelta tattica: Trump sapeva di dover mettere in conto una serie significativa di errori legati alla fretta e alla mancanza di informazioni, ma ha "barattato un po' di attendibilità in meno con un po' di impatto in più". Per il repubblicano era più importante offrire una propria visione del mondo, a qualsiasi costo, che dire la verità. Probabilmente un modello del genere non è auspicabile da chi confida in una migliore ecologia del dibattito pubblico (così come non è auspicabile negare le responsabilità e non scusarsi quando è necessario), allo stesso tempo bisogna tenere a mente il fatto che una strategia alternativa, fatta di velocità senza attendibilità non è necessariamente meno efficace di un comportamento più prudente ed eticamente qualificante.

Il modello prima di Trump: i media non si attaccano perché non conviene averli contro
Il modello di Trump: i media si attaccano perché conviene averli contro

La regola non scritta delle relazioni istituzionali dice che ingaggiare una sfida con i giornali non conviene, perché i media hanno più occasioni di mettere in difficoltà la controparte (soprattutto se politica) di quanto sia vero il contrario. È possibile dare scacco a un giornalista o a una testata su un episodio specifico, ma è impossibile farlo sempre. Donald Trump, così come la stragrande maggioranza dei movimenti anti-sistema in tutto il mondo (a partire dal MoVimento5Stelle in Italia), ha invece perfettamente realizzato la portata del declino della fiducia nei media e ha dunque puntato su una costante delegittimazione di chi parlava male di lui non entrando quasi mai nel merito ma intervenendo alla radice della questione. Trump dunque non si preoccupava tanto di spiegare il contenuto del messaggio ma puntava sull'attacco alla fonte per portare a casa il risultato: per questo ha dedicato molti comizi a criticare giornali e televisioni con un'intensità persino superiore rispetto a quella riservata ai suoi avversari interni ed esterni. C'è da sottolineare un aspetto non banale: la strategia di attacco di Trump ha coinvolto praticamente tutti i media, senza risparmiare chi lo ha sostenuto e lo ha aiutato a vincere, come Fox News.

 

Il modello prima di Trump: si sceglie un tema forte della campagna e lo si sostiene fino alla fine
Il modello di Trump: i messaggi principali possono essere costantemente rivisti

Trump ha cambiato idea su molti aspetti cruciali della sua campagna elettorale: ha modificato il suo posizionamento nei confronti dei leader repubblicani sulla base delle convenienze del momento, è passato in pochi mesi da affermare di non conoscere Putin a elevarlo a interlocutore principale in politica estera, ha dichiarato di non voler speculare sulle infedeltà di Bill Clinton durante un dibattito televisivo salvo poi farlo nel successivo. Trump "va preso seriamente ma non alla lettera", afferma Ronald Klain.

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È un modello esportabile in tutto il mondo?

Le cinque transizioni nelle tattiche di gestione delle polemiche politiche appaiono perfettamente spendibili anche in contesti diversi da quello americano perché raccontano molto bene un diverso tipo di costruzione dell'opinione pubblica, comune a tutte le democrazie con un sistema dei media complesso e un'alta penetrazione digitale. Queste regole non sembrano però applicabili in automatico a qualsiasi candidato: Trump godeva di una notorietà di base altissima, che gli ha garantito una enorme copertura mediatica sin dall'inizio. Emily Bell ha definito il presidente USA una "news organization", non senza ragioni: una definizione di cui si può godere solo se si ha una sostanziosa base di partenza sia economica sia mediatica.

Non è detto che un carneade iperaggressivo e contraddittorio nei suoi messaggi su Twitter goda della stessa esposizione sulla stampa di cui ha goduto il neo-presidente americano all'inizio della campagna elettorale. Ancora: un candidato che si è sempre caratterizzato per la correttezza istituzionale o per la prudenza delle dichiarazioni e che improvvisamente si trasforma in un outsider anti-sistema non risulterà credibile. La coerenza tra biografia individuale e strategia di comunicazione da adottare continua dunque a essere una precondizione irrinunciabile per valutare che tipo di posizionamento adottare in campagna elettorale. Allo stesso tempo sembrerebbe che la capacità di reagire prontamente quando si è sotto attacco da parte di un oppositore politico rappresenti un punto di forza a qualsiasi latitudine. Non a caso, tra i primi leader politici che si candidano a copiare dichiaratamente il modello-Trump spicca un profilo che ha davvero poco a che vedere con il repubblicano americano: il leader laburista inglese Jeremy Corbyn.

Foto anteprima via Getty Images.

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