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La normalizzazione mediatica dell’estrema destra: dall’alt-right ai “sovranisti”

29 Giugno 2019 28 min lettura

La normalizzazione mediatica dell’estrema destra: dall’alt-right ai “sovranisti”

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28 min lettura

L’alt-right e Charlottesville

Nell’agosto 2017, la città di Charlottesville in Virginia vide sfilare neonazisti, suprematisti bianchi e altri gruppi di estrema destra nel raduno Unite the right. Un raduno indetto per protestare contro la decisione di rimuovere la statua del generale sudista Robert E. Lee. La rimozione fu vista dall’estrema destra come un attacco all’uomo bianco e la concretizzazione della sua apocalisse razziale: la sostituzione etnica, portata nel cuore dell’America dal cavallo di Troia del multiculturalismo.

Ci furono scontri con i contro-manifestanti - dai militanti antifa ai semplici cittadini che non vedevano di buon occhio quell’invasione di svastiche, bandiere confederate, slogan antisemiti e sfilate paramilitari. Le tensioni raggiunsero un terribile punto di non ritorno quando un suprematista balzò su un veicolo e investì i contro-manifestanti, uccidendo una donna, Heather Heyer, e ferendo 19 persone. Al volante era il neonazista James Alex Fields Jr, che proprio ieri è stato condannato all'ergastolo per l'attentato.

Charlottesville e il raduno Unite the right sono stati un punto di svolta per la percezione nel mainstream dell’alt-right: un calderone che fino ad allora era perlopiù considerato un fenomeno soprattutto online, da community come 4chan, il sito creato da Christopher Poole e diventato negli anni un massiccio aggregatore per troll e sottoculture digitali – come Anonymous e la stessa alt-right. Il presidente Trump, a caldo, su Twitter condannò in modo generico odio e violenza, mentre in una successiva conferenza stampa difese il monumento del generale Lee (“Che ne pensate di Thomas Jefferson? Vi piace. Bene. Vogliamo tirare giù la sua statua? Era un grosso schiavista. Voi così cambiate la storia e la cultura”)” e rimarcando che entrambe le parti avevano commesso violenze, che in entrambe le parti c’erano “persone perbene”, ma che i media si erano concentrati in un racconto a senso unico.

A guidare le marce neonaziste a Charlottesville c’era Richard Spencer, un suprematista bianco che ha coniato il termine “alt-right” (in origine "alternative-right") e ne ha fatto una maschera semantica con uno scopo ben preciso: il rebranding. Un’operazione condotta attraverso il ripensamento del linguaggio, una certa intellettualizzazione portata avanti anche grazie a think-thank dai nomi tutto sommato istituzionali e sobri (come il National Policy Institute dello stesso Spencer e la New Century Foundation, che pubblica American Reinassance), disinformazione, atteggiamenti provocatori e dissimulazione di tutto ciò. Mescolare l’agenda politica suprematista con la provocazione e il trolling produce un miscuglio certo tossico, ma metabolizzabile dal mainstream.

Richard Spencer aveva già dato al grande pubblico un assaggio delle sue idee nel 2016. The Atlantic lo aveva ripreso quando, a un convegno del National Policy Institute, aveva apostrofato i media mainstream col termine tedesco - e riconducibile alla propaganda nazista - di “Lügenpresse” (“stampa bugiarda”), esibendo un saluto a tema nell’inneggiare a Trump: “hail Trump, hail our people, hail victory!”. Il tutto condito da discorsi su come l’uomo bianco sia “un crociato, un esploratore, un conquistatore”. “Noi riconosciamo la bugia al centro delle relazioni razziali in America”, continua Spencer, “loro hanno bisogno di noi, e non il contrario”.

Circa i fatti di Charlottesville, nel 2019 Spencer ha dichiarato che Unite the right non sarebbe stato possibile senza la presidenza Trump, chiudendo così il cerchio dello sdoganamento: “L'alt-right ha trovato qualcosa in Trump. Ha cambiato il paradigma e reso possibile questo tipo di presenza pubblica per l'alt-right".

Se ci fossero dubbi sulla natura politica dell’alt-right, e sulla centralità ideologica che riveste il suprematismo bianco, basta leggere quanto scrive Andrew Anglin, neonazista e fondatore del sito Daily Stormfront. Sito in cui nel 2016 pubblica A normie's guide to the alt-right: sorta di manifesto dell’alt-right dedicato ai “normali” intrappolati nelle “gabbie mentali del sistema giudaico”. Il titolo della guida è una risposta polemica a quella scritta da Milo Yiannopoulos su Breitbart, An Establishment Conservative’s Guide To The Alt-Right. Nell’affermare la natura senza leader del movimento (“la folla è il movimento”), Anglin ne mappa i vari riferimenti culturali e le idee cardine. “In un’epoca di nichilismo” scrive, “l’idealismo assoluto deve nascondersi nell’ironia per essere preso sul serio”. E questo “idealismo assoluto” è ovviamente una "riedizione [reboot nell'originale, ndr] del movimento nazionalista bianco”:

Il concetto centrale del movimento, su cui tutto il resto si basa, è che i bianchi stanno andando incontro a uno sterminio, attraverso l’immigrazione di massa nei paesi bianchi che è stata resa possibile da un’ideologia liberal di bianchi che odiano se stessi, e gli ebrei sono al centro di questa agenda.

