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Dalla gestione Covid alla didattica obsoleta: le ragioni della protesta e delle occupazioni studentesche

21 Dicembre 2021 13 min lettura

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Dalla gestione Covid alla didattica obsoleta: le ragioni della protesta e delle occupazioni studentesche

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di Chiara Adinolfi

Con la ripresa delle lezioni in presenza è tornata anche la stagione delle occupazioni studentesche, che tradizionalmente si accendono nel periodo autunnale per poi spegnersi con il nuovo anno. In questi mesi, però, la mobilitazione studentesca ha assunto una rilevanza notevole e raggiunto numeri che non si vedevano dagli anni della riforma della ‘Buona scuola’ di Matteo Renzi, che portò in piazza studenti, docenti e dirigenti. 

A Roma, in particolare, le scuole occupate dall’inizio dell’anno sono state ormai più di 50, dal centro alla periferia. Quest’anno la protesta ha pervaso più quartieri di Roma, vedendo l'iniziativa di scuole come il liceo ‘Kant’ a Tor Pignattara, l’istituto ‘Giorgi-Woolf’ di viale Palmiro Togliatti e il ‘Neumann’ a Monti Tiburtini, oltre che di quegli istituti storicamente coinvolti nel dibattito politico, come i licei ‘Tasso’ e ‘Righi’, che ogni anno partecipano alle mobilitazioni. In alcuni casi la protesta delle scuole ha abbracciato tutto il territorio, come nel Municipio III, dove l’occupazione delle due sedi del liceo ‘Nomentano’, organizzata con i licei ‘Orazio’, ‘Aristofane’ e ‘Archimede-Pacinotti’, ha dato vita a un dialogo con le istituzioni del municipio.

Anche se con sfumature diverse in ogni scuola, le occupazioni hanno portato avanti rivendicazioni simili. Ad alimentare l’insofferenza degli studenti e delle studentesse sono soprattutto le rigide norme anti-Covid, in particolare lo scaglionamento degli orari di ingresso, in vigore da inizio anno per evitare il sovraffollamento sui mezzi di trasporto e gli assembramenti al momento del suono della campanella. Nella provincia di Roma, in molte classi delle superiori l’orario di inizio delle lezioni è slittato dalle 8 alle 9.40, facendo quindi terminare l’orario scolastico nel primo pomeriggio. Ad accusare i disagi maggiori sono stati soprattutto gli studenti delle periferie, che impiegano più tempo per tornare a casa con i mezzi pubblici. Il 1° ottobre gli studenti del liceo ‘Da Vinci’ di Maccarese, frazione di Fiumicino, non sono entrati a scuola e hanno appeso fuori dai cancelli lo striscione: “Negli stadi ammucchiati, a scuola scaglionati”. Per i ragazzi e le ragazze del liceo, infatti, entrare alle 9.40 vuol dire uscire alle 15.20, e tornare a casa tra le 16.30 e le 17. Rendendo difficile dedicare tempo allo studio, ai compiti, e ad attività ricreative come sport e musica. In un sondaggio realizzato dai giovani della Rete Studenti Medi, che ha raccolto circa 3mila risposte sulla condizione degli alunni al rientro tra i banchi, è emerso che il solo il 3,8% degli studenti era soddisfatto dell’orario di ingresso. I giovani hanno manifestato più volte sotto la sede della prefettura di Roma e sono stati ricevuti negli uffici del Prefetto chiedendo di anticipare l’orario di ingresso, ma la situazione non è cambiata. 

Roma è anche una delle città con il più alto numero di studenti e poca disponibilità di aule, con molti istituti ospitati in edifici storici della città dov’è difficile garantire il distanziamento e l’areazione dei locali. Al liceo ‘Visconti’, che ha sede in piazza Collegio Romano, l’occupazione è iniziata lo scorso 7 novembre proprio a causa dei pochi spazi a disposizione degli studenti. “L’anno scorso il Ministero dei Beni Culturali (Mibact) ci ha negato degli spazi a uso didattico, adiacenti alla nostra porzione di Collegio romano, costringendoci di fatto a restare in DaD", avevano scritto gli studenti nel comunicato che annunciava la loro occupazione. "Quest’anno, per i lavori di riparazione del solaio, oltremodo lenti per responsabilità formale della Soprintendenza ai monumenti di Roma, organo del Mibact, un’intera sezione, ogni due mesi, deve recarsi in una succursale nei pressi di largo Argentina, frammentando la vita della comunità studentesca, già reduce di troppi contraccolpi, oltre a dover cambiare orario ogni due mesi”. 

