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La sospensione del vaccino Johnson&Johnson e la comunicazione dell’incertezza scientifica

15 Aprile 2021 10 min lettura

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La sospensione del vaccino Johnson&Johnson e la comunicazione dell’incertezza scientifica

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Di fronte alla seconda temporanea sospensione di un vaccino anti-COVID-19 nell'arco di un mese, dopo il caso del vaccino Oxford/AstraZeneca, ci si interroga di nuovo sulle conseguenze che questa decisione potrebbe avere sulla percezione del rischio e sulle attitudini del pubblico.

La necessità di informare, spiegare, rassicurare spinge molti - non solo scienziati e professionisti della comunicazione, ma anche non addetti ai lavori - a insistere nel riproporre i soliti confronti statistici spiccioli, per dimostrare che la probabilità di incorrere in un evento avverso grave in seguito alla somministrazione di un vaccino è estremamente più bassa di *inserire esempio a piacere* (e qualche volta ci si ingegna anche nell'elencare eventi e accidenti più o meno curiosi per dare alla spiegazione un tono comico e simpatico). Oppure, a invitare le persone a leggere il "bugiardino" di questo o quel farmaco, per verificare come anche l'assunzione di medicinali di uso comune possa comportare numerosi effetti collaterali, molto più frequenti di quelli di cui si parla in questo periodo.

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Anche se dal punto di vista divulgativo questi commenti e interventi conservano una loro utilità e razionalità, nel medesimo tempo, nel contesto in cui ci troviamo, iniziano ad apparire abbastanza bizzarri, oltreché ripetitivi. Sembrano infatti sempre pensati ed espressi come se dovessero servire a convincere una platea di imbecilli, che necessitano del "disegnino" per capire. Cioè, come se la sospensione di un farmaco o di un vaccino la decidesse, appunto, una platea di imbecilli.

«Ma lei lo sa che volare in aereo è cento volte più pericoloso rispetto ad assumere un vaccino testato e autorizzato dagli organi preposti? Lo sa che è più facile morire cadendo dal letto che prendendo un siero anti-Covid?»

Lo chiede il farmacologo Silvio Garattini in un'intervista a Il Messaggero. Rivolge queste domande al giornalista che lo intervista, quasi si trattasse di convincere lui. Mi pare che qui si verifichi un paradosso, data la circostanza. Sono infatti proprio i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e la Food and Drug Administration (FDA), cioè gli «organi preposti», ad avere raccomandato il 13 aprile la temporanea sospensione del vaccino di Johnson&Johnson negli Stati Uniti per verificare la possibile correlazione causale con sei casi (su 6,8 milioni di dosi somministrate) di una forma rara di coaguli di sangue chiamata trombosi del seno venoso cerebrale, in combinazione con bassi livelli di piastrine. Si tratta della stessa condizione che è stata messa in relazione alla somministrazione del vaccino di Oxford/AstraZeneca, su cui si era espressa la European Medicine Agency (EMA).

Non sono, perciò, ovviamente gli enti regolatori ad aver bisogno di quel genere di spiegazioni, che conoscono, così come sono al corrente anche di cosa riportano i bugiardini dei farmaci e dei vaccini che hanno approvato. «Questa è la comunicazione giusta, e semplice, che bisogna fare», dice però Garattini riferendosi a quei lo sa...? pronunciati prima. Ho una grande stima di Garattini, ma in questo caso penso che lo scienziato non colga il punto. Se fosse così semplice la comunicazione da fare, saremmo a cavallo da un pezzo. Piuttosto, la comunicazione che si dovrebbe fare - senz'altro di più e meglio di quanto sia stato fatto finora da parte della stessa Agenzia Italiana del Farmaco - riguarda, tra le altre cose, proprio le decisioni su eventuali sospensioni di un farmaco o di un vaccino, cioè la comunicazione, potremmo dire, in tempo di crisi e di emergenza. Perché questo è esattamente ciò che è successo. Ovvero: come comunicare in modo efficace, chiaro e coerente la necessità di una decisione di questo tipo, a fronte del fatto che dal punto di vista delle evidenze scientifiche non ci sono ragioni per allarmarsi?

