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Un politico può “bloccare” i cittadini sui social media?

14 Gennaio 2019 10 min lettura

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Un politico può “bloccare” i cittadini sui social media?

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Trump viola la Costituzione quando blocca persone su Twitter

Aggiornamento 10 luglio 2019: Come anticipato nell’articolo è finalmente stata emessa la sentenza relativa al comportamento del Presidente americano Trump, il quale notoriamente tende a bloccare su Twitter gli utenti che osano criticare lui o le sue politiche.

Il New York Times riferisce che secondo il giudice Barrington D. Parker il Presidente Trump ha violato la Costituzione americana bloccando le persone che lo hanno criticato o deriso, e in particolare ha violato il Primo Emendamento. È da precisare che la sentenza non asserisce che i social network sono dei forum pubblici, ma soltanto che se l’account è usato a fini istituzionali non è consentito discriminare le persone bloccandole. L’account non deve essere necessariamente un account fornito dal governo o da un ente pubblico, ciò che conta è l’uso che viene fatto. Se tramite quell’account il politico annuncia politiche governative ufficiali, è un account usato a “fini istituzionali”.

In estrema sintesi il discorso del politico è considerato discorso pubblico, quindi deve essere aperto a tutti e leggibile da tutti, senza alcuna discriminazione o filtraggio.

 

Some people’s idea of free speech is that they are free to say what they like, but if anyone says anything back, that is outrage. 

L’idea di alcune persone della libertà di parola è che sono liberi di dire quello che vogliono, ma se qualcuno gli risponde, lo considerano oltraggio (Winston Churchill).

La democrazia e il forum pubblico di discussione

Cos’è la democrazia?

Il saggista scozzese Thomas Carlyle la definiva acidamente il “governo della chiacchiera” (government by talk). A suo parere era impossibile prendere sul serio qualcosa che impegna centinaia di persone in futili chiacchiere.

In realtà democrazia vuol dire “potere del popolo” (kratos del demos) e, spiegava Giovanni Ferrara su LibertàGiustizia, indica che le istituzioni devono avere un carattere esteso, tendenzialmente egualitario. In tal senso la democrazia è l’opposto dell'oligarchia e della tirannide.

Ad Atene la democrazia si reggeva sulla maggior forza economica e militare, cioè i rematori, i combattenti, i costruttori delle navi, persone non alfabetizzate né ricche, appunto il popolo. Gli antichi filosofi greci (Aristotele, Platone) non erano favorevoli alla democrazia, in quanto è una forma di governo che favorisce i “più”, i ceti inferiori. Da un’ottica conservatrice, quindi, la democrazia è eversiva, perché dà il potere alla massa ignorante a dispetto dei pochi, ricchi e acculturati.

Per secoli “democrazia” è stata una parolaccia, che ha acquisito una rilevanza straordinaria solo nel mondo moderno, quando finanche i regimi più autoritari preferiscono auto-definirsi “democratici”. Ma questo non vuol dire che il processo si sia consolidato per sempre. Ci sono stati periodi nei quali le “democrazie” diminuivano. L’Italia fascista e la Germania nazista sono stati indubbiamente dei passi indietro rispetto ai governi precedenti.

La democrazia non è, quindi, una conquista garantita, ma un percorso, un processo che deve essere rinverdito costantemente per non ricadere negli errori del passato. L’errore di Carlyle era di sottostimare il valore del discorso. Il discorso, il dialogo, lo scambio di opinioni, sono essenziali perché le idee attraverso il dialogo vengono chiarite e migliorate o, eventualmente, sul lungo periodo scartate. Carlyle si dimostrò incapace di apprezzare l’aspetto più profondo della democrazia, cioè la comunicazione, la consultazione, lo scambio di idee tra persone di diverse estrazioni e condizioni sociali, che porta a evidenziare e chiarire le problematiche di tutti.