In un’intervista rilasciata pochi giorni fa Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma, ha detto che “nelle scuole le misure di sicurezza profilattiche sono rispettate al 99%: non ci sono assembramenti, vengono indossate le mascherine, e si utilizza il gel disinfettante. Ma se ci sono classi con 28-30 alunni in spazi ristretti, tutto ciò non basta”. I fondi del PNRR mettono a disposizione 800 milioni di euro per il piano di costruzione di 195 nuove scuole che sostituiranno i vecchi edifici, ma “ci vorranno almeno 4 anni per vedere realizzati questi istituti", sottolinea Rusconi. "E cercare situazioni esterne alle scuole si è rivelato insufficiente. I Comuni hanno fatto pochissimo. A Roma alcune scuole hanno chiesto di utilizzare spazi del Comune completamente vuoti, ma la risposta è stata un secco no, senza spiegazioni”. 

Ma oltre ad orari e spazi, i ragazzi e le ragazze contestano anche le norme anti-Covid, ritenute troppo rigide all’interno degli istituti. “Mentre al di fuori della scuola fino ad ora è stato possibile mangiare al ristorante, prendere mezzi pubblici e treni regionali, partecipare a manifestazioni e cortei e frequentare negozi e centri commerciali, gli studenti sono costretti a un regime ferreo, semicarcerario”, avevano scritto i giovani del liceo ‘Azzarita’, ai Parioli, nel manifesto della loro occupazione. Tra tutte, la misura più sofferta è l’impossibilità di svolgere la ricreazione: anche durante la pausa didattica, infatti, gli studenti non possono uscire liberamente dalle aule e hanno l’obbligo di indossare le mascherine per tutto il tempo di permanenza all’interno degli spazi scolastici. 

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Dopo due anni di didattica segnata dalla pandemia, quindi, serpeggia tra gli studenti la sensazione che non si sia fatto abbastanza per la scuola. E che gli studenti siano la categoria che sta ancora pagando il prezzo più alto. La pandemia, però, è stata anche l’occasione per affrontare problematiche che il comparto istruzione si porta avanti da tempo, come una didattica ancora dominata da lezioni frontali e programmi scolastici che non affrontano i temi della contemporaneità. Negli ultimi anni, anche a seguito della crescita di grandi movimenti giovanili transnazionali come quello dei ‘Fridays for future’ e del ‘Black Lives Matter’, è aumentata nelle giovani generazioni nate dopo gli anni 2000, l’esigenza di approfondire temi legati alla storia contemporanea e all’attualità. Per questo i ragazzi chiedono più ore di storia, l’introduzione dell’educazione sessuale e ambientale e sportelli di ascolto che possano essere d’aiuto ai giovani che psicologicamente risentono ancora degli effetti del lockdown.

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Dopo aver occupato e organizzato corsi nei loro istituti, i collettivi dei licei ‘Righi’, ‘Orazio’ e ‘Manara’ hanno aperto un dialogo con il governo. Il 3 dicembre la sottosegretaria all’Istruzione Barbara Floridia ha partecipato a un’assemblea organizzata dai giovani dei tre collettivi a villa Borghese per ascoltare le loro rivendicazioni, ma il bilancio dell’incontro non ha soddisfatto gli attivisti. Dopo aver invitato gli studenti a dialogare attraverso le forme di partecipazione già esistenti, come le Consulte provinciali degli studenti, la sottosegretaria ha presentato gli investimenti del governo stanziati per il comparto istruzione, e il piano ‘Rigenerazione scuola’, che coinvolgerà i ragazzi con lezioni e incontri sull’educazione ambientale. In merito alla richiesta di dare più spazio agli eventi della storia recente, Floridia ha detto invece che “tagliare le ore di storia e geografia in passato è stato un errore gravissimo”, ma che per aumentarle “è necessario lo stanziamento di fondi notevoli per lo Stato”, sottolineando che nell’ambito dell’autonomia i docenti possono affrontare anche altre tematiche di attualità, che si distanziano dal programma canonico. “Quello che chiediamo non è una scuola che ci prepari meglio al mondo del lavoro, ma una rivoluzione culturale", aveva sottolineato in quella occasione Federico, rappresentante di istituto del liceo ‘Righi’. "Chiediamo una scuola diversa, più aperta, e più spazi di confronto”. 