Non bastano, purtroppo, la statistica spicciola né le generiche rassicurazioni. Si tratta di comunicare l'incertezza scientifica. Cosa sappiamo e cosa non sappiamo. Cosa, eventualmente, potremmo non arrivare a sapere mai, almeno non nei tempi necessari a portare a termine una campagna vaccinale durante una pandemia. Non è una cosa semplicissima e non è certo la «comunicazione semplice» fatta di qualche banale esempio e spiegazione probabilistica. È evidente che i due elementi, cioè la fiducia nella sicurezza del vaccino e la necessità di sospendere temporaneamente il suo utilizzo, possono facilmente apparire contraddittori. Ma non certo perché la gente non riesca ad afferrare semplici esempi statistici o a convincersi del fatto che un determinato rapporto tra beneficio e rischio, individuale e collettivo, sia molto favorevole. E con tutto che (lo sappiamo) siamo "costruiti male", dal punto di vista cognitivo, per maneggiare numeri e concetti che hanno a che vedere con la probabilità e il rischio.

Quel genere di spiegazioni e rassicurazioni cela spesso il retropensiero, chiamiamolo così, per cui sia sempre tutto da ricondurre alla "irrazionalità" dei non-esperti. Non ci sono state tuttavia, mi pare, sommosse popolari negli Stati Uniti per chiedere di sospendere il vaccino di Johnson&Johnson. Gli stessi media mainstream americani trattano la vicenda in modo più professionale e responsabile di quanto hanno fatto certi giornali italiani parlando del vaccino di Oxford/AstraZeneca. Il New York Times nota che gli enti «hanno fatto quello che avevano promesso di fare e quello che fanno quasi sempre in queste situazioni», anche se, osserva, è giusto chiedersi se ci fossero altre opzioni, cioè se avrebbero potuto indagare il problema senza interrompere la somministrazione del vaccino. Ma la decisione, in ogni caso, «ha senso». Il comunicato congiunto di CDC e FDA afferma:

«Ciò è importante, in parte, per garantire che la comunità degli operatori sanitari sia consapevole del potenziale di questi eventi avversi e possa pianificare un riconoscimento e una gestione adeguati data l'unicità del trattamento richiesto per questo tipo di coaguli di sangue (...) in questo momento, questi eventi avversi sembrano essere estremamente rari. La sicurezza del vaccino COVID-19 è un'assoluta priorità per il governo federale e prendiamo molto sul serio tutte le segnalazioni di problemi di salute a seguito della vaccinazione COVID-19».

Insomma: ci piaccia o meno, questa sospensione l'hanno raccomandata proprio gli enti a cui la collettività ha affidato la responsabilità di farlo. Gli stessi enti la cui competenza e autorevolezza viene chiamata in causa, nella discussione pubblica, per ricordare ai dubbiosi la sicurezza dei vaccini. Enti che funzionano come è previsto che possano funzionare in questi casi. Dopodiché, sono sempre decisioni umane, perciò potenzialmente viziate da limiti, errori ed eccessi. Anche di prudenza, magari, in questo caso. O determinate da considerazioni che possono essere giustificate in un certo contesto.

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Un esempio è la decisione della Danimarca di interrompere l'utilizzo del vaccino di Oxford/AstraZeneca. Le autorità danesi hanno ribadito che il vaccino è sicuro ed efficace e che condividono la valutazione dell'EMA ma, data la disponibilità di altri vaccini e la bassa circolazione del virus che attualmente si registra nel paese, ritengono opportuno non impiegarlo in questo momento.

Nello stesso tempo, hanno sottolineato che non esiterebbero a utilizzare il vaccino Oxford/AstraZeneca se il paese si trovasse ad affrontare una nuova grande ondata o un numero elevato di ospedalizzazioni. E che potrebbero ricominciare a somministrarlo in un secondo momento.

