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La congiura (inesistente) dello schwa

13 Febbraio 2022 5 min lettura

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La congiura (inesistente) dello schwa

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La prima volta che entrai in contatto con lo schwa fu alla tenera età di vent’anni. Avevo appena cominciato il corso di dialettologia, in università, e non sapevo che sarebbe cominciato da lì il mio amore per le scienze del linguaggio. Nel diagramma vocalico, lo schwa occupa la posizione centrale. Dovete immaginare una sorta di trapezio rovesciato e segnarne le diagonali. La trovate più o meno lì, nel punto di intersezione.

Trapezio vocalico

Questo basterebbe per smentire le argomentazioni di chi viene a spiegarti con una certa sicumera che è un suono che non esiste, una vocale inventata, un simbolo voluto dalla dittatura del politicamente corretto, dalla lobby Lgbt+ e dai cavalieri dell’apocalisse gender. Nulla di tutto questo. È un suono riproducibile. Lo troviamo in molti dialetti italiani e in diverse lingue straniere. Se in vita tua hai cantato almeno una volta il ritornello di Funiculì funiculà hai pronunciato questo suono. Se studiando inglese hai dovuto tradurre il termine pencil, lo hai usato parimenti.

E contrariamente a quanto crede chi teme usi ideologicamente distorti e la fine della nostra civiltà culturale, dubito fortemente che si siano verificate metamorfosi in unicorni (animale totem di tutte le lobby arcobaleno) o che intere produzioni letterarie ottocentesche abbiano subito stravolgimenti: Don Rodrigo, insomma, non ha mandato ə bravə a minacciare don Abbondiə. E nonostante certe ludiche riscritture, come quella di Gian Antonio Stella sul Corriere, la leopardiana Silvia conserva ancora il suo nome.

Eppure, nonostante sia usato da molte persone, al di qua e al di là delle Alpi, ultimamente si assiste a una vera e propria crociata contro questo simbolo. Molto rumore per nulla, direi ancora. Perché schwa deriva da una parola ebraica traducibile con "insignificante". Eppure, ascoltando gli oppositori – uso il maschile generico per rispetto di uomini e donne che hanno firmato una recente petizione, preferendo tale soluzione – siamo di fronte a una minaccia epocale: quella di non meglio identificate forze del male (sbrigativamente racchiuse nel recinto del politicamente corretto) che vogliono distruggere l’italiano, imponendone l’uso.

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E invece no: non esiste nessuna congiura a discapito delle desinenze. Nessun programma di riconversione forzata. Più semplicemente, siamo di fronte a una proposta. Un suggerimento. Per chi, udite udite, vuole adottarlo. Non voglio entrare nella disquisizione linguistica stricto sensu, lasciando il campo a chi si occupa di tali questioni – rimando agli scritti di Vera Gheno e Manuela Manera – ma vorrei soffermarmi sul dato politico che emerge da certe posizioni.

Potrei solo aggiungere che se si teme di regionalizzare l’uso della lingua, non è la prima volta che elementi regionali – lo schwa viene ridotto a suono dialettale del centro-sud – irrompono nell’uso. Ancora oggi le nostre grammatiche presentano quel codesto che si usa prevalentemente in Toscana. E se ne facciamo invece una questione di produzioni culturali, ricordo che studiamo come forma d’arte – nelle nostre scuole – quel futurismo che l’italiano lo voleva sovvertire eccome. E altre lingue ci offrono soluzioni che stravolgono la morfologia entrate poi pienamente nell’uso, come il verlan francese.

Mi incuriosisce invece la reazione di quei settori sociali e del mondo accademico ogni qual volta dalle comunità linguistiche – perché è da lì che le innovazioni si realizzano – sopraggiunge una novità che rimette in discussione i giochi. Soprattutto quando i giochi sono quelli delle realtà dominanti e a impersonare il ruolo di guastafeste troviamo le identità divergenti. Non è la prima volta che succede. Pensiamo, ad esempio, alle concitate reazioni di fronte al femminile nei nomi di professione. Quante volte abbiamo sentito dire che “Ministra” ricorda la minestra, “Architetta” fa rima con tetta,  “sindaca” e “avvocata” sono termini cacofonici? Nessuna obiezione, invece, rispetto a parole come stronzio, che evidentemente non ricorda nulla. E altre come “sesquipedale”, “rincospermo”, “mitocondrio”, “iniziazione” et similia non vengono esiliate dall’uso solo perché di suono sgradevole. Ma tant’è.

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Il problema, insomma, non sembra essere il presunto attacco alla lingua italiana per altro già assediata da neologismi, formule burocratiche poco trasparenti, prestiti non necessari (dal briefing alla call, passando per shopper quando facciamo shopping). Il problema, più in generale, sembra essere un altro: nello spazio linguistico fanno la loro comparsa le istanze dei soggetti "fuori norma". E il fatto che l'accademia si rivolti è paradigmatico.

Lo schwa non critica solo il maschile sovraesteso, ma mette in discussione il binarismo di genere. Se guardiamo i ruoli apicali occupati da maschi tra cattedre e rettorati, oltre alla ridotta presenza femminile, così come il deficit di cattedre in Studi di genere, si comprende il cortocircuito in cui si incappa. Soprattutto a livello simbolico. Sembra di trovarsi, volgarmente parlando, di fronte all'ancien régime che ha paura di morire. Perché sa di scivolare verso una forma di irrilevanza. Fosse non altro per questioni anagrafiche.

Non si capisce, invece, quale potrebbe essere il pericolo di una proposta che, se è vero che viene paracadutata dall’alto (come affermano gli oppositori allo schwa), verrà naturalmente bocciata dalla comunità linguistica, o al più relegata a utilizzi e contesti specifici. Mentre, di contro, se è un fenomeno che sta prendendo piede, non saranno norme prescrittive – queste sì istituite dal principio di autorità – e censorie a impedirne l’uso. Al netto di come la si pensi sulla questione, insomma, sembra un falso problema.

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Il clamore, con la reazione che ne consegue, sembra avere una dimensione che esula dal dato linguistico e coinvolge un sistema di pensiero. E, faccio notare, viviamo un tempo in cui si sta consumando una battaglia tra il vecchio e il nuovo. Tra istanze ultraconservatrici e movimenti di protesta, anche linguistica. Ai posteri, per scomodare ancora Manzoni, l’ardua sentenza. Nel frattempo, non facciamone un dramma. O, peggio, una pantomima.

Immagine anteprima da video Scottecs

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