Se le istituzioni sono viste entro un gioco di parti contrapposte - dove abbiamo bianchi fieri contro bianchi che si odiano e prigionieri del “sistema giudaico” - questa contrapposizione si estende naturalmente anche ai luoghi di rappresentanza istituzionale, nel momento in cui da posizione espressa diventa azione politica. E se il "sistema giudaico" è qualcosa che va smantellato, questa operazione non può che passare per lo smantellamento di pezzi sostanziali della democrazia tradizionale, perché in tutto o in parte, secondo questa visione, è contaminata. Ma lo smantellamento non può che portare a una transizione autoritaria, come già sottintende una visione etnica o razziale delle nazioni. Solo negando diritti costituzionali è possibile fermare “l’immigrazione di massa” o connotare razzialmente uno stato, e solo rompendo e poi normando queste rotture, trasformando ciò che è culturale in diritto, slittando verso governance più autoritarie, è possibile trattare gruppi sociali solo e soltanto come se fossero cose da gestire. O distruggere. Non a caso tra i bersagli dell’alt-right possono rientrare anche i “cuckservative”. Un gioco di parole tra “conservative”, per l’appunto l’area conservatrice, e “cuck”, insulto a sfondo sessuale che si rifà a una categoria del porno in cui uomini di solito bianchi si eccitano a vedere la propria moglie fare sesso con altri uomini - in genere neri. I “cuckcservative” sono quei conservatori troppo flessibili verso le posizioni della sinistra e - manco a dirlo - troppo morbidi sulle questioni razziali.

Possiamo indicare la visione politica accentrata dall’alt-right con vari termini, o addobbarla con un’espressione come “anti-establishment”. Possiamo ragionare in termini di appartenenza (un sito come Breitbart è alt-right? Per Steve Bannon, ex collaboratore di Trump e fondatore del sito ovviamente sì, per Anglin decisamente no). Ma la costante è che queste posizioni dovrebbero stare agli estremi, rispetto alle opinioni più moderate e più condivise, com'è in sociologia per la finestra di Overton. Tuttavia la finestra di Overton è una scala plasmabile, non fissa, e molte posizioni radicali, legate all'estrema destra, attraverso la loro continua riproposizione nel mainstream sono diventate un tema quotidiano, muovendosi quindi al centro della finestra, dove sta quella ragionevolezza condivisa che chiamiamo senso comune, o buonsenso, con cui si confrontano i politici quando mettono in moto la macchina della propaganda. E prima o poi è inevitabile che arrivi qualcuno col desiderio di capitalizzare qualunque sguardo entro quell’orizzonte, a capo di quel movimento che è la folla stessa. Certo la presidenza Trump e la sua agenda politica hanno dato una decisiva spinta alla normalizzazione di contenuti radicali - la continua delegittimazione dei media mainstream, il muslim ban, la gestione dei migranti dal Messico, solo per citare alcuni elementi.

Italia, Europa

Anche l’Europa così come l’Italia, sta conoscendo da alcuni anni a questa parte un processo di normalizzazione dell’estrema destra. Quei contenuti e quegli atteggiamenti che prima stavano ai confini del panorama mediatico sono diventati pian piano parte integrante della nostra fruizione quotidiana.

Di recente sulla Bbc si è assistito a un sipario tra il giornalista Andrew Neil e Ben Shapiro. Shapiro, ex editor at large di Breitbart, è uno di quei pensatori radicali dell'estrema destra divenuto famoso soprattutto per la sua supposta capacità di "distruggere con FATTI e LOGICA" (il caps lock è tipico in questo tipo di comunicazione) gli argomenti della sinistra liberal. Quando Andrew Neil gli chiede conto della recente ondata di leggi anti-abortiste, con legislazioni che vietano l’aborto dopo sei settimane, da principio Shapiro risponde con un’affermazione ampiamente discutibile (“la mia risposta è qualcosa chiamato scienza, la vita umana inizia al concepimento”). Poi inizia ad attaccare senza tregua un serafico Neil sulla sua presunta faziosità - nonostante il giornalista sia un noto conservatore. Alla fine dello scambio e della scenetta un po’ penosa, un po’ vittimista, di fatto Shapiro evita di rispondere alla domanda, guadagnando però un’amplificazione dell’intervento. E su Twitter non ha avuto problemi a scrivere “Neil 1, Shapiro 0”. Perché l’obiettivo di Shapiro era partecipare, non vincere.

Commentando il segmento, Nesrine Malik ha scritto sul Guardian:

La valuta di Shapiro non sta nella sua abilità di dibattere o nelle credenziali intellettuali, è puramente nel mostrarsi in giro in modo che la sua ubiquità diventi un surrogato di successo. Questa è una tattica di altri della sua tribù, costruire un profilo online tale che i media mainstream caschino nell’illusione ottica, ed eventualmente forniscano il passaggio alla rispettabilità. Interviste in cui questi personaggi sono messi alla prova, con successo o meno, sono parte dei loro tour. Loro possono dire che si tratta della prova della cattiva fede o dei bias dei media, o presentare questi scambi come incontri sportivi, dove ci sono sconfitti, vincitori e rivincite. Il contenuto dei loro messaggi diventa secondario, la serietà banalizzata.

Questo è uno schema che per noi italiani è collaudatissimo. Nel teatrino televisivo dei talk-show, dove a contare è la riconoscibilità del personaggio, assistiamo da anni e quotidianamente a figure magari definite “controverse” che portano posizioni radicali verso il cuore della pubblica opinione, tra una “provocazione” e l’altra, come mestieranti che passano da un talent all’altro nella speranza di essere notati e, se va bene, sfondare. L’idea di partigianeria e di fazione, del resto, è un’impalcatura discorsiva che veicola la contrapposizione come un contenuto di valore - se ci sono due parti che litigano allora è un confronto, a prescindere - ed è quindi la premessa accettabile per un gioco al ribasso sulla qualità dell’informazione. A che serve un esperto di qualunque campo, se non puoi mettergli contro qualcuno che sostenga a prescindere un’idea di direzione opposta?