Nessuno nega che questi problemi rappresentino una scocciatura, che sarebbe meglio che non accadessero, che sono un rogna da affrontare sia dal punto di vista della campagna vaccinale che da quello comunicativo. Ma non penso nemmeno che servano, o bastino, certi automatismi "razionalisti" acquisiti in tempi di pace. Come appunto il richiamo agli enti regolatori che garantiscono la sicurezza di un vaccino e che però, a volte, devono raccomandare una sospensione. Sono reazioni e spiegazioni che alla fine tradiscono solo il nostro sconforto o la nostra esasperazione di fronte al fatto che gli eventi non si svolgono con quella razionale linearità che vorremmo. Sconforto che, certo, umanamente comprendo benissimo e che vivo io stesso anche di fronte ad altre questioni. Ad esempio, ogni qual volta - cioè in pratica tutti i giorni - constato che governi e parlamenti non affrontano la crisi climatica come si dovrebbe fare.

Ciò che serve in queste circostanze è, come detto, una comunicazione chiara e onesta dell'incertezza scientifica. La nozione di incertezza è, da un lato, semplice da comprendere ma, dall'altro, difficile da gestire e applicare. L'incertezza, in certi casi, può essere intrinseca alla scienza stessa e derivare da un disaccordo all'interno della comunità scientifica riguardo ai dati e alle evidenze su un certa questione o dal fatto che le nostre conoscenze sono in effetti ancora scarse, come accade ad esempio quando un campo di studi è ancora nuovo. L'incertezza può essere perfino amplificata ed esagerata di proposito per insinuare dubbi riguardo ad evidenze su cui esiste in realtà un ampio e solido consenso scientifico, con l'obiettivo di promuovere un'agenda ideologica e certi interessi economici, come è accaduto con il negazionismo del cambiamento climatico. In qualsiasi caso, la comunicazione dell'incertezza che caratterizza le conoscenze su un determinato argomento richiede che si definiscano in partenza diversi fattori.

Come scrive un gruppo di esperti su Royal Society Open Science, tra questi fattori c'è innanzitutto il chi comunica. Sono gli esperti stessi incaricati di valutare dati ed evidenze (ad esempio: le agenzie regolatorie dei farmaci) o comunicatori professionisti (ad esempio: divulgatori e giornalisti)? Non è una questione irrilevante, perché la fiducia in chi comunica e la sua credibilità possono influire sull'efficacia della comunicazione stessa.

È necessario poi valutare cosa viene comunicato, cioè l'oggetto dell'incertezza e la sua fonte. Su cosa siamo incerti? Si tratta di fatti? Cifre? Modelli o ipotesi scientifiche? L'incertezza origina da un margine di errore statistico? Da una variabilità dei dati, ad esempio in un campione di popolazione preso in esame? Da un'inadeguatezza delle misurazioni, da qualche limite intrinseco nella nostra capacità di misurare e raccogliere i dati? Da una nostra ancora scarsa conoscenza? Da un disaccordo tra gli scienziati?

Dobbiamo poi considerare il livello e la magnitudine di questa incertezza. C'è un'incertezza diretta, che riguarda fatti, dati o ipotesi, e che può essere espressa, ad esempio, attraverso un intervallo di confidenza, e c'è un'incertezza indiretta che riguarda la qualità delle conoscenze e delle fonti su cui si basano fatti, dati o ipotesi.

È necessario anche decidere come comunicare l'incertezza, cioè in quale forma e con quali espressioni. Si può decidere di addentrarsi in dettagliate spiegazioni statistiche e probabilistiche oppure limitarsi ad accennare che esiste ancora un margine di incertezza riguardo a certi dati ed evidenze. Si può pensare di comunicare attraverso numeri, immagini o soltanto espressioni verbali. Senza sottovalutare il fatto che, talvolta, il significato e la percezione di certe espressioni probabilistiche (ad esempio, l'espressione molto probabile) possono essere diversi per gli esperti e per il pubblico.