L’innovazione didattica che si era avviata con l’esperimento delle lezioni a distanza, non si è quindi tradotta, secondo gli studenti, in una vera e propria transizione scolastica. Rientrati in presenza, ragazzi e ragazze speravano che la lezione frontale sarebbe stata rivista alla luce delle esperienze più positive della didattica digitale integrata. Ma nella maggior parte dei casi si è ritornati alla vecchia lezione frontale. “Chiediamo un’altra scuola, con un rapporto diverso tra studente e professore, una didattica che ci accompagni nello sviluppo", spiega a Valigia Blu Luca Bertuccio, studente del liceo scientifico ‘Nomentano’ e membro della Rete Studenti Medi. "Il nostro obiettivo a lungo termine è una riforma strutturale della scuola. E per avviarla sono necessari più fondi. Serve un’istruzione diversa”. Secondo lo studente, la prima tematica da affrontare è quella della salute mentale: dopo il lockdown i disturbi dell’alimentazione sono aumentati esponenzialmente. “Nella mia scuola c’è uno sportello di ascolto nella sede centrale, ma è attivo per due ore, un giorno alla settimana, e noi siamo circa 1.200 studenti", spiega Luca. "Forse questo è il tema più urgente da affrontare, e la scuola non lo sta facendo”. 

“Il PNRR dà risposte insufficienti alla generazione futura", avevano scritto gli studenti del liceo ‘Machiavelli’ nel testo in cui comunicavano la loro occupazione, a fine novembre. "Non è possibile che quello che in altri paesi viene chiamato ‘Next Generation’, in Italia sia solo una manovra politica che non permetterà a ragazzi e ragazze un futuro stabile. E che gli investimenti non aiuteranno a risolvere i problemi cronici della scuola italiana, edilizia e didattica in primis. Vogliamo essere ascoltati. Siamo convinti che la creazione di corsi tematici in un edificio scolastico occupato sia il giusto segnale per rendere gli studenti e le studentesse più partecipi e sensibilizzati ad un mondo dal quale sono costantemente allontanati”.

Durante le varie occupazioni, studenti e studentesse hanno organizzato corsi sulla transizione verde, l’identità di genere e sugli eventi storici recenti che non trovano spazio nei programmi scolastici, come il G8 di Genova. Al ‘Righi’ durante la settimana di autogestione sono stati ospitati l’attivista Pietro Turano e, in video-collegamento, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Al liceo classico ‘Tasso’ sono state organizzate lezioni di geopolitica con Lucio Caracciolo, e un incontro sulla giustizia con l’avvocato di parte civile del processo Cucchi. Ma se in alcune scuole si sono svolte rassegne stampa e corsi con ospiti autorevoli, in altre le occupazioni sono durante per lo più un paio di giorni, e non c’è stato spazio per prove di didattica alternativa. 

In aggiunta, se anche la protesta studentesca porta avanti rivendicazioni che spesso trovano d’accordo docenti e dirigenti, nei fatti le occupazioni finiscono per gravare ancora di più sul lavoro del personale scolastico. “Nei loro comunicati i ragazzi scrivono sempre che le loro proteste non sono contro la scuola ma contro i vertici", dice Cristina Costarelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi (ANP) del Lazio e dirigente del liceo ‘Newton’. "Eppure è la scuola a risentirne, e siamo noi dirigenti a dover gestire poi gli effetti dell’occupazione. Riconosciamo le loro rivendicazioni, ma dopo queste proteste cosa abbiamo risolto? Avremmo solo fatto altri giorni di didattica a distanza e speso soldi per sanificare e rimettere in ordine la scuola. Soldi che avremmo potuto spendere in altro modo. Docenti e dirigenti sono i primi a condividere le motivazioni delle proteste portate avanti dagli studenti, ma quello che cerchiamo di dirgli è che la via dell’occupazione non porta a nulla. La storia ci dice che i risultati vengono dal dialogo”.