Così un Fusaro può essere messo sullo stesso piano della portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi, e di fronte all’ennesima emergenza sfruttata per calcolo politico ripete le pappardelle cospirazioniste su Soros, senza neanche essersi informato prima su chi finanzia la Ong - tanto basta evocare Soros come per fare “buh!” agli spettatori. Si dà per scontato che nessuno, in uno studio televisivo, si sentirà chiedere “Perché, di fronte a una persona che annega, è sensato pensare se la salvo aiuto la finanza apolide? Lo faresti se fossi di fronte a una persona che rischia di morire davanti ai tuoi occhi? E se fosse qualcuno che conosci? Ti è mai morta una persona davanti agli occhi? Hai mai rischiato di morire, e la tua salvezza è dipesa dalla persona che ti stava di fronte? Se sì, quella persona si è prima messa a controllare il tuo paese di provenienza, o chi finanzia l’ospedale? O il colore della tua pelle?” Nessuno se lo sentirà chiedere, perché, se si iniziasse a farlo, la fila di ospiti messi in imbarazzo di fronte al pubblico diventerebbe cospicua. E perché si dovrebbe ragionare sul fatto che anche chi migra, o fugge per sopravvivere, ha diritto di parlare davanti alle telecamere, invece di essere trattato solo come un argomento per bianchi. Ma accade invece che, dal giorno dopo, queste figure torneranno di nuovo nella parte, pronte in caso a giocarsi la carta della “censura del politicamente corretto” contro chi muove critiche, indossando una maschera eroica sopra il volto ciarlatano. E così, dietro la facciata dell’intellettuale indipendente e scomodo, il presenzialismo dei Fusaro è utile alla causa della normalizzazione. Ne è la versione con le glosse colte.

In un certo senso per noi è sempre stato consuetudine concepire l’informazione così, quasi che la divulgazione e l’approfondimento siano viziati dal sospetto di essere troppo noiosi. Un Santoro, per dire, nelle sue trasmissioni ha qualcosa del guru, del sacerdote che officia la grande messa del giornalismo d’inchiesta. Non ci è mai apparso come un compassato conduttore anglosassone. Eppure, allo stesso tempo, siamo ormai a un punto in cui qualcosa è drasticamente cambiato, e in peggio. Guardare sul lungo periodo a queste dinamiche è come sfogliare un album di fotografie e, girata una pagina, iniziare a notare delle incongruenze evidenti. Il consenso politico arriva dopo, o al limite durante. Ci si trova così, un giorno, per la precisione a una settimana dalle recenti elezioni europee, a fissare increduli un servizio del Tg2 che dipinge la Svezia come un paese in cui in alcuni quartieri “vige la sharia”, impacchettando, in mezzo a un paio di interviste, bufale d’annata su record di stupri e “no go zones”. Una specie di Scandinavia Saudita, in pratica, con tanto di tweet ad annunciare che in Svezia “fa molto discutere il fallimento del modello di integrazione”.

Al servizio è seguita una rettifica dell’Ambasciata svedese in Italia. Ma questo non ha certo impedito al Ministro dell’Interno, pochi giorni dopo e in spregio del silenzio elettorale, di riprendere comunque il servizio, aggiungendovi le scritte “SVEZIA INVASA” e “STOP EURABIA”. Contenuti e stili che, fino a qualche anno fa, caratterizzavano le pagine o i canali YouTube complottisti, nelle periferie più paranoiche del web, oggi sono diventati i codici espressivi canonici della comunicazione istituzionale o del servizio pubblico. Informazioni completamente false, o parzialmente vere ma prive di contesto, sono confezionate per trasmettere emozioni. Le nuove leve tra gli spin-doctor sono le voci che si presentano falsamente come indipendenti e che mimano il fact-checking per veicolare bufale di estrema destra. Sono i re-informatori, quelle figure che forniscono una lettura politicamente orientata della realtà, però occultandola sotto il mantello della contro-informazione. Come Matteo Montevecchi, ex consigliere comunale di Santarcangelo di Romagna eletto con Fratelli d’Italia, reclutato a marzo da Simone Pillon. Se a parlarti di sostituzione etnica ed Eurabia è uno che sembra il figlio sgobbone e sveglio del tuo vicino di casa, magari ti impressioni meno rispetto a quando lo fa quell’altro vicino, che cita il Mein kampf come fosse la Bibbia.

Questo stile paludante non è inedito. Lo troviamo anche in una trasmissione come La gabbia (andata in onda fino al 2017), in particolare nei video di “Io sono Nessuno”, a cura di Francesco Borgonovo. A parlare nei video non è un giornalista, né si tratta della canonica voce fuori campo che parla mentre scorrono le immagini. A parlare è un simbolo - “Nessuno”, per l’appunto - una maschera che talvolta si palesa fisicamente in studio, con una mimica didascalica. Nessuno ci porta nei meandri di oscuri enigmi politici, si rivolge direttamente a noi (“sentite”, “ascoltate”, “lo sapete...?”), la sua enfasi allarmista e torva  (“adesso ve la faccio vedere io la giustizia sociale”) accompagna le grandi scritte che sintetizzano le terribili, incombenti minacce - come “GRANDE INVASIONE”.

Video come L'Europa sta affondando ma a tenerla a galla ci pensano le potenti lobby o Il piano della Boldrini per la grande invasione, sul piano giornalistico denotano più che altro un'inquietante ossessione per Laura Boldrini. Mentre l’annuncio che dopo la sconfitta del “No” al referendum del 2016 gli “eurocrati” avrebbero vendicato Renzi mandando in Italia la Troika può essere annoverato tra le mancate profezie. Sul piano della narrazione, invece, ci troviamo in una versione aggiornata dei Visitors o Dell’invasione degli ultracorpi, con gli stranieri al posto degli alieni. Tuttavia una figura limite come Nessuno, che dalle sponde del giornalismo volge la faccia alle teorie del complotto, svolge la funzione di apripista.