Parafrasando Giorgio Gaber, che in realtà parlava di libertà, la democrazia non è “star sopra un albero”, “non è uno spazio libero”, ma è partecipazione. Vuol dire che tutti dovrebbero essere in relazione con gli altri. E la politica dovrebbe favorire questo approccio educativo e sociale, la distruzione di muri familiari e barriere di classe.

"Leggi anche >> La libertà di espressione nell’era dei social network

Per questo motivo la libertà di manifestazione del pensiero è un pilastro fondamentale di ogni democrazia che si rispetti. La libertà di esprimere liberamente, e senza interferenze, le proprie opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo, in quanto consente a tutti di partecipare al dibattito politico e sociale non solo in senso formale ma sostanziale, e quindi allo sviluppo della società, è l’espressione più pregnante del principio personalista che evidenzia che è lo Stato a servire il cittadino, e non viceversa (articolo 2 Costituzione).

Una delle caratteristiche essenziali di una democrazia è il controllo delle azioni (od omissioni) del governo da parte, non solo delle autorità giudiziarie, ma anche dell’opinione pubblica. Tale controllo si intreccia con la libertà di esprimere le opinioni, e trova un suo mezzo di esercizio anche nelle nuove tecnologie, Internet e i social media, laddove con essi la libertà di espressione diventa sostanziale e non solo potenziale (come era, invece, ai tempi dei vecchi media, giornali e televisione, ai quali i cittadini comuni non hanno nessuna possibilità di accesso).

Il problema è che le élite politiche contestano il principio democratico, ritenendosi superiori alla massa e quindi si mostrano impermeabili alle critiche e alle opinioni dei cittadini. L’esempio più eclatante è il presidente degli Usa, Trump, che “blocca” gli account dei suoi contestatori sui social network. Un comportamento del genere è invalso ultimamente anche in Italia.

Ma negli Usa una recente sentenza si è occupata della questione.

Silenziare il dissenso

Il 7 gennaio, una corte d'appello federale in Virginia ha accolto le richieste di un cittadino, Brian Davison, nei confronti del presidente del consiglio dei supervisori della contea di Loudoun, Phyllis Randall. In breve la corte ha deciso che un funzionario della contea che “blocca” il cittadino, impedendogli di scrivere sulla pagina Facebook usata dal funzionario a fini istituzionali, viola la legge.

La sentenza della corte d’appello (qui l'analisi di Guido Scorza) chiarisce che la pagina Facebook, a differenza di un profilo personale, è uno strumento di supporto alle attività di impresa e alle organizzazioni, anche istituzionali. Nel caso specifico Randall, che aveva personalmente aperto la pagina, la usava per le proprie attività istituzionali. Da quella pagina si rivolgeva ai cittadini nel suo ruolo istituzionale, invitandoli a commentare per esprimere le loro opinioni.

Secondo la corte d’appello, il fatto che la pagina fosse utilizzata da un componente dell’ente pubblico, a fini istituzionali (acted under the color of state law), rende la pagina stessa una sorta di forum pubblico, nonostante fosse ospitato su un servizio privato (Facebook, nei quali termini di servizio è chiarito che l’utente rimane proprietario dei contenuti immessi), e nonostante il fatto che fosse stata aperta da Randall e gestita interamente da Randall, e non dal municipio.

I cittadini, come Davison, potevano mettere Like oppure commentare i post di Randall sulla pagina. Vari commenti erano di critica all’operato del municipio e alle attività istituzionali di Randall. In particolare Davison criticava le spese delle scuole pubbliche, esprimendo preoccupazione per la scarsa trasparenza e i conflitti di interesse dei membri istituzionali. In qualche caso Randall rispondeva ai commenti.

In una riunione (alla quale partecipò di persona) Davison espresse critiche sull’operato “non etico” del membri dello School Board nell’approvazione delle spese. Randall non apprezzò la critica, per cui Davison la esplicitò sulla pagina Facebook. Anche se entrambi non ricordano nei particolari il contenuto del commento, Randall ha precisato nel corso del giudizio che conteneva accuse (accusations) nel confronti dello School Board in relazione a conflitti di interesse delle famiglie dei membri del Board (taking kickback money). Randall precisa di non avere idea se le accuse fossero vere o false, ma comunque cancellò il post bannando Davison. Il ban lo revocò il giorno dopo, il post rimase cancellato.