Anche sul tema di una didattica diversa, Costarelli è d’accordo solo in parte con gli studenti. “Non è vero che non è stato fatto nulla e che l’esperienza della DaD è passata in secondo piano", ha spiegato. "Da quando la scuola è ripresa abbiamo organizzato tante attività, dal Piano estate ai percorsi di recupero per i giovani rimasti indietro. Stiamo facendo molti sforzi, forse si poteva fare di più, ma abbiamo fatto tanto”.

Negli ultimi giorni anche il presidente dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, Rocco Pinneri, in una nota ha condannato le occupazioni e invitato gli studenti al confronto nelle sedi previsti, come i tavoli di confronto con i rappresentanti eletti nelle Consulte studentesche e con le associazioni che rappresentano i genitori. “È in quelle sedi che, democraticamente, si possono approfondire le difficoltà, per cercare soluzioni condivise. Soluzioni che non possono arrivare dalle occupazioni, poiché ogni azione di forza interrompe, per sua natura, il dialogo. Soprattutto, va ricordato che ci sono studentesse e studenti che vorrebbero, come loro diritto costituzionale, entrare a scuola e svolgere regolarmente lezione", scrive Pinneri. "Va tutelato il diritto di ciascuna e ciascuno”. 

Da parte di presidi e istituzioni, quindi, la condanna sulle modalità di protesta (l’occupazione) è unanime. Ma allo stesso tempo inizia a serpeggiare la sensazione che qualcosa stia avvenendo. “I giovani chiedono una scuola a misura di studente, che sia sicura e che sia punto di riferimento sul territorio, accessibile ed inclusiva", aveva scritto su Facebook l’assessora alla Scuola, Lavoro e Formazione di Roma Capitale, Claudia Pratelli, in occasione di un suo incontro con gli studenti del ‘Nomentano’. "Non puntano il dito contro la loro scuola, ma pongono domande di sistema, sulla scuola e sul modello di sviluppo. Credo che dopo due anni di didattica a singhiozzo, di chiusure degli spazi di socialità, sia necessario aprire canali di confronto con chi più di tutti ha pagato il prezzo della crisi sanitaria e di tutte le criticità che il sistema scuola portava in seno”.

Ma presidi e docenti ritengono che spesso gli alunni siano condizionati da elementi esterni alla scuola, e che si facciano trascinare da forze politiche che non conoscono le dinamiche degli istituti. Lo dimostrerebbe, secondo alcuni dirigenti, il fatto che la maggior parte dei comunicati post-occupazione sono simili tra loro, e scritti con un linguaggio che non appartiene agli studenti. 

Tra i movimenti cresciuti molto ultimi mesi c’è anche OSA, acronimo per Opposizione Studentesca d’Alternativa: un’organizzazione politica di studenti nata nel 2018 che si dichiara anticapitalista, antifascista e antisessista. “Ci impegniamo in prima linea nella lotta per la giustizia ambientale, contro le discriminazioni e le disuguaglianze di genere, nel supporto attivo alle lotte dei lavoratori, contro l’abbandono delle periferie e dei territori", scrivono nel testo di presentazione pubblicato sul loro sito. "Siamo gli studenti che nel XXI secolo si pongono in continuità con il movimento rivoluzionario internazionale, che anche nella sua componente studentesca, oggi come ieri è ed è stato il motore del progresso sociale e della creazione di sistemi sociali alternativi”. 