Questa versione europeizzata della Grande sostituzione (e del Genocidio dei bianchi), in tutto e per tutto analoga all'alt-right americana e che talvolta si accompagna a una giustificazione pseudocumentale (il cosiddetto Piano Kalergi), è almeno dal 2015 che si fa strada nei media mainstream, anche grazie alla cassa di risonanza delle forze politiche che l'hanno inglobata nella propaganda. Giova citare Valerio Renzi, giornalista e autore della Politica della ruspa, libro uscito sul finire di quell’anno:

Nell’incubo del mondo globalizzato le destre elaborano una visione della realtà estremamente precisa, che alimenta le paure, spesso irrazionali, di chi si trova ad affrontare una realtà che cambia. Il modello negativo, l’incubo, è il melting pot della società americana, dove l’identità e la tradizione si snaturano in un tutto indistinto. Sarebbe in atto una vera e propria “sostituzione di popoli”, espressione usata più volte in questi esatti termini dallo stesso Salvini, su Facebook o in prima serata sul piccolo schermo. La sostituzione non sarebbe che la volontà di oscuri poteri, indicati spesso con il termine di “mondialismo”, che starebbero mettendo in atto un piano per sostituire i popoli indigeni con le popolazioni immigrate.

Tuttavia a queste scheggie che circolavano a gran velocità nel panorama mediatico mancava ancora qualcosa. Una narrazione che potesse accentrarle, strutturarle, e farne sostanza politica a vocazione maggioritaria.

La Grande narrazione sovranista

In Italia non abbiamo avuto bisogno di un’alt-right per normalizzare l’estrema destra. La ricercatrice Julia Ebner, riguardo alle strategie delle community italiane di estrema destra per le scorse elezioni politiche, faceva notare che “Nel caso dell’Italia, abbiamo osservato discussioni tra gruppi neofascisti dove si discuteva dell’opportunità di sostenere Salvini e dove alla fine si decideva di condividere i contenuti della Lega”. Ma un punto di svolta politico per il processo di normalizzazione è stata la comparsa della Grande narrazione sovranista (il cosiddetto “sovranismo”). Come ricordato da Davide Maria De Luca sul Post, “sovranismo” nell’accezione corrente è entrato nell’uso comune da pochi anni (dal 2017 è nel dizionario Treccani). La lingua inglese, per esempio, non ha un equivalente di “sovranismo”, e usa di solito l’espressione “national populism” (o la più estensiva "right-wing populism"). Ossia populismo nazionalista, che è un’area politica tradizionalmente di estrema destra. Solo che da noi “nazionalismo” sta meno al centro della Finestra di Overton, rispetto a “sovranità popolare”.

Perché quella del sovranismo è una grande narrazione? Perché, a differenza di un’ideologia e come la propaganda, si appoggia soprattutto sulla sospensione d’incredulità, non su concetti separabili dal racconto. Si basa sul credere e sul coinvolgimento, non sul pensare. Il credente non sottopone a verifica l’oggetto del suo culto: se ne scrive o ne parla, tende all’agiografia, non alla riflessione critica. Come ogni racconto, l’epicità della Grande narrazione sovranista prevede eroi ed antagonisti. L’eroe in questo caso è il politico anti-establishment, che come un novello Amleto si trova a corte, sì, ma per vendicare la morte del padre, ovvero la volontà popolare. La volontà popolare era legittima e assoluta: nella versione italiana, infatti, si fonda sulla mitizzazione dell’art. 1 della Costituzione: “la sovranità appartiene al popolo”. Poco importa, ai fini della storia, che nella realtà quell’articolo poi prosegua con “che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione”.

Il politico anti-establishment non deve limitarsi a governare. Amleto parla di vendetta, e la vendetta è la hybris di chi ha subito un’ingiustizia che non augureremmo a nessuno, pure se ha in sé una certa dose di speranza: quella che l’empio non la faccia franca. Ma a differenza di Amleto il politico anti-establishment ha pochi dubbi, anzi, è forse questa la sua principale virtù, l’andare dritto al punto senza tanti fronzoli e senza tante mediazioni. E quindi possiamo ancora più liberamente proiettare i nostri desideri di vendetta e identificarci con lui. Passa in secondo piano che, edipicamente, l’eroe sotto sotto vorrebbe giacere nello stesso letto dell’establishment, o che forse ci ha già dormito. Questo perché nella grande narrazione sovranista l’eroe ha un bel daffare. C’è ben più di un nemico da sconfiggere, c’è un’intera rete di potentati che hanno cospirato fuori scena: il globalismo, la finanza apolide, gli eurocrati. E le streghe Boldrini e Bonino al servizio dell’oscuro Soros. Di fronte a forze così terribili e minacciose non vorreste anche voi aggrapparvi a un qualunque barlume di speranza, intanto che rabbia, odio e paura vi avvelenano l’animo?

Nella narrativa, come nel teatro, portiamo a galla contenuti che sono socialmente repressi - come odio, vendetta, pulsioni omicide, traumi personali e collettivi - e restituiamo complessità al reale in una dimensione simbolica. La finzione è una quarta parete che ci protegge mentre esploriamo, attraverso storie e personaggi, regioni oscure dell’animo umano che nel quotidiano o in noi stessi magari non vogliamo vedere. Il nostro orizzonte d’attesa è in qualche modo sfidato dall'opera. È centrale l’elaborazione del messaggio. Nella propaganda si opera una sintesi, una semplificazione, perché bisogna veicolare messaggi complessi in un modo che sia il più semplice possibile. È centrale il legame tra mittente e destinatario. Dunque nella propaganda di qualunque colore politico c’è sempre una maggiore o minore quantità di rimosso socialmente rilevante. Al limite a variare è la spregiudicatezza dell’operazione. Nella propaganda l’orizzonte d’attesa va continuamente ricreato e mantenuto attraverso il consenso.