Davison, quindi, lamenta una violazione dei suoi diritti costituzionali da parte di Randall, in sostanza una discriminazione basata sulla sua opinione (viewpoint discrimination), impedendogli di esercitare la libertà di parola in un forum pubblico, senza nessun previo avviso e senza alcuna possibilità di impugnare il blocco. La corte d’appello conclude nel senso che il comportamento di Randall costituisce una violazione del Primo Emendamento, cioè in sostanza una violazione della libertà di parola in un forum pubblico.

Nella sentenza ci sono riferimenti ai social media, richiamando i precedenti in materia, ed inoltre un parere aggiuntivo del giudice Milano Keenan, il quale, pur confermando la decisione, ci tiene a rimarcare la necessità di una più approfondita analisi dei social media, definiti dalla Suprema Corte come “le moderne piazze pubbliche” (Packingham v. North Carolina), con ciò implicando che i principi del Primo Emendamento, e quindi della libertà di espressione, devono essere protetti anche sui social media.

Questa decisione è molto importante, anche in considerazione del fatto che si attende una analoga decisione (dal Secondo circuito) sul comportamento del Presidente Trump, che blocca su Twitter gli utenti che osano criticare lui e le sue politiche. A tale proposito occorre dire che già nel maggio del 2018 un giudice del distretto meridionale di New York aveva sostenuto le stesse cose.

Secondo i ricorrenti, il Knight First Amendment Institute, il feed del presidente Trump su Twitter costituisce di fatto un “forum pubblico”, ed escludere un cittadino da quel luogo virtuale equivale ad escluderlo dalla vita pubblica, dal dibattito pubblico e quindi a limitare il diritto alla libertà di parola.

Secondo il giudice federale (qui la decisione), un funzionario governativo non è obbligato a rispondere e nemmeno a leggere ciò che i cittadini gli scrivono in uno spazio virtuale pubblico (come il feed su Twitter), ma bloccarlo (ban) impedisce a quel cittadino di vedere i tweet e di rispondere, cioè di partecipare al dibattito pubblico. E questa è una violazione dei suoi diritti costituzionali.


Negli USA è una sempre più comune per i funzionari statali bloccare gli account dei cittadini che criticano le loro politiche. Ed anche in Italia aumentano le segnalazioni di politici che bloccano i loro oppositori, i cittadini critici verso di loro, come anche l’attuale ministro degli Interni.

Anziché rispondere alle critiche, alle osservazioni, alle opinioni dissenzienti, è più facile silenziare i dissidenti, ma tale comportamento tradisce lo stesso mandato dell’istituzione che rappresentano.

Dialogo e partecipazione

È vero che in Europa non abbiamo un Primo Emendamento, ma nella sostanza la normativa, sia nazionale che internazionale a tutela della libertà di espressione è equivalente. “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, chiarisce l’articolo 21 della Costituzione italiana.

Alcuni sostengono che un governo non può seriamente interferire con la libertà di pensiero, ma pensare in assoluta solitudine è inutile, il pensiero non comunicato agli altri è irrilevante, la reale qualità delle nostre opinioni dipende dalla possibilità di comunicarle agli altri, di condividerle e discuterle. Le idee non hanno alcun valore se non possono essere espresse, per cui una qualsiasi limitazione o interferenza con la capacità di esprimere tali idee di fatto viola i diritti costituzionali dei cittadini.

La libertà di manifestazione del pensiero, infatti, è il diritto di poter esprimere liberamente le proprie opinioni e, in tal modo, esercitare non solo la sovranità popolare, ma anche il controllo sull’operato dei funzionari pubblici, compreso i ministri e il presidente del Consiglio. Nessuno escluso.