Il cosa e il come dipendono anche da un altro fattore: a chi vogliamo comunicare? Quali sono le caratteristiche del pubblico a cui ci rivolgiamo? Qual è la sua relazione con l'oggetto della comunicazione? Si tratta, ad esempio, di un'audience vasta e composita, come un'intera opinione pubblica che sta affrontando una pandemia? O è un pubblico più ristretto e selezionato?

Infine, non bisogna dimenticare perché comunichiamo l'incertezza, cioè a quale scopo e quali possono essere gli effetti di questa comunicazione. Si tratta solo di informare o anche di condizionare comportamenti e decisioni? Quali reazioni potrebbe determinare la nostra comunicazione?

Questo schema, in realtà, può essere applicato all'intera comunicazione della scienza, non solo alla comunicazione dell'incertezza. Purtroppo, non possiamo essere sicuri, dal principio, di quali effetti potrebbe generare una discussione aperta e una condivisione trasparente delle informazioni scientifiche. Potremmo dire che esiste una qualche incertezza anche sulla comunicazione dell'incertezza, che del resto è a sua volta un argomento oggetto di studi. Ma, come osservano gli autori della pubblicazione citata, «non riconoscere e comunicare adeguatamente» l'incertezza può determinare conseguenze disastrose. La limitatezza delle conoscenze e l'incertezza caratterizzano inoltre la ricerca in tutte le discipline scientifiche (e, in generale, la conoscenza umana in molti campi del sapere) e riuscire a riconoscerle e comunicarle può aiutare a far comprendere meglio come funziona e procede la scienza stessa.

Nei primi anni '90 i filosofi della scienza Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz hanno introdotto la nozione di scienza post-normale per definire la gestione delle questioni legate alla scienza in quelle circostanze in cui i fatti sono incerti, la posta in gioco è elevata, le decisioni da prendere sono urgenti e in discussione, oltre ai fatti, ci sono anche i valori. La definizione di post-normale richiama, per contrasto, quella di scienza normale applicata dal filosofo della scienza Thomas Kuhn a quelle fasi in cui la ricerca si concentra sullo sviluppo e l'acquisizione di nuove conoscenze. La scienza normale, secondo Kuhn, è una sorta di costante ricerca di soluzioni di rompicapi (puzzle-solving) all'interno dei confini di un determinato paradigma, tra una fase "rivoluzionaria", di rottura, e quella successiva.

La scienza post-normale comprende quelle questioni scientifiche che non interessano solo la comunità degli studiosi e degli esperti, ma che coinvolgono anche il resto della società. Nel corso del '900, e successivamente nell'attuale secolo, i casi di scienza post-normale si sono moltiplicati. Dalla medicina alla sicurezza alimentare, dall'impiego di certe tecnologie alle questioni ambientali, la scienza entra sempre più di frequente nelle nostre vite (anche quando non ce ne accorgiamo) e diventa sempre più intrecciata con la politica, l'etica e l'economia. Anche quando alcuni, decisivi, fatti sono certi e il consenso scientifico è ampio, la posta in gioco può essere decisamente elevata per le conseguenze che comportano certe decisioni, come avviene nel caso della crisi climatica.

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La gestione delle questioni scientifiche che riguardano la pandemia di COVID-19 è un caso di scienza post-normale, data l'incertezza che caratterizza la ricerca (un virus prima sconosciuto, i possibili effetti avversi di vaccini basati su tecnologie impiegate per la prima volta su larga scala, le previsioni sull'andamento dei contagi), la posta in gioco e l'urgenza con cui si devono decidere certi interventi (come quelli su lockdown, restrizioni, chiusure di alcune attività).

In questo scenario di crisi, caratterizzato da una sovrabbondanza di informazioni che diventa spesso caos informativo, comunicare in modo corretto l'incertezza è un'attività che può avere un ruolo critico nel promuovere non solo una maggiore conoscenza, ma anche una partecipazione attiva e consapevole a uno sforzo che coinvolge l'intera collettività.

Foto anteprima Ali Raza via Pixabay

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