Sotto questa lente la Grande narrazione sovranista è dunque un palinsesto per rimuovere la natura reale di contenuti politici di estrema destra, in particolare del nazionalismo e del suprematismo. Attraverso l’imposizione di frame nell’agenda mediatica e la crescita del consenso, questi contenuti possono via via diventare più espliciti. Sappiamo quanto i media nostrani tendano a riprodurre il linguaggio della politica, ponendosi mimeticamente, invece di interpretarlo e quindi di mediarlo agli occhi dell’opinione pubblica. In questo approccio mimetico e acritico, o anche nella semplice riproposizione di virgolettati a effetto nei titoli, è già all’opera la normalizzazione. Ci svegliamo la mattina, magari assonnati beviamo il caffè e scorriamo Facebook sul cellulare, e veniamo a sapere dal tal politico che siamo invasi da terroristi infiltrati nei barconi. Finiamo il caffè e ci prepariamo per la giornata. In autobus poi leggiamo l’ennesima polemica su Giorgia Meloni contro Soros, solo che stavolta il suo partito lo chiama “usuraio”, sdoganando uno stereotipo antisemita.

Oppure la sera, guardando distrattamente la televisione, vediamo i servizi su Torre Maura e Casal Bruciato, con i militanti di CasaPound in prima linea. Poi in studio qualcuno ci spiega che CasaPound almeno dà voce al disagio delle periferie. Una versione che non viene praticamente mai contestata dai media mainstream, quando invece gli elementi per sollevare più di un dubbio ci sarebbero. Capita poi che i media e politici di opposizione, nel leggere le notizie, abbiano introiettato i frame anti-immigrazione al punto che ormai non serve più un linguista come Lakoff, ma direttamente Freud. Lo si è visto nelle recenti elezioni danesi, che da più parti sono state lette secondo lo schema “i socialdemocratici hanno vinto scegliendo la linea dura sull’immigrazione”. Non è andata esattamente così - anzi, il crollo del Partito del Popolo Danese, di estrema destra, è probabilmente dovuto al fatto che la campagna elettorale non è stata dominata dai temi dell’immigrazione, sottraendo così un facile terreno di consenso.

Ma vediamo le strategie retoriche della grande narrazione sovranista, premettendo che il loro impiego non è sinonimo di appartenenza a quell’area politica, ma attesta un contributo al processo di normalizzazione.

1) La prima è la creazione di un’identità nazionale fittizia. Il popolo dei sovranisti è qualcosa di a-storico e pre-sociale: è un unicuum astratto. Qualunque politico vagamente assennato cercherà di parlare a nome del popolo, ma solo i demagoghi più spregiudicati si mettono alla testa di un popolo che ha sempre ragione. Così, se c’è oppressione, viene dall’esterno, o da elementi estranei al popolo. Questo discorso identitario è naturalmente un dispositivo retorico per poter imporre nel discorso pubblico “decidiamo noi chi è popolo e chi no”. La cittadinanza dei sovranisti è un fatto etico ed etnico. Il cittadino è un bravo suddito. Lo straniero vi può rientrare solo quando è “integrato” secondo il volere di chi “lo ospita”, l’italiano smette di essere popolo quando commette un reato da impugnare contro la folla aizzata - e allora in quel caso è solo un criminale che deve “marcire in galera”. Chi esprime dissenso è etichettato e stigmatizzato, quindi isolato rispetto al popolo.

Addirittura in queste europee si è parlato di una “internazionale sovranista”, al di là di confini e contesti nazionali specifici - si sa, noi italiani siamo sempre stati un po’ gli ungheresi del Mediterraneo. I media si sono prestati al giochino, magari parlando di “alleanza sovranista che sfida l’Europa”, o di “Santa alleanza sovranista a guida Salvini”. Peccato che poi, a urne chiuse, l’area sovranista non solo abbia conseguito un risultato nel complesso ancora marginale, ma via via si sono sfilati alcuni esponenti - Victor Orbán ha preferito restare nel Ppe. Nel collocarsi nei gruppi europarlamentari, gli interessi dei partiti sovranisti sono tutto fuorché convergenti. Ad esempio i polacchi di Diritto e Giustizia sono fortemente orientati contro la Russia - differenza non da poco.

Rientra in questa costruzione fittizia il richiamo alle “radici cristiane dell’Europa”, un modo molto suggestivo di buttare agli estremi della Finestra di Overton temi come la laicità dello Stato o il diritto di scelta quando si parla di aborto. Perché, tralasciando la cultura ellenica, o quella latina, o quella ebraica, o di qualunque popolazione di epoca pre-cristiana, quali sarebbero queste radici? Quelle che hanno prodotto lo scisma protestante? Quelle che hanno portato Galileo Galilei ad abiurare e Giordano Bruno a essere arso vivo? Il cuius regio eius religio? E Leopardi, che era materialista, è autore anti-europeo? Gli storici atei sono meno europei di un qualunque cristiano? Gli studenti che scelgono attività alternative all’ora di religione perdono il legame con le radici dell’Europa? Noè fa parte delle nostre radici perché sta nella Bibbia, e Utnapishtim no perché è nell’Epopea di Gilgamesh? E così via.