E nel momento in cui un funzionario pubblico, come un ministro, apre una pagina Facebook o un account Twitter, dai quali esprime le proprie opinioni politiche e fa propaganda a sé e alle sue idee, nel momento in cui quella pagina è usata a fini istituzionali, deve accettare nell’ambito degli obblighi e doveri del suo ruolo istituzionale, il dialogo con tutti. Insomma, un funzionario pubblico che blocca un cittadino sui social media impedendogli di criticare il suo operato, viola la libertà di espressione, costituzionalmente tutelata anche in Italia.

La libertà di espressione, il diritto di poter esprimere le proprie opinioni e eventualmente anche di dissentire sulle politiche del governo, sono diritti essenziali per ogni democrazia. Perché si è visto che le dittature non si instaurano solo con la forza, ma anche con la persuasione, che è più efficace della coercizione. La libertà di poter discutere e criticare le idee politiche è il mezzo migliore per evitare che si scada in una dittatura. Una volta che un’idea è esposta al pubblico, si apre una discussione e le politiche del governo si evolvono (o dovrebbero, in una democrazia) in base alla discussione. La piena e libera discussione di un’idea serve, appunto, per portarne alla luce gli aspetti negativi. Sul lungo periodo possiamo confidare nel fatto che gli essere umani tendono a rigettare le idee più assurde, se queste sono espresse apertamente e discusse pubblicamente. L’essere umano è tendenzialmente abitudinario, non gradisce i cambiamenti, e ciò frena le idee radicali, per cui possiamo confidare nel fatto che la maggioranza delle persone preferisce condurre una vita pacifica, e quindi tende a rigettare le idee così radicali da minacciare l’ordine sociale.

Infatti, se guardiamo alla Storia, quando un popolo ha accettato delle idee radicali, come sottostare ad una dittatura, lo ha fatto non tanto per la convinzione nell’idea quanto piuttosto perché soffriva la penuria di cibo, perché il benessere si concentrava nelle mani di poche persone, perché la sicurezza era minacciata. Un’idea radicale, un governo tirannico, sono accettati non per l’idea stessa ma per le circostanze nelle quali si presenta. Circostanze spesso indotte dalle medesime forze politiche che poi ne approfittano. Come cavalcare la stupida “tesi del diverso”. Il dialogo col diverso, invece, ci farebbe comprendere che sbagliamo ad avere pregiudizi sulle persone, e che le differenze arricchiscono entrambe la parti.

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È l'associazione delle persone, di tutti i cittadini che consente un vero sviluppo della società, ed è il risultato della comunicazione e del dialogo continuo, anche eventualmente aspro, tra i cittadini. L'associazione è il vero fine delle organizzazioni sociali, non la mera aggregazione, come pecore che si radunano per cercare protezione (del capo) e cibo. L’associazione serve per condividere idee ed esperienze, per raggiungere scopi comuni. La misura della civiltà è data dal valore della vita sociale, della cultura, dello scambio di opinioni rispettoso degli altri, del dialogo tra le parti, dalla presa di coscienza che il nostro benessere è correlato a quello di tutti gli altri. Un sano dialogo è la “cura” migliore per il razzismo e le guerre.

Un leader lungimirante sa che nella tolleranza delle idee dissidenti c’è la valvola di sfogo di una democrazia. Quindi, "bloccare" i cittadini sui social, impedire loro di partecipare al dibattito pubblico, è un errore, oltre che una violazione dei loro diritti costituzionali. In effetti, un tale comportamento mostra soltanto che il politico ha paura delle idee del cittadino, è il sintomo evidente che il potere del politico di turno non si basa sul consenso ma sulla repressione, che teme una parte dell’elettorato, che non è al servizio di tutti. La paura degli altri, delle idee altrui, la repressione o la limitazione, il blocco del discorso altrui sui social costituisce un tratto distintivo della tirannia sociale, evidenzia la sfiducia nelle persone, ed è il primo passo verso la tirannide.

Foto anteprima via iheart

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