Prima della grande ondata di occupazioni, OSA aveva contatti in circa 25 scuole, un numero che secondo gli organizzatori sarebbe raddoppiato negli ultimi mesi. “Siamo diventati un’organizzazione in cui anche gli studenti non di OSA si riconoscono e ci contattano per aiutarli ad organizzare le proteste”, spiega Francesca, attivista di OSA, a Valigia Blu. Anche grazie all’impulso dei social, infatti, il movimento si è fatto conoscere, e spesso viene coinvolto nelle occupazioni, aiutando i giovani di scuole poco organizzate che vogliono mobilitarsi. Si tratta di scuole in cui spesso non si è mai organizzata un’azione politica; scuole in cui non si sa cos’è un ‘picchetto’ né scrivere uno striscione. “Noi gli offriamo un aiuto pratico, portiamo materiali e striscioni, poi segue un momento di discussione e iniziamo a creare una rete", spiega ancora Francesca. "Sarebbe meglio se la consapevolezza politica fosse già matura, ma nel momento in cui scoppia una protesta dovuta a un malcontento generale non possiamo che cavalcarla”. Dopo le occupazioni, quindi, si organizza un’assemblea, e con il supporto di Osa si svolgono corsi sull’educazione sessuale o la storia dei movimenti politici. “Questa è la modalità più diretta che gli studenti hanno individuato per farsi sentire – aggiunge ancora Francesca - poi, le assemblee e i gruppi che creiamo in queste occasioni continueranno a mobilitarsi”.

Nelle occupazioni gestite da OSA gli studenti hanno più volte denunciato azioni da parte della polizia, al contrario di altre mobilitazioni più pacifiche. Al liceo artistico ‘Ripetta’, occupato a metà ottobre, gli studenti hanno protestato contro metodi di sgombero violenti. Un racconto che stride con quello della dirigente, secondo la quale “nessuno è stato picchiato. La polizia ha usato gli scudi per non far entrare altri studenti nella scuola occupata e un ragazzo ha urtato lievemente la guancia contro uno scudo”. In occasione dell’occupazione del liceo ‘Russel’, su via Tuscolana, uno studente ha denunciato “un’operazione repressiva per sgomberare l’occupazione”, ma dopo pochi minuti la questura ha chiarito che non era in atto alcuna operazione di sgombero. Al ‘Plauto’, invece, gli agenti avrebbero bloccato il tentativo di occupazione portando i ragazzi in commissariato con la violenza. 

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Secondo la Rete Studenti Medi, questo tipo di azioni offuscano le vere ragioni della protesta. I giovani della Rete ritengono che questi momenti di mobilitazione debbano essere condivisi e costruiti dal basso insieme agli studenti e alle studentesse dell’istituto. Ma, commenta Michele Sicca a Valigia Blu, “utilizzare questi momenti per cercare visibilità, magari cercando uno scontro, come abbiamo visto fare ad OSA in molte occasioni, danneggia gli studenti e le studentesse e le loro rivendicazioni”. Per Sicca, quindi, la mobilitazione delle scuole va vista anche in maniera critica, sulla base dei percorsi fatti dai singoli istituti e sulla direzione che dovrebbero prendere le rivendicazioni.

“Non c’è ancora la consapevolezza per la nascita di un vero movimento: spesso l’unico legame tra le varie mobilitazioni è la bandiera che spunta fuori dalla finestra della scuola. Ma cosa succede dopo?", si chiede Michele Sicca. "È evidente che c’è un sentimento di rabbia, e questo disagio va registrato. Ma perché questo movimento si sostanzi in un vero cambiamento, c’è bisogno di mettere a frutto quella rabbia in una costruzione comune”.

Venerdì 17 dicembre gli studenti sono scesi in piazza per l’ultimo corteo di protesta prima delle vacanze natalizie. Da gennaio, il sentimento di malcontento inevitabilmente si spegnerà, ma una nuova consapevolezza potrebbe aver risvegliato il mondo della scuola. “Spero che si possa iniziare un lavoro serio, a livello nazionale. Da due anni abbiamo ricevuto una serie di promesse su una rivoluzione del mondo scuola post pandemia, e ci siamo resi conto tutti che queste promesse sono state tutte disattese", conclude Michele Sicca. "Speriamo di venire ascoltati”.

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