2) Complementare a questa identità fittizia è la creazione di nemici esterni, tanto più pericolosi quanti immateriali. Le élite sono sempre esterne al popolo, o sono nemiche della sua identità (ciò non vale per le élite sovraniste). Oppure sono nemici in seno al popolo, portatori di una visione “multiculturale”, e quindi pro-Unione Europea ("gli euroinomani"), il tutto all'ombra della sostituzione etnica. Una narrazione che si appoggia agevolmente sulla crisi dei partiti tradizionali, ma che offre una lettura semplificata e unilaterale. Prima del “Governo del cambiamento” il Movimento 5 Stelle dava addosso alla Lega in pieno stile “anticasta”, salvo poi diventare il Pd MenoElle di questo governo, costretto a sostenere posizioni indigeribili per il suo elettorato, e non a caso punito poi in termini di consenso a ogni tornata elettorale. Ma se i governi precedenti erano opera degli “eurocrati”, questo è stato sancito da Giuseppe Conte, “avvocato del popolo”. Eppure esistono partiti che hanno un forte carattere identitario, come lo Scottish national party (primo partito in Scozia): indipendentista, ma social-democratico e pro-unione Europea. Mentre i verdi, che alle ultime europee hanno segnato un successo forse sottovalutato dai media, sono caratterizzati da forti elementi ideologici, ma su tematiche ambientaliste. Chiamano quindi in causa le élite, in particolari industriali e politiche, mentre sensibilizzano l’elettorato su un’agenda politica ben precisa. Quest’ultimo è un forte elemento di rottura dello schema “popolo vs élite”, e spiega in parte come mai, nella Grande narrazione sovranista, una Greta Thunberg sia attaccata in modo molto meschino e rancoroso, con tutto il corollario di complottismi ad hoc.

3) Questa costruzione identitaria ha bisogno di una retorica post-ideologica. Aiuta a essere meno circoscrivibili, e quindi più liquidi, più permeabili. Se definisco le mie posizione di “buonsenso” o come “né di destra né di sinistra”, se dichiaro superate le categorie politiche tradizionali, come se dall’oggi al domani fossero diventati elettrodomestici rotti, mi colloco nel dibattito pubblico in una posizione che è difficile definire, e che quindi può muoversi più facilmente rispetto alle contrapposizioni canoniche. Creo inoltre un ostacolo, laddove aumenta il consenso, per chi vuole evidenziare la radicalità delle posizioni e i pericoli che rappresentano e, soprattutto, la continuità storica di queste posizioni - com’è per l’appunto con il mito della Grande sostituzione e il suprematismo bianco. In pratica sto limitando l’applicabilità di strumenti interpretativi ridefinendo il vocabolario del dibattito pubblico.

Rientra in questa strategia la banalizzazione del fascismo (“è un fenomeno storico, superato”, “CasaPound ha preso lo 0,3 alle elezioni”). Questa banalizzazione sfrutta un’accezione estesa del termine “fascismo”, che in Italia è usato sia per il fascismo storico, sia per i movimenti neofascisti, sia come sinonimo di “autoritario”. Sfrutta anche la falsa idea che un partito di estrema destra sia un problema solo quando la maggioranza delle persone inizia a girare con il fez o fa il saluto romano. Ma lo Stato autoritario è un problema del passato, o un fenomeno che esiste nel presente? Ovviamente la seconda. E la transizione da democrazia a stato autoritario (o, per dirla come Orbán, a “stato illiberale”) avviene da un giorno all’altro o per gradi e strappi? Consideriamo inoltre gli omicidi della parlamentare britannica Jo Cox e del politico tedesco Walter Lübcke. La prima è stata uccisa da un neonazista, il secondo, dopo una campagna d'odio alimentata dall'estrema destra, ha visto le indagini portare alla confessione di Stephan Ernst, estremista proveniente da ambienti neonazisti - un caso che in Germania ha sollevato un dibattito nazionale sul pericolo del terrorismo di estrema destra. La loro morte va considerata come la parte più visibile e tragica di un pericolo sociale, oppure per poterci allarmare dobbiamo aspettare che nei rispettivi paesi i neonazisti vincano le elezioni con almeno il 51%? Chi ha bisogno di una risposta può trovarla nelle parole del Ministro degli esteri tedesco, che ha commentato così l'omicidio di Lübcke: "Troppo spesso si è parlato di casi individuali o follia omicida, nel commentare attentati della destra. Il terrorismo è terrorismo. Non c'è niente da relativizzare."

Vi è una componente psicologica in chi, magari in buona fede, accoglie questa banalizzazione e la fa propria, prestando il fianco alla normalizzazione. Come spiegato dal filosofo e scrittore Rob Reiner la negazione è un atteggiamento umano, di fronte a verità scomode o cattive notizie. Per cui negare la matrice ideologica di un’agenda politica di estrema destra e la sua contestualizzazione è anche un modo abbastanza primitivo di proteggersi. E tanto più si è socialmente in alto, tanto più si avrà qualcosa da proteggere.

4) Oltre alla retorica post-ideologica la grande narrazione sovranista ha bisogno del vittimismo. Il vittimismo è un atteggiamento politico abbastanza diffuso nella politica nostrana: pensate a quanti politici, negli anni, avete visto andare in tivù a lamentarsi di avere tutti i media contro - Renzi è ancora convinto di aver perso per colpa delle fake news. Questa strategia si è di recente acutizzata in Salvini, come fatto notare da Luca Sofri, che parla di “simulazioni di fallo” e di “Golia buono”, visto che l’aumento del consenso elettorale rende meno credibile lo schema Davide vs Golia.

Rispetto alla costruzione identitaria, inoltre, il vittimismo contribuisce ad annullare le differenze di classe e quindi i conflitti particolari all’interno delle fasce elettorali, proprio perché quel popolo e quelle élite sono uniti nell’essere vittime degli oscuri poteri sovranazionali e multiculturali. Abbiamo perciò una narrazione conservatrice rispetto ai rapporti di forza. E che, dato un problema da affrontare, predilige capitalizzare il consenso, magari a scapito del problema stesso. Pensate solo all’uso strumentale dei terremotati, il modo in cui sono contrapposti ai migranti (“invece di pensare ai migranti sui barconi, pensate ai terremotati”). Non è ridicolo e offensivo se a dirlo è un ministro o un parlamentare di una maggioranza governativa? Non è casomai lui che è chiamato a pensarci, e a dover rendere conto di eventuali ritardi o carenze nell’azione politica? E i commentatori che sposano questa retorica, non dovrebbero invece chiedere conto ai politici di cosa hanno fatto a riguardo?

Il vittimismo è anche un modo per far sembrare eroiche le proprie posizioni. Perché se parlo da una posizione di minoranza e sono persino oppresso per le mie idee, ciò che dico ha più forza, rispetto al messaggio nudo e crudo. Il fatto stesso di lanciare un messaggio è un atto di ribellione, e chi manifesta dissenso verso il messaggio può essere additato come oppressore. Quante volte abbiamo sentito l’espressione “pensiero unico dominante”, senza che si capisca bene quale sarebbe questo pensiero, perché sarebbe unico, e perché sarebbe dominante? Perché un giornalista non ride in faccia al politico governativo che si erge contro questo "pensiero unico"? Quante volte abbiamo sentito l’espressione “dittatura del politicamente corretto” (il fascismo è un problema del passato, però esiste una qualche forma di dittatura, al contempo?), per giustificare posizioni provocatorie o persino reati di opinione? Nel commentare la condanna per diffamazione del senatore Simone Pillon, Massimo Gandolfini, organizzatore del Family Day, parla di una “voce pubblica che ha sempre avuto il coraggio di chiamare i fatti con il loro vero nome, senza mai piegarsi alla dittatura del politicamente corretto che tenta di nascondere la verità”. Sarebbe curioso capire perché, nel caso specifico, manipolare materiale didattico sul bullismo omofobo per accusare un’associazione Lgbtq+ di indottrinamento “gender” (come hanno stabilito i giudici) sia una specie di resistenza partigiana. In ogni caso siamo di fronte a una dittatura eclettica, perché lo stesso Pillon, nel commentare a sua volta la recente condanna di Gandolfini, sempre per diffamazione e stavolta ai danni dell’Arcigay, parla di “dittatura del relativismo”.

Questi stratagemmi avrebbero poca efficacia senza l’ultimo e più importante: la polarizzazione. Radicalizzare il dibattito è un modo per giocare al tiro alla fune, è un continuo all-in per buttare agli estremi della finestra di Overton la posizione perdente. Aiuta a stare nel ciclo della notizia, anche solo con la solita sparata provocatoria o trollata, che nel monitoraggio delle conversazioni diventa una sorta di stress-test dell’opinione pubblica. Se c’è un “pericolo relativista”, in Europa, è proprio nella polarizzazione a tutti i costi, perché la polarizzazione chiede di schierarsi, non di capire o fissare dei punti fermi. Ciò può avere senso su temi particolarmente sensibili (ad esempio se un giornalista riceve minacce di morte), ma se è la forma base di un dibattito, la polarizzazione educa i partecipanti - da chi parla al pubblico, passando per chi modera - a stare divisi e a combattersi. Indebolisce l’idea che in politica è importante mediare, rende leciti e ordinari gli attacchi alla persona, o il puro e semplice buttarla in vacca.

Nell’Arte di ottenere ragione, Schopenhauer lo dà come ultimo stratagemma, nell’ottica dei rimedi estremi: “quando ci si accorge che l’avversario è superiore e si finirà per avere torto”, scrive, “si abbandona del tutto l’oggetto e si dirige il proprio attacco contro la persona dell’avversario. Si tratta di un appello delle forze dello spirito a quelle del corpo o dell’animalità”. Oggi è tuttavia una specie di imperativo, e la Grande narrazione sovranista trova nella polarizzazione un vantaggio, quello di rendere accettabili delle posizioni solo perché al di là della barricata c’è qualcuno che si è imparato a detestare a prescindere. Permette inoltre, in fase di legiferazione, di far passare una posizione estrema come più moderata, rispetto al bombardamento mediatico che l’ha preceduta. Se dichiaro per mesi che i rom vanno spazzati via, o che meritano un dossier, poi qualunque provvedimento proposto che sia inferiore a quel grado di estremismo sarà percepito come più moderato, anche se esprime di per sé una visione politica razzista.

Propaganda vs Realtà

Se guardassimo fuori dalla dimensione del racconto, dovremmo vedere tutte le crepe della Grande narrazione sovranista. Primo tra tutti: l’incongruenza nostrana di un partito che si professa anti-establishment pur essendo il più longevo sulla scena politica italiana, e pur essendo stato più volte al governo. Con un segretario che ha avuto il primo incarico elettivo - consigliere comunale - nel 1993, quando la più giovane generazione dei suoi elettori non era ancora nata. E che non manca, specie al Sud, di imbarcare quella classe dirigente contro cui tuona dai pulpiti elettorali. Ma, più in dettaglio e allargando il discorso alla cosiddetta internazionale sovranista, ci viene in soccorso il rapporto del Corporate europe observatory, dal titolo eloquente - Europe’s two face authoritarian right: “anti-élite” parties serving big business interests. Il rapporto, oltre a una panoramica sui vari partiti di estrema destra di 14 paesi europei (tra cui l’Italia), prende in esame i provvedimenti votati al Parlamento europeo. Cioè la misura tra quello che un partito dichiara e quello che effettivamente fa per i cittadini.

Tra i provvedimenti presi a campione, figurano temi come tasse, condizioni lavorative e contrasto alla grande evasione fiscale. Provvedimenti che magari riguardano semplici impegni, o richiami a proposte. Lo schema riassuntivo delle votazioni mostra forti divergenze tra i vari partiti “sovranisti”, a eccezione di tre provvedimenti: la proposta per una direttiva su condizione lavorative dignitose per i lavoratori (paragrafo 62 del testo A8-0271/2017), dove solo i Democratici svedesi hanno votato a favore, l’impegno del Parlamento europeo per proporre una tassazione minima effettiva per le società (emendamento 91 del testo A8-0050/2018), che ha visto i partiti “sovranisti” votare compatti contro, e il richiamo alla Commissione per un emendamento che superi in tempi rapidi i sussidi alle fonti fossili, sul cui impiego grava anche la differente tassazione tra gli Stati membri (emendamento 1 del testo A8-0319/2015), dove l’unico a non votare contro, astenendosi, è stato il Partito del popolo danese.

Ma è nell’analisi dei singoli Stati che la Grande narrazione sovranista si rivela per quello che è: una corrente politica che, a dispetto dei proclami rivoluzionari, premia interessi particolari a senso unico. In Ungheria, forse il paese considerato più forte tra i “sovranisti”, le tassazioni agevolate per le imprese sono le più basse dell’Unione. Un gioco al ribasso fiscale che però fa dipendere l’economia da capitali esteri, in particolare da quelli tedeschi. Il boom di aziende straniere, tanto che secondo il Sole 24 Ore la flat tax ungherese attira un’impresa italiana al giorno, è possibile anche per un altro elemento: il salario minimo in Ungheria è tra i più bassi (sotto troviamo Bulgaria, Lettonia e Bulgaria). Va ricordato inoltre il provvedimento per alzare il tetto degli straordinari a 400 ore annue, pagabili fino a distanza di tre anni. Un provvedimento che nel dicembre scorse ha causato proteste di massa contro la “legge schiavitù”. Anche perché, fa notare il Corporate european observatory, a seguito delle protesta il governo ha reso volontari questi straordinari, ma allo stesso tempo permette alle imprese “di negoziare individualmente con i lavoratori, ignorando trattative collettive e sindacati”. Nel rifiutare gli straordinari un lavoratore si trova quindi da solo dal lato meno piacevole di una pistola puntata. Confrontando queste politiche con quelle anti-immigrazione, viene da parafrasare le Domande di un lettore operaio di Bertolt Brecht, “il muro tra Ungheria e Serbia, chi lo costruì? Non è stato certo Orbán a srotolare il filo metallico.”

Anche in Austria i “sovranisti” dell’Fpö hanno usato le tematiche immigratorie e i proclami contro i “poteri forti” per capitalizzare il consenso elettorale. Poi, una volta al governo, hanno votato una legge che alza il tetto delle ore lavorative settimanali da 48 a 60, senza alcuna garanzia per il pagamento degli straordinari. “Questa legge è simile alle ‘legge schiavitù’ introdotta dal Governo di Fidesz in Ungheria per volere degli interessi aziendali” spiega il report. Va detto inoltre che, pur avendo tenuto alle elezioni europee, lo scandalo che ha travolto l’ormai ex leader dell’Fpö, ripreso di nascosto mentre trattava con una sedicente oligarca russa affari più elitari che populisti, ci dice quanto queste leadership, che si vorrebbero in linea con le grandi masse oppresse, siano giganti dalle caviglie di argilla, quando contropoteri come il giornalismo svolgono fino in fondo il proprio lavoro.

E la Lega? La valutazione del rapporto è perfettamente in linea con quella di altri partiti:

Pare che la Lega stia semplicemente sfruttando il linguaggio di chi critica l’enorme potere delle grandi aziende e degli interessi particolari. Allo stesso tempo le lobby aziendali sembrano vedere nei politici della Lega una via d’accesso al potere, mentre gli europarlamentari e gli alleati politici hanno interessi personali che sollevano dubbi sulla loro indipendenza. Nel frattempo, dove la Lega va gli scandali di corruzione sembrano seguirla.

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Le Grandi narrazioni sono purtroppo un problema endemico e di lungo corso per il sistema politico-mediatico del nostro paese. Sono come dei macropalisensti, e diventano il presupposto per qualunque notizia inerente chi è al potere. Certo ha inciso il passaggio a una politica dove è centrale la figura del leader. Però, tralasciando il “rottamatore” assediato dai “gufi rosiconi” e dai “parrucconi”, persino un premier dai modi miti come Mario Monti era presentato in maniera enfatica dai media - ve lo ricordate “Super Mario”? È come se noi italiani, nell’approcciarsi alla dimensione sociale e politica, più di altri popoli fossimo incapaci di fare a meno della teatralizzazione o del tifo da stadio, o avessimo bisogno continuamente di ricordarci questa istintualità culturale, nel passare a un approccio più razionale, in modo da emanciparci da forme surrogate di appartenenza. Quanti, tra chi legge, hanno votato alle elezioni europee studiandosi i programmi?

Certo, è ampia la schiera dei menestrelli di corte, o di chi fa chiasso fuori dalla reggia sperando di essere ammesso. E nel loro strimpellare, o nei cinguettii, dicono che insomma, chi vuoi che guardi i programmi, a contare è ben altro in politica. Chi prende più voti ha ragione, dicono, perciò zitti, muti. Invitano a guardare ciò che guardano loro, come se non esistesse altro: è il primo presupposto di ogni buon narratore, quello di condurre il pubblico dove vuole lui. Ma ci sono aspetti che sono fondamentali perché interrogano ciascuno di noi, al di fuori di sondaggi e croci in cabina elettorale. E allora, mentre con più insistenza si affacciano dagli estremi della finestra di Overton parole come "Italexit", piuttosto che domandarci quali politici scegliere, chiediamoci che cittadini vogliamo essere. Che persone vogliamo essere, quale esempio vogliamo dare per noi stessi e a chi abbiamo accanto. Forse dovremmo educarci a guardare il più possibile fuori dalle bolle cognitive, oltre quei muri che, a dispetto dei proclami, come ogni opera dell’uomo conosceranno prima o poi la polvere. E quel giorno i menestralli taceranno, o come nulla fosse cambieranno spartito.

Immagine in anteprima via @hansalexrazo

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